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I giovani del Rojava in marcia (nella mobilitazione permanente)

Come tutte le città del Kurdistan finite entro i confini degli stati creati dalle potenze coloniali dopo la prima guerra mondiale, Amuda ospitava una popolazione che aveva da obiettare tanto al colonialismo europeo quanto a quello arabo. La minoranza curda in territorio siriano rappresentava per molti versi un’eccezione empirica alla presunta unità “nazionale” araba della Rau, quindi da rimuovere o silenziare. Negli anni della Rau il divieto di pubblicare o possedere libri in lingua curda si accentuò, così come il divieto di suonare musica curda nei locali e nei caffè. Sia pur nell’ambito di un’importante lotta per l’indipendenza anticoloniale araba la Rau volle, in Kurdistan, allestire la messinscena di un’identità tanto onnicomprensiva e unilaterale quanto fasulla. È in questo quadro che, nel luglio 1960 una vasta operazione aveva colpito il principale partito nazionalista pancurdo in Siria, il Pdk-S (allora, come il suo omologo iracheno, d’ispirazione chiaramente marxista), imprigionando e torturando la leadership e ben 5.000 sospetti militanti. Nel novembre successivo il cinema di Amuda andò a fuoco, durante le proiezioni de Il fantasma di mezzanotte, quando all’interno vi erano 500 bambini tra i 7 e i 14 anni, la metà dei quali perirono. Le madri disperate non poterono che vedere in chi aveva loro imposto di ammassare i bambini lì dentro il responsabile del disastro, senza contare che la causa dell’incendio fu il surriscaldamento della pellicola a causa delle troppe proiezioni e il suo andare in fiamme, e la popolazione si convinse addirittura si trattasse di una strage architettata dal regime – e tuttora ne è convinta.

Poco oltre il parco dedicato alle vittime della tragedia si trova la sede del “movimento giovanile del Rojava” (Ycr), una modesta costruzione a un piano ricoperta di graffiti e poster di martiti dell’attuale guerra, al cui interno rimbomba musica rap curda amplificata da una spia. Diyar, 17 anni, spiega assieme a un suo amico che gli adulti sono andati alla celebrazione di un funerale Ypg, e quando gli chiediamo quali siano le attività del centro elenca in effetti, nell’ordine: “Funerali di martiri, cerimonie, feste, realizzazione di graffiti in onore della resistenza del Bakur, protezione armata della città nelle ore notturne, squadra di calcio, consiglio rivoluzionario dei giovani”. Sta ripetendo l’anno a scuola, ma lavora principalmente come idraulico: “il lavoro mi piace, ma al momento c’è poco da fare, perché la guerra impedisce la costruzione di case e senza case non ci sono tubi da riparare…”. I ragazzi del centro sono principalmente curdi, ma ci sono anche arabi, e tutti sono musulmani. Il loro obiettivo è agire adesso, dicono, per poter vivere in pace e fare figli domani. Abdullah Ocalan, afferma Diyar, è colui che ha permesso che la rivoluzione del Bakur si estendesse al Rojava: “la rivoluzione è divenuta una luce nel nostro cuore”.

“Cominceremo dai giovani, vinceremo giovani” è uno dei motti del presidente in carcere, che Diyar tiene a ricordare. Lo stato islamico è un cane idrofobo, dice, ma il regime siriano e la Turchia non sono da meno: “Noi vogliamo la pace, ma loro se lo vorranno non esiteranno ad attaccarci: allora saranno uguali a qualsiasi altro nemico”. Com’è frequente tra i ragazzini in Siria, i frequentanti del centro osservano qualsiasi presenza estranea, tanto più se “straniera”, con occhi sbarrati e un’espressione che resenta la paura; si stanno preparando proprio per la celebrazione del compleanno di Ocalan, con una lunga marcia per la sua liberazione, che passerà lungo tutto il confine turco, da Rmeilan fino al Tigri, sopra la martoriata città di Cizre, storico centro della cultura curda all’incrocio tra Iraq, Turchia e Siria. Sul pulmino della delegazione Ycr di Qamishlo, il giorno della manifestazione, l’atmosfera è paragonabile a quella di una gita scolastica. Sul piazzale di Rmeilan, al concentramento, l’atmosfera è meno rilassata: decine di Asaysh (le guardie rivoluzionarie) pattugliano l’area scrutando con attenzione pedoni, automobilisti e motociclisti: raduni come questo sono l’ideale bersaglio degli attentatori dell’Is.

Quando la marcia parte la città la circonda e la applaude dai due lati. Non si tratta di un corteo, tuttavia, bensì di due file indiane parallele (una per le ragazze e una per i ragazzi) incolonnate in modo semi-marziale lungo centinaia di metri, rispettivamente. I ragazzi del servizio d’ordine percorrono le file avanti e indietro, riprendendo con severità chiunque rompa le righe e molestando chi non alza le dita della mano in segno di vittoria ad ogni ritornello dei grandi successi rivoluzionari, riprodotti in loop a grande volume dalle casse issate su un camioncino. Alcuni di essi sono accompagnati da basi che farebbero invidia al Renato Zero degli anni Settanta mentre il sole splende e picchia sulle teste, e ciascuno conforta il vicino con frasi (reali) come “disciplina, compagni, disciplina…”. Alcune ragazze sembrano delle bambine, non hanno più di 14 anni, con vestitini acqua e sapone e piccole borsette, e camminano determinate guardandosi le punte dei piedi, decise a mettere un passo davanti all’altro per trentotto chilometri in due giorni: se il leader affronta la prigione e l’isolamento da diciassette anni, i giovani del Kurdistan possono dedicargli una lunga passeggiata – e, in verità, sono pronti a dedicargli molto di più.

