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Erdogan rinnova il Sultanato: cosa abbiamo visto nei seggi in Bakur?

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Siamo due degli attivisti italiani che hanno risposto all’appello per osservatori internazionali del partito filo curdo in Turchia, HDP, per vigilare sul corretto svolgimento delle elezioni del 24 giugno 2018. Il nostro ruolo consisteva nell’accompagnare i rappresentanti del partito nei seggi elettorali in Bakur, il Kurdistan turco, e denunciare le irregolarità cui avremmo assistito. Non è un compito semplice, e forse faremmo prima a raccontare quali tratti di questo processo elettorale possono essere definiti democratici.

Preambolo: come costruire un sultanato
Per spiegare ciò a cui abbiamo assistito è necessario un preambolo, che renda conto delle recenti riforme elettorali e costituzionali in Turchia, oltre che delle condizioni in cui si sono svolte le precedenti elezioni.
Nel 2015 l’HDP aveva ottenuto il 15% delle preferenze, impedendo al partito di Erdogan, l’AKP di raggiungere la maggioranza assoluta, necessaria per attuare la riforma elettorale che aveva in mente. In questo contesto il presidente ha convocato nuove elezioni, alcuni mesi dopo l’interruzione unilaterale del cessate il fuoco con il PKK. Durante la campagna elettorale il clima era peggiorato in modo sostanziale, e le iniziative del HDP hanno subito attacchi dal governo e da quelli che sono poi stati identificati come terroristi dell’ISIS. Il più grave di essi è stato un attentato ad un’iniziativa elettorale ad Amed (nome curdo della città di Diyarbakir), nel quale una bomba in un cestino uccise più di un centinaio di persone. In tale contesto di violenza, le elezioni del novembre 2015 hanno visto un calo dei consensi per l’HDP in un clima di terrorismo di stato.
Con un ulteriore inasprimento della violenza di stato contro il popolo curdo, quasi tutte le città a maggioranza curda hanno subìto bombardamenti, coprifuoco e occupazioni militari in quella che il presidente ha definito una campagna contro il terrorismo. 96 co-sindaci su 109 sono stati rimossi o arrestati come sostenitori del terrorismo del PKK, oltre 500.000 persone hanno perso la casa e svariate migliaia di cittadini sono stati uccisi tra agosto 2015 e aprile 2016.

In questo contesto, con forti limiti alla partecipazione politica dei cittadini e dei partiti, Erdogan ha convocato un referendum per riformare la costituzione e il processo elettorale, con il sostegno del partito nazionalista-kemalista, il MHP. Il referendum che si è tenuto ad aprile 2017 ha ratificato la proposta del governo, con un margine molto risicato, tra le denunce di brogli da parte di tutti i partiti di opposizione. Quelle di ieri sono state le prime elezioni dopo la riforma, la quale puntava ad unificare le figure del presidente della repubblica e del primo ministro, attribuendo alla nuova carica poteri legislativi, oltre che esecutivi, e il diritto di nomina di dodici dei quindici giudici della corte costituzionale. La riforma elettorale ha inoltre modificato la distribuzione dei seggi, esteso il numero dei parlamentari (da 500 a 600), e ristrutturato le circoscrizioni, allontanando di decine di chilometri i seggi dalle abitazioni degli elettori. Ma quest’ultimo passaggio riguardava principalmente le città e i villaggi del Kurdistan turco. Infine è stata confermata la soglia di sbarramento al 10%, introducendo un vantaggio per le coalizioni che raggiungessero quella quota: i partiti che non avrebbero raggiunto lo sbarramento avrebbero potuto ottenere lo stesso una pattuglia di parlamentari se si fossero presentati in coalizione. Questo particolare provvedimento ha avvantaggiato il MHP, quotato intorno al 3%, il quale ha ringraziato il partito di Erdogan, sostenendo la coalizione del presidente uscente, pur avendo fatto parte dell’opposizione nelle ultime elezioni. D‘altro canto il principale partito di opposizione, il CHP, ha dovuto costituire una innaturale coalizione “repubblicana” che comprende partiti di sinistra, di destra, laici e islamisti.

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La dittatura in pratica: come si sono svolte le elezioni
Appena arrivati a Istanbul abbiamo notato i manifesti di Erdogan ovunque, su ogni palo dell’autostrada, sulle facciate degli edifici e nei locali. Nella famosa piazza Taksim, quello che era Gezi Park oggi è un cantiere, nel quale una grande moschea in costruzione guarda le gigantografie del presidente, che lo circondano su tre lati. Quando arriviamo in Bakur la situazione non cambia: le lampadine simbolo del AKP sono ovunque e lo spazio riservato al partito curdo nella regione curda resta molto limitato. Osservando un telegiornale turco, del quale non capiamo le parole, viene mostrato il presidente in ogni servizio, tra immagini di guerra e delle operazioni di contro-insurrezione dell’esercito nazionale. Inspiegabilmente il presidente interviene anche durante un servizio sugli esami di stato della scuola media, nella totale assenza degli altri candidati alla presidenza sulle tv di stato. Quando guardiamo questo telegiornale, è il 24 giugno, e i seggi sono aperti da due ore.

