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La guerra di Siria e gli strani amici

Le monarchie del Golfo non sono mai state esempi di democrazia per nessuno, e il fatto che i loro regimi sanguinari ed oppressivi non vengano menzionati negli annuali rapporti con i quali il governo Usa e le sue controllate (Freddom House su tutte) elencano i paesi identificati come dittature, dipende solo dal fatto che i dollari e il petrolio sui quali si poggiano permettono agli Usa lauti ingressi e, soprattutto, la presenza militare sul crocevia delle rotte del petrolio.

Successivamente sarà la volta del Libano (perché anche Israele chiede la sua parte di bottino) ma l’obiettivo finale è l’Iran. Cacciare Ahmadinejiad e gli Ayatollah non risponde ad un inedito sentimento libertario occidentale, ma alle quotazioni del greggio una volta che anche le riserve iraniane, dopo quelle libiche, saranno nelle disponibilità delle monarchie del Golfo. Più che l’indice di democrazia è l’indice del Brent quello che muove le pedine dell’Occidente.

L’intenzione delle monarchie del Golfo è però anche quella di sbarazzarsi della Siria così come si sono sbarazzati dell’Iraq prima e della Libia poi. Per azzerare quanto restava (pur se in una versione ormai macchiettistica) della storia del panarabismo, serviva e serve distruggere qualunque impronta laica nei governi arabi, consegnando così ogni possibile sogno di riscatto alla dimensione religiosa e non a quella politica dell’unità continentale. Cominciarono con i Talebani che mossero guerra al primo governo laico della storia dell’Afghanistan, proseguirono con i combattenti islamici in Bosnia-Herzegovina e, da allora, è stato un crescendo di pressioni politiche, finanziamenti ed armi in ogni luogo del pianeta, per ogni focolaio di terrorismo o guerriglia che avesse come obbiettivo finale la caduta dei regimi laici ovunque si trovassero.

Le mani saudite sull’11 settembre sono note e arcinote, soprattutto agli Stati Uniti che hanno dapprima subito e poi cinicamente e sapientemente utilizzato l’attacco alle Torri gemelle. Sull’onda dello sconcerto e del dolore internazionale, hanno deciso di muovere le loro pedine per liberarsi dei nemici dei loro amici, lanciando guerre ed offensive diplomatiche, embarghi e istruttori dei guerriglieri islamici mentre al mondo intero proclamavano la guerra al terrore. La consegna ai satrapi sauditi degli equilibri regionali è, in qualche modo, il chip da pagare al controllo dei flussi di petrolio del pianeta e al focolaio politico più pericoloso.

Non c’è quindi da stupirsi se la punta di diamante dei combattenti antigovernativi in Siria sia Al-queda. E’ lei la longa manus delle monarchie del Golfo, la mano occulta del loro desiderio espansionista. In un reportage pubblicato ieri dal Guardian, si legge che Al Qaida opera al fianco dei ribelli siriani nell’ est della Siria, mettendo a disposizione la propria esperienza in ordigni e autobomba. Il corrispondente del quotidiano britannico dalla provincia di Deir Ezzor ha incontrato i combattenti che hanno lasciato l’ Esercito libero siriano per unirsi ai jihadisti, definiti “ghuraba’ a” (stranieri).

I combattenti di al Qaida cercano però di nascondere la loro presenza. “Alcune persone hanno paura di sventolare la bandiera nera – ha raccontato al quotidiano britannico Abu Khunder, comandante di una brigata di jihadisti – temono che l’ America decida di intervenire per combattere contro di noi. Per questo combattiamo in segreto. Perché fornire a Bashar (al Assad) e all’Occidente un pretesto?”. Tuttavia, ha puntualizzato, i combattenti di al Qaida operano a stretto contatto con il consiglio militare che comanda le brigate dell’ Esercito libero siriano nella regione: “Ci incontriamo quasi ogni giorno. Abbiamo chiare istruzioni dalla nostra leadership sul fatto che se l’Esercito libero siriano ha bisogno del nostro aiuto dobbiamo intervenire. Li aiutiamo con ordigni e autobomba. La nostra specialità sono le operazioni con ordigni esplosivi”. “All’inizio eravamo in pochi – ha aggiunto – ora, grazie ad Allah, ci sono immigrati che si stanno unendo a noi, portando la loro esperienza. Uomini provenienti da Yemen, Arabia Saudita, Iraq e Giordania”. L’obiettivo di al Qaida è “creare uno Stato islamico e non uno Stato siriano”, ha concluso. Già ieri, al Jazeera e il New York Times avevano riferito di un crescente ruolo dei jihadisti stranieri nella guerra in atto in Siria.

Il film sembra quindi essere lo stesso di quello proiettato sugli schermi libici. Al-Queda mette a disposizione bombe, denaro e guerriglieri, ma evita la prima fila, dal momento che di fronte alla cattura di alcuni di loro o, comunque, all’evidenza del ruolo giocato nel conflitto, difficilmente l’Occidente potrebbe continuare a sostenere la rivolta armata. In Siria, così come avvenne in Libia, ci furono rapporti elaborati dalla CIA che lanciavano l’allarme circa la penetrazione di Al-Queda nelle file degli insorti, ma vennero rapidamente silenziati: la conquista dei pozzi per francesi e inglesi era decisamente più importante e una quota di bottino andava garantita anche agli europei.

Che avevano combattuto “gratis” in Afghanistan e Iraq: non si poteva recedere, se non si voleva rischiare l’abbandono dello scenario afgano e iracheno da parte di Parigi e Londra. In un cordiale scambio dei ruoli, in Libia prima e in Siria ora, francesi e britannici sono in prima linea ad addestrare i rivoltosi, a realizzare le operazioni di intelligence, i sabotaggi e gli attacchi mirati, a organizzare la guerriglia e a fornire ogni armamento necessario, mentre gli Stati Uniti hanno un profilo basso, si muovono sul terreno diplomatico e politico ma hanno sul terreno un impatto ridotto (non inesistente, si badi bene).

E dal momento che una guerra non si vince senza propaganda bellica, gli stessi canali d’informazione su cui si lavora per gonfiare con la propaganda le cause e gli effetti della guerra civile sono parte fondamentale della strategia. Dal momento però che serve offrire un’immagine di guerra civile a quello che invece è un conflitto internazionale tra una coalizione e uno Stato, a parlare al mondo intero di cosa succeda in Siria è l’Osservatorio per i diritti umani in Siria, cioè l’ufficio stampa e propaganda dei combattenti islamici, che viene supportato con ogni mezzo dall’emittente Al-jazeera, tv degli emiri che finanziano i guerriglieri.

Non c’è spazio per obiettare o controbattere a quanto da Londra viene quotidianamente fornito: la propaganda islamica è l’unica fonte per i media nostrani. Nemmeno provare a contare le vittime: se lo si facesse, si scoprirebbe che sommando i numeri dall’inizio del conflitto, praticamente la Siria dovrebbe essere ormai appena più popolata del deserto.

Certo non si può non notare come essere amici degli Usa non porta alla lunga a grandi risultati. Erano amici degli Usa i Talebani che combattevano in Afghanistan contro i sovietici; lo erano gli iraniani che fornivano di armi i contras contro i sandinisti; lo erano i combattenti islamici in Bosnia che combattevano contro i serbi; era amico degli Usa Saddam Hussein così come lo era divenuto Gheddafi ed era diventato Assad che aveva accettato di torturare i prigionieri delle renditions statunitensi dopo l’11 Settembre. Davvero non c’è niente di più incerto che le amicizie nello scacchiere del dominio globale.

 

da altrenotizie

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