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Crisi siriana, le schermaglie di un potere debole

Ovviamente non sembra in dubbio la volontà di dare seguito ai preparativi del conflitto più annunciato di sempre: l’alternativa sarebbe il disastro per la credibilità statunitense come garante del sistema internazionale post-1991. Ed infatti l’amministrazione a stelle e strisce ha segnato un punto a suo favore con l’approvazione da parte del Senato federale di un piano di intervento militare spalmato su un arco di almeno 90 giorni.

Ma stavolta, a differenza delle passate guerre, il presidente non è alla testa, ma sulle spalle del parlamento. E in ciò, se persino in un sistema presidenziale e maggioritario forte come quello USA si deve ricorrere alle forme di un metodo delle larghe intese (che si produce in sistemi politici più frammentati e bisognosi di continui compromessi), è a rischio la stessa capacità della governance democratica rappresentativa di assicurare la stabilità del quadro globale.

Non che sia scontata l’alternativa autoritaria; da una parte la compagine jihadista non ha alcun futuro né seguito popolare al di là delle sovvenzioni della monarchia saudita. Sempre più pervasa questa da illusioni di grandezza e convinzione che le proprie risorse materiali possano indefinitamente comprare fedeltà ed influenza nella regione. Dall’altra l’arresto dell’iniezione permanente di liquidità da parte della Federal Reserve sui mercati globali – e le gravi ripercussioni economiche sui paesi emergenti – sembra spegnere diverse illusioni riguardo all’ineluttabilità del “secolo asiatico”.

Ma la roulette russa dell’economia globalizzata resta sempre un’incognita, persino nelle mani dei suoi stessi creatori. Da un lato sempre gli Stati Uniti si trovano nella necessità di stabilizzare il proprio quadro debituale: a breve incombe la scadenza di un nuovo accordo in Congresso per finanziare il disavanzo statale. Mentre l’aumento del prezzo del petrolio che conseguirebbe da una guerra rischia di affossare la già velleitaria prospettiva di ripresa europea.

E specialmente quella di un attore particolare: il governo italiano. Che in questo momento si muove in una sorta di equilibrio del terrore interno, schiacciato tra le tensioni nell’esecutivo; la prospettiva di un avventura militare da cui uscirebbe a pezzi e con un paese ancora più indebitato; le laute commesse derivanti dall’antica amicizia con Assad per le aziende produttrici di armi e strumenti di controllo (pubbliche come la Selex e private come Area Spa); la presenza militare italiana in Libano che finirebbe nel mirino dei lealisti siriani; e l’accodarsi di un fronte trasversale di ministri (Bonino, Mauro, Lupi, Kyenge, D’Alia) all’iniziativa di digiuno lanciata da papa Francesco.

Un evento quest’ultimo che cade scenograficamente all’indomani del G20 russo ed alla vigilia del voto finale del Congresso di Washington il 9 settembre. Con tutto ciò che comporterà quest’ultimo.

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