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Iraq, il governo chiude le sedi dei partiti che non si sono dissociati dalla collera

 

A un anno esatto dalle elezioni legislative irachene che alla fine hanno portato a un governo guidato per una seconda volta da Nuri al Maliki, e dopo le manifestazioni che da un paio di settimane scuotono l’Iraq da nord a sud, a Baghdad tira aria di giro di vite.

Due dei partiti politici che sono stati fra gli organizzatori delle proteste – l’Iraqi Communist Party, e il Partito dell’Umma (in arabo, della Nazione) – si sono visti chiudere gli uffici, per l’intervento di elementi degli apparati di sicurezza che fanno capo al ministero degli Interni – su ordine del Primo Ministro.

Si tratta di partiti minori, che non hanno neppure un seggio in Parlamento, che tuttavia sono stati molto attivi nell’ultimo periodo, quello che ha visto gli iracheni scendere in piazza a migliaia, da Baghdad a Bassora, a Mosul, Nassiriya, Diwaniya, Ramadi, Falluja, e in molte altre città, per chiedere servizi migliori e lotta contro la corruzione.

I loro leader puntano il dito contro il premier, che continua a tenere per sé gli interim dei tre ministeri con competenze sulla sicurezza – Difesa, Interni, e Sicurezza Nazionale – ancora scoperti.

Mithal al Alusi, politico laico alla guida del Partito dell’Umma, accusa Maliki di “violare la Costituzione e la legge” – mentre dalla Presidenza del Consiglio sostengono che la decisione di mandar via i due partiti dalle loro sedi non ha motivazioni politiche, ma fa parte di un piano messo a punto da molto tempo per riprendere edifici di proprietà pubblica.

 

La Presidenza del Consiglio: nessuna motivazione politica

Edifici che ora servirebbero al ministero della Difesa, dice Ali al Musawi, consigliere del premier per la Comunicazione, mentre un comunicato della Presidenza del Consiglio sottolinea che “la Costituzione garantisce l’attività di tutti i partiti politici, e quanto si dice su un divieto nei confronti dell’ Iraqi Communist Party non è vero”.

Dai due partiti, funzionari riferiscono che membri della polizia federale, su ordini diretti dell’ufficio di Maliki, sono arrivati ieri nei loro uffici, orinandone lo sgombero.

All’Iraqi Communist Party è stato detto che gli edifici (la sede vera e propria del partito, in piazza al Andalus, nel centro di Baghdad, e gli uffici del giornale Tariq al Sha’ab [in arabo: “La Via del popolo” NDR] sulla via Abu Nuwas, lungo il Tigri) venivano requisiti per uso governativo.

Alusi dice invece di non avere ricevuto alcuna spiegazione per l’ordinanza di sgombero – ordinanza che vorrebbe chiedere a Maliki di riconsiderare. E ritiene che dietro quanto è successo possano esserci motivazioni politiche, avendo lui rifiutato – cinque giorni fa – di prendere le distanze dai manifestanti, prima della protesta di venerdì scorso a Baghdad (la “Giornata del rimpianto”), nonostante fosse stato invitato a farlo da esponenti di spicco di al Da’wa – il partito del premier.

A raccontare quanto è successo all’Iraqi Communist Party, è Jassin Helfi, uno dei suoi leader, che ha riferito al New York Times che ieri, verso le 8 e mezza del mattino, circa 60 elementi delle forze di sicurezza si sono presentati nella sede del partito e negli uffici del suo giornale.

 

24 ore di tempo per chiudere

“Avete 24 ore di tempo per chiudere” – ci hanno detto, comunicando di avere un ordine dal Comando delle Operazioni di Baghdad, che risponde direttamente al Primo Ministro.

Nessuna documentazione: mandati di sgombero, o cose del genere – e nessuna spiegazione, dice Helfi. Alle rimostranze dei funzionari, che chiedevano qualcosa di ufficiale, se ne sono andati tornando circa un’ora dopo – con una lettera firmata da Maliki.

Anche i comunisti iracheni potrebbero aver pagato il loro appoggio alle le proteste popolari.

La settimana scorsa, prima della “Giornata del rimpianto”, il premier aveva incontrato privatamente alcuni dei loro leader, ribadendo che le proteste in programma avrebbero potuto essere strumentalizzate da terroristi e ba’athisti per minare il governo.

“Obiettivo dell’incontro era cercare di convincerci a non partecipare alle manifestazioni”, dice Helfi, “e quando l’abbiamo fatto, la nostra punizione è stata l’ordine di chiudere i nostri uffici”.

Il leader comunista non ha dubbi: “Ciò non riflette il discorso di Maliki sul diritto degli iracheni a protestare” – dice.

 

Aria di repressione

Insomma, a Baghdad c’è aria di repressione, di voglia di far tacere le voci del dissenso, dopo i numerosi arresti di attivisti, e le intimidazioni nei confronti dei giornalisti nel corso delle proteste degli ultimi giorni.

“Questo fa parte delle violazioni delle libertà pubbliche e dei diritti umani”: è diretta Hanaa Edwar, presidente di al Amal, una delle maggiori organizzazioni non governative irachene, molto attiva nelle recenti proteste.

In piazza Tahrir, nel centro della capitale irachena, il luogo che ha visto le manifestazioni della “Giornata della rabbia” e di quella “del rimpianto”, un paio di centinaia di persone urlano: “Vogliamo i nostri diritti!”.

Il sentimento prevalente è la delusione – a un anno da quel 7 marzo 2010 a cui tanti avevano affidato le loro speranze: speranze di cambiamento, in meglio.

“Ci sbagliavamo”, commenta amara Rana Hadi, una 24enne che dice di aver votato per Maliki e la sua coalizione. “Non è successo niente. Non è cambiato niente”.

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