I partecipanti sfoggiano una discreta varietà di registri nell’abbigliamento: da chi adotta uno lo stile sobrio jeans e maglietta a chi opta per gli abiti tradizionali curdi, fino alle felpe con cappuccio o ai capi di reminescenza europea o nordamericana. Pochissime le ragazze con il velo sul capo, fatto rimarchevole in Rojava, dove il velo tra le donne è diffuso. La marcia divora i chilometri sulla strada stretta che collega Remeilan a Derik, in prossimità del confine iracheno; è la stessa striscia di asfalto sconquassato su cui, nella direzione opposta, si incontrano Qamishlo, Amuda e poi Gire Spi, Kobane e la periferia orientale di Jarablus, oltre cui l’oscurantismo salafita si frappone tra questa parte del Rojava e il cantone di Afrin. Automobilisti suonano il clacson e salutano dai finestrini. Il panorama non assomiglia a quello semi-desertico o desertico, pieno di terra e polvere, che si incontra più a sud, nella provincia di Hasakah, ed è invece ricoperto da sconfinate distese erbose in ogni direzione, interrotte da villaggi di poche case e, ogni tanto, dalle cittadine di confine. Ragazzi si affacciano nei paesini, alcuni guardano i loro coetanei sventolare le bandiere del Pyd, delle Ypg e del Ycr con un certo senso d’estraneità; intere famiglie, altre volte, escono dalle case a salutare la marcia con esaltazione, e anziane signore la seguono per centinaia di metri “ululando” in modo particolare, un po’ come i nativi americani quando si lanciavano all’attacco nei film dei cow-boy.

Le pause nei prati vedono l’efficiente distribuzione di falafel e pepsi. Un ragazzo arruolato nelle Ypg racconta: “Combatto da cinque anni, ho partecipato anche alla resistenza di Kobane. Mio fratello è martire. La guerra mi ha tolto tutto, anche il cuore”. Derik è roccaforte in Rojava dell’Enks, partito suddito di Barzani, ostile alla rivoluzione e alleato della Turchia. Quando il corteo vi fa ingresso, le centinaia di partecipanti vengono smistate tra le famiglie della città, dove anziani signori raccontano tra divanetti e tappeti colorati, con il capo chinato sotto le loro kefiah, storie di Kurdistan agli ospiti stranieri, mentre le mogli praparano e servono la cena (sebbene il ritratto di Apo sia ovunque in queste case, la segregazione domestica femminile non rappresenta ancora, per molti uomini che aderiscono al cambiamento, una contraddizione). Il mattino seguente il corteo si ferma presso una grande rotonda, nel centro città. Sull’asfalto, i giovani vergano con lo spray insulti contro l’Enks. “Quella di Apo è l’unica filosofia del Rojava! Combattiamo l’Enks di Barzani che affama il nostro popolo con l’embargo. [Barzani ha chiuso da oltre un mese il suo confine con il Rojava, Ndr] Combattiamo chi ha consegnato Singal a Daesh!”. La gente ascolta, ora perplessa ora interessata, non immune da una certa ammirazione per la determinazione nalla voce di chi parla al microfono. Qualche ragazzo si unisce al corteo, altri si allontanano – non senza una qualche espressione d’invidia. La popolazione sembra più indifferente che irritata, e una minoranza applaude.

Un ragazzo intona un free-style curdo dall’impianto e, dopo qualche chilometro, la fiumana invade il campo profughi a nord della città, dove vivono migliaia di ezidi di Singal scampati all’Is nel 2014. Centinaia di bambini di due o tre anni giocano nella polvere, mentre le loro famiglie si affacciano timidamente, in maniera quasi sospettosa, dalle loro tende. I giovani curdi ricordano al microfono il ruolo del Pkk e delle Ybs nella resistenza per Singal e la necessità della liberazione del popolo ezida. La rada folla che circonda il corteo è impenetrabile: volti su cui sono scolpiti il trauma e la stanchezza di due anni di esistenza terribile restano impassibili a quelle parole. Quando esce dal campo, il corteo ha percorso quasi quaranta chilometri da Remeilan. Pochissimi hanno rinunciato, qualcuno zoppica. Il serpentone si inerpica sui villaggi della dolce catena montuosa al confine naturale con la Turchia fino a un villaggio dove, oltre un ciglione, la visuale si apre, ed emerge distintamente il fiume Tigri a est, confine dell’Iraq nordoccidentale. In centinaia ci ammassiamo sulle rocce per guardare a valle dove, oltre le postazioni di guardia turche, giace lontana, grande e silenziosa la città di Cizre, emamando una paradossale sensazione di pace. I giovani del Rojava si fermano come per respirare, in questi mesi e anni di mobilitazione permanente. Ciascuno sembra avere qualcuno cui inviare un pensiero, mentre osserviamo da lontano il corpo disteso della città semidistrutta.

Dall’inviato di Infoaut e Radio Onda d’Urto a Derik, Rojava

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