Anche partecipare alle manifestazioni di chiusura della campagna elettorale è problematico: dobbiamo attraversare tre posti di blocco e subire tre perquisizioni consecutive per accedere alla piazza, nella quale l’allegria regna sovrana, al netto del clima fortemente repressivo. Anche qui i manifesti elettorali del HDP si alternano a quelli del AKP, assolutamente intoccabili. Ci troviamo a riflettere sull’assurdità di quei manifesti alla festa di un partito di opposizione. Lasciando la festa vediamo un anziano schiaffeggiato e spinto via, perché colpevole di avere addosso un bracciale con i colori della bandiera curda.
Girando per i seggi elettorali durante i processi di voto si possono osservare imponenti dispiegamenti di polizia ed esercito, con decine di mezzi blindati annessi fuori da ogni seggio. Altri componenti della nostra delegazione ci riferiscono di soldati armati dentro i seggi, nelle zone più delicate della provincia, ennesimo esempio del processo di militarizzazione che tutte le città curde vivono da anni.

Sui social network girano decine di video di pestaggi da parte dei sostenitori del AKP ai danni degli elettori degli altri partiti. Un amico ci riferisce di un elettore che pretende di votare per l’intera propria famiglia, ottenendo quanto richiesto dopo aver mostrato una pistola al seggio nel totale disinteresse delle “forze dell’ordine”. Man mano che le elezioni procedono, in ogni seggio incontriamo una crescente chiusura da parte della polizia, che in un primo momento ci ha seguito dentro i seggi, marcandoci stretto, e verso la fine dell’orario di voto (alle 17!), non solo ci impedisce l’ingresso, ma ci invita ad allontanarci, circondandoci con un poco rassicurante cordone di scudi.
Lungo la strada da un seggio all’altro è possibile vedere processioni di elettori, che hanno scoperto la mattina stessa lo spostamento del proprio seggio fino a 40 km di distanza, mentre noi iniziamo a ricevere notizia dell’arresto di altri osservatori internazionali, cui viene impedito di lavorare, pur accompagnati da deputati tedeschi della Die Linke. Dalla città arabo-curda di Sanliurfa arrivano foto di migliaia di schede elettorali con voti per HDP semplicemente cestinate. Per quanto riguarda i cittadini che avevano perso la propria abitazione durante i bombardamenti dell’anno precedente, non ci risulta siano stati istituiti seggi in cui potessero esprimere la propria preferenza.

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Nasce il sultanato: lo spoglio e i dubbi
Data la tensione, decidiamo di seguire lo spoglio dal nostro albergo, anziché dalla sede del partito, e subito qualcosa non torna: le prime notizie dello spoglio danno Erdogan oltre il 60%, la coalizione di opposizione al di sotto del 30%, e l’HDP intorno al 6%. Le persone che seguono lo spoglio insieme a noi trovano assurdo un risultato del genere, e ci dicono che l’agenzia incaricata di contare i voti e comunicare i risultati appartiene… indovinate a chi?
Nonostante il forte controllo, la repressione degli elettori, i conflitti di interessi e le chiare truffe, i margini di distanza tra i partiti si riducono in modo graduale ma continuativo, conferendo alla fine un miracoloso 11% al HDP e permettendo quindi al partito di eleggere una pattuglia di una sessantina di deputati. A questo punto è bene specificare che degli oltre 80 eletti del HDP alle precedenti elezioni, solo una decina non si trova attualmente in carcere. Uno dei detenuti è Demirtas, il candidato alla presidenza del HDP, che si trova in carcere da un anno e mezzo in attesa di processo.

Nel corso della notte, Erdogan si conferma al di sopra del 50%, scongiurando il rischio di ballottaggio contro il candidato della coalizione repubblicana, Ince. Il sultanato è stato consacrato, e il presidente uscente assume il nuovo ruolo da lui stesso creato senza colpo ferire. Nel frattempo nelle strade della città in cui ci troviamo si riversano curdi festanti, rassicurati dal miracolo che ha fornito loro una seppur minima forma di rappresentanza. La polizia non è molto felice di ciò, e la manifestazione spontanea viene bersagliata dai lacrimogeni, mentre pattuglie di polizia fermano e manganellano tutti quelli che possono, pur senza spezzare il desiderio di festeggiare dei manifestanti. Per alcune ore la città è invasa, gli abitanti sorridono, celebrano, fanno cori, alzano i fumogeni, e scappano dalla polizia, ancora sorridendo.

Torniamo in hotel con l’amaro in bocca, metaforicamente e letteralmente, consapevoli che questa piccola vittoria non arresterà la repressione governativa, che ormai da tre anni si inasprisce costantemente contro il popolo curdo e i suoi rappresentanti. Oggi Erdogan ha più potere di prima. Nel frattempo i governi europei si congratulano con il sultano rinnovato, pur sapendo in quale contesto è avvenuta questa elezione, chiudono entrambi gli occhi in virtù dei loro interessi strategici: il secondo esercito della NATO è un alleato imprescindibile, e i sei miliardi di euro che sono stati gentilmente concessi a Erdogan per mantenere milioni di rifugiati all’interno dei propri confini sono un investimento che non si vuole rinnegare.

Filosì

 

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