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Mario Perniola: aggressività e comunicazione

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È morto ieri a Roma Mario Perniola, pose la riflessione filosofica davanti alla sfida della società dello spettacolo e all’attentato di questa alla possibilità del pensiero.

Nacque ad Asti nel 1941, formandosi alla scuola esistenzialista torinese di Pareyson, ma è negli anni ‘60 che in Francia incontra il movimento studentesco e le ultime avanguardie novecentesche. In contatto con il situazionismo Perniola fu tra i primi a far approdare in Italia le tesi del movimento di Guy Debord e Vaneigem con un prezioso libretto pubblicato nel 1972 sulla rivista da lui fondata e di cui fu direttore per tutti gli anni ‘70 Agaragar: “I situazionisti”.

Proprio il messaggio elaborato in questo opuscolo resta una costante della riflessione di Perniola: lo sforzo di rilevare le contraddizioni e la complessità della società dello spettacolo senza rassegnarsi all’avvilimento e all’impotenza ma sempre alla ricerca di una leva per la sovversione di un ordine estetico, simbolico, politico. La lezione situazionista resta quella di un’esperienza rivoluzionaria.

Non a caso Perniola per tutti gli anni ‘80 fu impegnato nell’elaborazione di un pensiero di passaggio e dell’innovazione (Transiti, 1985) contrapponendosi polemicamente alle tesi del pensiero debole di Vattimo. Le riflessioni sull’estetica e sul post-umano e sul nesso sessualità e tecnologia occupano l’autore dagli ‘90 in avanti (Il sex appeal dell’inorganico, 1994).

Gli ultimi lavori di Perniola si incentrano sulle questioni relative alla società della comunicazione come portato dei movimenti di contestazione degli anni ‘60 (Miracoli e traumi della comunicazione, 2009; Berlusconi o il ‘68 realizzato, 2011). Lo sguardo di Perniola, come confermato nel suo editoriale dell’ultimo numero Agalma, la rivista on-line di estetica da lui diretta, resta diffidente, fin quasi all’estraneità, nei confronti della politica, ma nonostante questo si impegna sempre alla ricerca di una strategia di uscita ai dilemmi del contemporaneità capitalistica solcata da gerarchie e da conflitti potenziali in grado di oltrapassare la soglia del recupero simbolico nelle democrazie mediatizzate. C’è sempre un orizzonte possibile di conflitto, rottura, liberazione.

A mo’ di omaggio e per significare questo spirito pubblichiamo poche pagine tratte da un pamphlet di poco più di 10 anni fa Contro la comunicazione. Il paragrafo che riportiamo ha per titolo Aggressività e comunicazione.

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Non bisogna tuttavia credere che la comunicazione manchi di aggressività. Al contrario la tendenza aggressiva costituisce un aspetto fondamentale della psicosi, la quale – in assenza di mediazione simbolica – resta prigioniera di quel fenomeno psichico che Lacan ha definito Lo stadio dello specchio. Tale stadio si riferisce all’esperienza che il bambino fa tra i sei e i diciotto mesi di vita. Come è noto essa ha origine dal confronto tra l’immagine di se stesso che il bambino vede riflessa nello specchio e l’esperienza del proprio corpo reale: mentre quest’ultimo manca ancora di coordinazione e di unità, l’immagine speculare esercita su di lui un potere di fascinazione e di seduzione che lo imprigiona in una fissazione invalidante (captation). Per Lacan lo stadio dello specchio costituisce una struttura permanente della soggettività, perché su di esso si costruisce l’identità dell’io, il quale è perciò segnato irrimediabilmente da una frattura che gli impedisce di accedere a una effettiva autocoscienza e lo aliena rispetto a se stesso. Esso è il paradigma dell’immaginario, il quale è appunto caratterizzato da un narcisismo inseparabile dall’aggressività nei confronti dell’altro (chiamato piccolo altro per distinguerlo dall’Altro dell’ordine simbolico), ma che può portare anche un esito suicida. L’io, fintanto che resta prigioniero dell’immaginario, non ha mai davanti a sé un’effettiva alterità, ma sempre soltanto la propria immagine. La costituzione dell’io come rivale di se stesso gli preclude l’accesso a un «vero» conflitto; da un lato l’aggressività e il conflitto gli appartengono strutturalmente, dall’altro tuttavia l’altro che gli si para davanti è ancora sempre se stesso. In altre parole, il «tu» con cui l’io si confronta non costituisce ma una «vera» alterità.
L’analisi di Lacan risulta molto chiara se si pensa a certi rapporti privati di carattere sentimentale, in cui i due partner si confrontano in interminabili e inconcludenti diatribe colme di accuse reciproche e di recriminazioni: appare evidente a chi ne è testimone che essi sono incapaci di andare oltre le rispettive immagini speculari e restano prigionieri di una struttura nella quale l’altro non è che l’immagine del loro io rispettivo. Naturalmente anche molti altri rapporti duali come quello tra psicoanalista e paziente, tra benefattore e beneficiato, tra docente e discente… sono soggetti alla captazione immaginaria. Non bisogna perciò lasciarsi ingannare dall’asprezza che talora assumono tali conflitti tale asprezza dipende dall’aggressività implicita nello stadio dello specchio, essi non sono «veri» conflitti perché manca loro proprio l’esperienza dell’opposto.
Se dai contesti comunicativi personali e privati passiamo a quelli pubblici, la sostanza delle cose non cambia, anzi peggiora sensibilmente, perché è il pubblico stesso (cui qualche ingenuo assegna la parte di terzo giudicante) a essere preso nella captazione immaginaria. Infatti la comunicazione pubblica, quando assume la forma di un contraddittorio, non è un’arena in cui due contendenti si affrontano e tantomeno la disputa tra due maestri dell’università medioevale. Essa si bassa su un presupposto tacito e universalmente accettato: l’intimazione rivolta al pubblico a identificarsi con uno o con l’altro dei due antagonisti. Perciò sotto l’apparenza del conflitto riemerge l’aspetto essenziale della comunicazione, già rilevato all’inizio a proposito della new age, vale a dire la sua incapacità di pensare una «vera» opposizione e di reggere un «vero» conflitto.

Mario Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004, pp. 36-38.

 

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