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La proprietà è roba antica. È l’accesso che fa profitti

Mettiamola così: uscire a comprare un disco, andare al cinema, attendere che la tv della propria nazione acquistasse, doppiasse e mandasse in onda una serie di telefilm americani, sono gesti che appartengono a un passato nemmeno troppo lontano ma che ormai appare irrecuperabile, se non come nostalgia un po’ snob. Si calcola che 50 milioni di utenti usassero ogni giorno Megaupload. A vederla dal loro punto di vista (e dal nostro), le conseguenze dell’esistenza di una simile cornucopia di suoni e immagini sulla cultura planetaria, l’estetica, la memoria, l’immaginario, sono ancora difficili da immaginare.
Con un’operazione senza precedenti l’altra sera l’Fbi ha chiuso Megaupload, coivolgendo le polizie di otto paesi, da Hong Kong al Canada. Le accuse a fondatori e gestori del sito ruotano attorno alla tragressione delle leggi sul diritto d’autore. Così, la guerra mondiale che da tempo oppone le grandi industrie della comunicazione (Hollywood, le case discografiche, insomma le major o quel che ne rimasto) e la Rete ha segnato un punto a favore delle prime. Seppure la coincidenza venga smentita dell’Fbi non si può dimenticare che il giorno prima la Rete aveva dato vita a un vero e proprio sciopero contro le leggi a difesa del copyright in discussione al Congresso americano.
E’ una guerra senza fine, dura e incarognita, che dura da almeno dieci-quindici anni. Ma ancora, se la prendiamo dal punto di vista dell’utente, la notizia «buona» è che esistono almeno un centinaio di Megaupload nella Rete, e che sono ancora in funzione. Anche stasera un ragazzetto di Reggio Calabria potrà scaricarsi il disco nuovissimo della band straindipendente di Portland. O una signora di Varese dopo una giornata di lavoro si vedrà l’ultima puntata del telefilm americano trasmessa solo ieri dalla tv di quel paese. Non stiamo parlando di hacker col piercing al naso, e gli occhi stravolti dalla notti passate davanti al pc. Parliamo di noi.
E’ davvero una buona notizia? Ci sono mille e una obiezioni al tentativo delle major della comunicazione di tenere in piedi il modello di business che – in buona sostanza – le ha fatte prosperare per tutto il secolo scorso. E cioè pretendere che gli oggetti culturali non possano circolare «liberamente», anche dopo averne pagato il prezzo. Un prezzo, quasi sempre, fuori da ogni logica di mercato. Ugualmente, c’è una specie di positivo fatalismo internettiano che ci ha abituato ad attendere con fiducia la prossima mossa della Rete in questa strana guerra, certi che sarebbe stata vincente. Dieci anni fa si scaricava da Napster. Poi, finito Napster sono arrivati i peer-to-peer come Limewire e Emule. Megaupload e i suoi fratelli venivano subito dopo che le leggi (come l’Hadopi francese) sconsigliavano di condividere troppi file contenuti nella memoria del proprio pc.
Il modello di business delle major è finito, non ha più senso. Affidare alle stesse major il compito di farci entrare nel futuro della comunicazione e della cultura non ha senso, se non altro per quel briciolo di punk, fai-da-te, di cybercomunismo che è rimasto conficcato nella cultura del Rete, pure quella rispettabile di oggi. A proposito, la figura dell’inventore di Megaupload, Kim Schmitz detto Dotcom, un ex hacker tedesco che appare nelle foto come specie di villain ciccione da cinema, col garage pieno di Rolls Royce, uno che si era comprato coi soldini di chi voleva migliori prestazioni dal sito la villa più bella e costosa di Auckland, non è altrettanto inquietante? D’accordo, la cultura fa paura, la cultura può e sa essere sovversiva, e nulla da dire sull’attacco di Anonymous ai siti dei responsabili del blitz dell’altra sera. Ma siamo davvero certi di affidare il futuro delle forme culturali planetarie a figure del genere?
Operazioni come quella  dell’Fbi l’altra notte servono soltanto a incrudelire una guerra che le major hanno perduto da un pezzo. La questione vera è un’altra: vincerà la sfida tra vecchia comunicazione e Rete chi riuscirà a trovarne un nuovo modello di business. Che salvaguardi i diritti d’autore (come ha detto una volta Pete Townshend degli Who: «a quelli che scaricano i miei pezzi gratuitamente direi allora vieni a rubarmi in casa, fai prima!»), ma salvaguardi anche quelli degli utenti, non chiuda insomma la cornucopia della Rete perchè indietro non si può tornare. Esempi ce ne sono. L’I-tunes di Steve Jobs ha dimostrato che è possibile scaricare contenuti protetti da copyright a prezzi ragionevoli.Youtube e i cosiddetti sistemi di clouding come Spotify – che saranno se tutto va male il prossimo futuro in fatto di accesso ai contenuti – non richiedono neppure di memorizzare il file nel proprio computer (non si «ruba» niente, infine), siti di vendita diretta on line al pubblico come Bandcamp, sono l’ultimo grido in fatto di produzioni indipendenti.

Alberto Piccinini

tratto da “Il Manifesto”
21 gennaio 2012

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