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I fascisti sparano a Sezze Romano

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Il 28 maggio del 1976, a Sezze Romano, cittadina in provincia di Latina, è previsto il comizio di Sandro Saccucci, importante esponente del Movimento Sociale Italiano. Ex paracadutista e sospettato di aver partecipato al tentato golpe orchestrato nel dicembre del 1970 dal principe Junio Valerio Borghese con l’aiuto di settori «deviati» di istituzioni e servizi segreti, il Saccucci giunge nel centro pontino con un manipolo di fedelissimi. La scelta della città è quanto mai provocatoria: Sezze è un centro tradizionalmente antifascista.

L’adunata è prevista per il tardo pomeriggio e attorno alle 19,30 un corteo di sette o otto auto entra in paese. A bordo degli automezzi, tra gli altri, vi sono fascisti di dichiarata fede come: Pietro Allatta, suo figlio Benito e sua sorella Palma; Ida Veglianti, Mauro Camalieri, Sandro Grasselli, Massimo Gabrielli e un certo Russini, tutti provenienti da Aprilia; Filippo Alviti di Bassiano; Spagnolo e Mangani di Latina; il segretario locale della Cisnal Del Piano; Alessandro Petrianni, Virgilio Grassocci e Antonio Contento di Sezze; Calogero Aronica e Salvatore Trimarchi del Portuense; Gabliele Pirone, segretario della sezione missina della Magliana, Roma. Il manipolo si reca in piazza IV Novembre, luogo per il previsto raduno.

Dal palco su cui sale Saccucci, vi sono molti camerati armati di bastoni e pistole. Le forze di polizia presenti non sembrano molto interessate e rimangono in disparte. La tensione è alta: i fascisti vogliono provocatoriamente portare avanti il comizio nonostante si trovino in netta minoranza. Ad un certo punto Saccucci dice: «Noi siamo un partito delle mani pulite!» e quando la piazza risponde con bordate di fischi e canti inneggianti il comunismo, l’ex parà, innervosito, aggiunge: «Non volete sentirmi con le buone, mi sentirete con queste» ed inizia a sparare. Saccucci si sarebbe poi dato alla fuga dirigendosi con il corteo delle altre auto fuori dal paese esplodendo numerosi colpi.

Quando il seguito delle macchine giunge nella zona detta del «Ferro di cavallo», un proiettile, esploso da una «mano» che fuoriesce dall’auto di Saccucci, colpisce alla gamba sinistra il giovane Antonio Spirito, studente-lavoratore militante di Lotta continua. Un altro colpo centra quasi contemporaneamente Luigi Di Rosa. Il ragazzo morirà in ospedale dopo circa due ore di agonia. In realtà, come le indagini balistiche condotte dalla polizia scientifica dimostreranno, Luigi viene investito da due diverse pallottole: la prima, dello stesso calibro di quella che aveva colpito in precedenza Antonio Spirito, gli ferisce la mano; una seconda, di diverso calibro e quindi presumibilmente esplosa da una mano diversa, centrerà Luigi nella zona del basso ventre, causandone la ferita mortale. Di Rosa, padre muratore e madre casalinga, aveva ventuno anni e frequentava l’ultimo anno di un istituto tecnico di Latina. Era un militante, come suo padre, del Pci ed era iscritto alla Fgci.

L’iter giudiziario che ha tentato di fare luce sull’accaduto è stato lungo e tortuoso e a conclusione dei vari processi ha pagato solamente un «pesce piccolo»: Pietro Allatta, condannato in primo grado a tredici anni di cui otto effettivamente scontati in virtù di vari sconti di pena. L’Allatta è stato ritenuto colpevole di aver impugnato l’arma che ha colpito prima Spirito poi Di Rosa; non si è tuttavia tenuto conto delle prove balistiche e del referto medico secondo cui si afferma che Luigi era stato colpito da due pallottole di calibro diverso; ciò avvalora la tesi secondo la quale gli attentatori furono più di uno. Le indagini non hanno mai chiarito inoltre la presenza a Sezze di un ex maresciallo dei Carabinieri e agente del Sid, Francesco Troccia. Questi risulterà essere legato ad un altro personaggio avvistato quel giorno: Gabriele Pirone, segretario del Msi della Magliana, nonché proprietario dell’immobile in cui viveva lo steso Troccia.

Quest’ultimo, sospettato di essere presente al comizio in qualità di «agente provocatore», sarà arrestato per un breve periodo con l’accusa di favoreggiamento: avrebbe impedito l’arresto di Saccucci. Sulla figura del dirigente missino è invece sceso un fitto velo di ombra fatto di depistaggi, appoggi politici e interminabili processi dagli esiti contradditori. Rieletto nel Parlamento della Repubblica con il doppio dei voti che aveva ottenuto nella precedente legislatura, il 27 luglio 1976 la Camera dei Deputati ne autorizza l’arresto con le pesanti accuse di: «omicidio di Luigi Di Rosa, cospirazione politica e istigazione all’insurrezione armata per il cosiddetto golpe Borghese». In altre parole l’onorevole Saccucci, non è mai stato «uno stinco di santo»; ma questi, informato anticipatamente da «ignoti» del suo imminente arresto, si rende «irreperibile» trovando rifugio nel Regno Unito dove rimarrà fino al 1980. Divenuto successivamente persona non più gradita alle autorità inglesi, trova riparo in Francia. Successivamente il fascista prosegue la sua fuga in Spagna, dove evita un nuovo arresto grazie ad un depistaggio organizzato con il sostegno di settori dei servizi segreti spagnoli: alle autorità italiane che lo ricercano, si fa credere che Saccucci non si trovi più in Spagna ma che sia fuggito in un paese sudamericano. Effettivamente, qualche tempo dopo, il ricercato ripara prima in Cile, poi in Argentina.

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