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L’eccidio di Melissa

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Il 25 ottobre del 1949, dai calanchi dell’Aspromonte, sull’altopiano del Crotonese, alle pendici della Sila, in ogni paese della Calabria, dapprima in piccoli gruppi poi in decine di migliaia, un esercito di braccianti, di donne, di pastori, di reduci, invase il latifondo incolto. Il 29 ottobre, l’eccidio di Melissa.

Quel giorno, appena velato dalle nuvole, i braccianti che da qualche giorno avevano occupato i fondi di Fragalà, videro arrivare da lontano gli uomini in divisa e si disposero a semicerchio: le donne ed i bambini avanti, gli uomini dietro. Accolsero la celere con applausi «W la polizia della Repubblica, W i carabinieri della repubblica!»

Spararono! Angelina Mauro doveva sposarsi qualche giorno dopo, trovò la morte sui campi di Melissa e con Lei Antonio Zito e Francesco Nigro. Lucia Cannata lottò per gironi tra la vita e la morte. Zito era poco più di un bambino, aveva appena quindici anni.

Compiuto l’eccidio, le forze dell’ordine sparano anche sugli asini, sui barili, sfondarono le sporte.

A sera, questo esercito di lavoratori dagli scarponi chiodati, di donne scalze, rientrò in paese, portando i morti a dorso di asino, i feriti legati ai basti, trascinando le armi con cui erano andati a combattere: gli attrezzi del loro lavoro.

A Fragalà restarono le prove dei loro “crimini”: la terra liberata dai rovi, ed alcuni alberi selvatici che avevano appena innestato.

Questi “criminali” volevano lavorare, produrre per sé stessi e per gli altri.

Avevano creduto nella Costituzione che vuole le Repubblica fondata sul lavoro.

Volevano un Sud rinato grazie al loro sudore.

Incontrarono lo stato che non fu mai il loro Stato.

Morirono giovanissimi per la loro terra. Nessuno li riconobbe come martiri e come eroi. I loro nomi non dicono niente fuori della Calabria e pochissimo nella nostra stessa Regione. Le loro ossa sono andati a finire negli ossari comuni.

Dopo le cariche di polizia dei giorni precedenti alla Ferdinandea, a Polistena, a Strongoli, ad Isola, e decine di altre città si voleva dare un esempio ai “fuorilegge” che occupavano le terre, e fu dato a Melissa!

Anche allora in Calabria c’erano tanti pregiudicati, per esempio a Cutro, nelle elezioni del 1948, non ebbero diritto di voto 272 cittadini. Erano pregiudicati! Avevano raccolto legna nel latifondo del barone Barraco che circondava il paese.

I Barraco erano la legge, i contadini i delinquenti.

Dopo Melissa, nel giro di qualche anno, l’esercito dei contadini si trasformò in un esercito di emigranti. Morirono a centinaia nelle miniere del Belgio, nelle fonderie tedesche, sui cantieri di mezzo mondo. Delle rimesse spedite in Calabria dagli emigranti, le banche drenarono il 90% per finanziare il “miracolo economico”.

Sono passati tanti anni. Adesso non è solo il latifondo ad essere incolto. I rovi hanno invaso le colline e scendono veloci verso la pianura. Eravamo un popolo di braccianti senza terra, di paesi in cui la gente abitava nei tuguri, siamo diventati una terra senza più contadini, di case abbandonate, di paesi deserti.

Franco Costabile, poeta calabrese, lasciava la sua terra scrivendo: «Ce ne andiamo via / dai paesi più vecchi e più stanchi / via dai feudi / via dai baroni / o / via dai pretori, dalla polizia, dagli uomini di onore…»

Fummo sconfitti!

Nel frattempo, la Calabria ha perso la sua anima e con essa la sua dignità, l’antica fierezza, l’indomita volontà di riscatto. In Calabria e nel Sud non si produce più. Il popolo cresce i figli per vederli partire. Noi siamo gli sconfitti.

Ripensando a Melissa verrebbe la voglia di serrare i denti per non gridare la nostra rabbia. Non ci umiliate chiamandoci mafiosi. Noi siamo i figli della legge Pica, del brigantaggio, delle guerre altrui, di Melissa, della criminalizzazione di massa, dell’esodo. Noi siamo i figli diseredati dell’ingordigia e delle smisurate ricchezze dei pochi. La ’ndrangheta che, come lebbra, divora il nostro corpo è composta dagli scarti di una ben più diffusa ’ndrangheta che come una piovra soffoca il Paese. Un contadino lasciando quelle terre affermava “noi ci ritorneremo”. E forse è arrivato il momento di tornare…

(Ilario Ammendolia)

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pubblicato il in Storia di Classedi redazioneTag correlati:

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