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Santa Maria Capua Vetere: a processo iniziato agenti riabilitati e dirigenti promossi

Ricordiamo tutti la mattanza compiuta all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere quando 283 agenti di polizia entrarono all’interno del reparto Nilo del carcere Francesco Uccella armati di caschi, manganelli, alcuni a volto coperto, irrompendo nelle celle dei detenuti e prestando chiunque fosse presente.

La vicenda di gravissima violenza si inseriva in un frangente particolare, ossia il periodo di lockdown dovuto al covid, durante il quale la questione carcere fu una delle pagine più cupe della storia, andando a peggiorare – per quanto possibile – situazioni che si collocano già di per sé al di fuori delle logiche della dignità umana. Se all’esterno di quelle mura si era aperta una fase di totale confusione e di incapacità nel gestire l’emergenza in maniera razionale, all’interno delle carceri le violenze e l’astensione dai diritti fondamentali divenne ancor più socialmente accettata e legittimata. L’assenza di cure, di protocolli per la tutela della salute dei detenuti, il sovraffollamento, la decisione di sospendere i colloqui furono soltanto alcune delle violenze che passarono sotto silenzio. Proprio in questo contesto in molte carceri italiane si scatenarono rivolte, in particolare al Sud, da Salerno a Poggioreale, che esprimevano rabbia e soprattutto la chiara pretesa di non voler morire. Ad aprile dello stesso anno, a seguito di alcuni giorni di proteste per l’assenza di dpi e la diffusione dei contagi all’interno del carcere Francesco Uccella, con la richiesta da parte dei detenuti di un’interlocuzione con la magistratura tramite gesti di protesta come il rifiuto di rientrare nelle celle, la direzione del carcere per ristabilire l’ordine decise di operare una perquisizione straordinaria all’interno della sezione. La perquisizione diede di fatto il via libera a mettere in campo una mattanza. Il tutto venne registrato dalle telecamere in videosorveglianza.

Tra gli autori di questa perquisizione ci fu anche il reparto speciale chiamato Gruppo di supporto agli interventi, appena istituito in Campania a seguito delle rivolte dei mesi precedenti. Il 16 dicembre 2021 nell’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere ebbero inizio le fasi preliminari del processo che vede coinvolti 108 imputati con accuse gravissime, dalla uso di autorità, al falso, al depistaggio, alla cooperazione di omicidio colposo, a lesioni e tortura. Tra questi, 52 imputati erano anche stati raggiunti da misure cautelari, tra i quali anche il provveditore dell’amministrazione penitenziaria campana. A novembre di quest’anno si è aperto il processo davanti alla corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta a carico di 105 persone, dai piani alti dell’istituto di pena sino ai funzionari di polizia penitenziaria oltre all’ex provveditore regionale Campania.

Ad oggi il governo vuole riabilitare gli agenti imputati nel processo, molti non sono nemmeno stati sospesi dal servizio e chi è stato raggiunto da misure cautelari si trova già in condizione di libertà. In particolare, l’obiettivo è quello di voler “differenziare le condotte degli imputati”, sostanzialmente per evitare di dover parlare di una violenza sistematica e strutturale data dall’esistenza stessa del sistema carcerario e insita nei corpi di polizia, per salvare la faccia di uno Stato che non lascia passare sotto silenzio una pagina amara, risolvendola con la solita storia delle mele marce. A esprimere questa posizione è in primis Lucia Castellano, provveditrice campana delle carceri che ha preso il posto di Antonio Fullone imputato nel processo, ed ex consigliera regionale di centrosinistra in Lombardia. Subito ripresa dal sottosegretario alla Giustizia della Lega Andrea Ostellari, che ha dichiarato la necessità di procedere prendendo in esame le singole condotte degli agenti e che sottolinea una disparità di trattamento tra gli imputati.

In effetti, ad esempio Nunzia Di Donato, dirigente della Polizia Penitenziaria è rimasta al suo posto e continuerà a mantenere il suo ruolo durante il processo che la vede accusata di tortura in concorso con chi ha materialmente eseguito le torture oltre a essere organizzatrice dei gruppi speciali e delle loro condotte. C’è anche chi, come la dirigente Tiziana Perillo imputata con trenta capi d’accusa, è stata promossa a nuovo incarico. Entrambe, nonostante i loro ruoli di comando non sono state raggiunte da misure cautelari, anzi la vicenda ha loro permesso di consolidare e migliorare la loro carriera.

Per non dover risalire a tempi troppo lontani basta far riaffiorare il ricordo di Genova 2001 per non doversi stupire di come funzioni la Giustizia in questo Paese quando riguarda alte cariche dello Stato e di conseguenza tutte le loro diramazioni nella società, in particolare quando si tratta del loro braccio armato. La sproporzione senza eguali tra i trattamenti riservati ai comuni cittadini (per non parlare di coloro che non sono considerati cittadini di serie A o stranieri) e le istituzioni da parte della Magistratura sono più che evidenti, quasi banale sottolinearne la distanza abissale. Le mosse del neo ministro Nordio aprono questioni interessanti, perlomeno portando al centro del dibattito l’utilizzo delle misure cautelari, delle intercettazioni, del sistema carcere. È scontato dire che le eventuali modifiche che verranno apportate al sistema giustizia avranno un’applicazione differenziale in base ai soggetti e alla loro funzione nella società. Anche perché non sarà sperando nelle trasformazioni operate dallo stesso sistema che si possa immaginare un cambiamento che vada in una direzione diversa, in ogni caso però portare all’ordine del giorno la problematica di una giustizia e di una Magistratura totalmente intente a tutelare gli interessi della casta é sicuramente urgente.

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