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NON SARANNO I TRIBUNALI A FERMARE LE NOSTRE LOTTE

Nei prossimi mesi numerosi saranno i processi a carico di compagni e compagne del movimento a Firenze. Si tratta di processi per svariati episodi ed ipotesi di reato. Dalla resistenza a pubblico ufficiale, semplice ed aggravata, ai danneggiamenti, violenza privata, fino ad arrivare all’associazione a delinquere, utilizzata sempre più spesso in tutta Italia al fine di costruire un castello accusatorio tale da consentire l’applicazione di misure cautelari, dal carcere, ai domiciliari, agli obblighi di firma o residenza, per reati che altrimenti non le consentirebbero. Molti dei processi riguardano denunce per legittime iniziative volte a impedire o contestare l’apertura di nuove sedi di fascisti, la loro presenza in città e non solo. E’ in questo senso importante sottolineare il ruolo che questi ricoprono come elementi interni cooptati e protetti dal sistema, in quanto funzionali al suo mantenimento.

Il 3 maggio sarà poi la prima udienza del processo maxi a carico di 87 compagni del movimento a Firenze. A questo quadro di per se sufficientemente pesante vanno aggiunte le numerose denunce che continuano ad arrivare, dalle manifestazioni contro il TAV a Firenze, contro la guerra in Libia ed ultima in ordine cronologico quelle contro 15 studenti “colpevoli” di aver contestato la presenza di Visco all’Università di Novoli.

Di fatto quindi,  centinaia di persone sono sotto processo e denunciate a Firenze per le attività e le mobilitazioni politiche e sociali degli ultimi anni.

Lo Stato adegua continuamente la propria legislatura repressiva. Oggi si sviluppa in una cornice europea, sia nell’allineamento delle legislazioni che nel coordinamento delle forze di polizia e magistratura. Negli ultimi 20 anni numerosi sono stati i nuovi provvedimenti sviluppatisi in questo senso: dalle liste internazionali delle organizzazioni e delle persone “terroriste”, alla comune legislazione antiter, in Italia adeguata con il comma sexies al reato 270 delCodice Rocco, che definisce condotte “terroristiche” le pratiche proprie delle manifestazioni e delle contestazioni verso organi dello Stato, sovranazionali ed economici.  Le conseguenze di questo clima di controllo e repressione si sono concentrate anche sui conflitti sul lavoro. Se, da una parte, vengono attaccati i diritti dei lavoratori e limitato lo stesso diritto a manifestare, dall’altra le cariche verso i lavoratori in lotta, gli arresti, l’uso dei crumiri per sfondare i picchetti o di squadrette per intimorire gli occupanti (fascismo/repressione), i provvedimenti restrittivi a carico di chi attivamente partecipa alle mobilitazioni e/o porta loro solidarietà, sono diventati pratica comune di stati e padroni.

I processi, le denunce, gli arresti, le botte in piazza a lavoratori e studenti, sono ormai ovunque una costante. La repressione, come sempre, diventa una delle principali forme per garantire controllo sociale, disgregare momenti organizzativi, intimidire e spingere verso il “privato” migliaia di ragazzi e ragazze che si affacciano oggi nelle mobilitazioni di piazza, spinti tra l’altro da una condizione sociale giovanile estremamente difficile, pesantemente condizionata da oltre 25 anni di tagli continui a scuola ed università, con conseguente impoverimento della qualità didattica.

Scuola ed università diventano non a caso luoghi dove le forme proprie di controllo (dalle note alle sospensioni, fino ad arrivare alle espulsioni…) vengono sostituite con modelli culturali repressivi finora mai usati in questi ambiti, con le richieste di intervento di polizia e carabinieri. Di fatto, applicando alla gestione dei comportamenti “devianti” e del disagio dispositivi repressivi propri di altre istituzioni, la scuola abdica al suo ruolo educativo (i cani davanti e dentro le scuole, le operazioni spettacolari dei carabinieri, l’utilizzo dell’emergenza bullismo), ed il corpo docente rischia di essere relegato ad una sorta di “guardia scolastica”. Così come assistiamo sempre più spesso alla cooptazione per finalità repressive di alcuni settori del lavoro: dai controllori degli autobus nella repressione dell’immigrazione, al personale medico per reprimere comportamenti devianti attraverso i TSO, ai vigili del fuoco in manifestazioni e sgomberi. Vediamo territori sempre più militarizzati, a maggior ragione se contesti di lotte e vertenze significative (dalla Val Susa a Napoli), parallelamente ad una sempre maggiore militarizzazione delle stesse forze dell’ordine con ricadute pesanti sulla gestione stessa dei conflitti, sempre più vicina ad una strategia propria delle zone di guerra. Tutto ciò la dice lunga sulla fase di profonda arretratezza che la sinistra italiana sta vivendo. Mentre i magistrati dalle aule dei tribunali svolgono il loro naturale ruolo nella strategia repressiva, parte della sinistra si butta a capo fitto nel giustizialismo, nella legalità e nella sicurezza. In questo senso possiamo dire con certezza che questo sistema culturale ha fatto breccia: la presa di distanza o il silenzio, la desolidarizzazione, finanche la denuncia, come abbiamo visto per il 15 ottobre 2011, sono purtroppo diventate pratiche comuni anche in parte del movimento.

Crediamo che rispondere alla repressione, manifestare la solidarietà necessaria a chi lotta non voglia dire piangersi addosso, ma al contrario siano tutti elementi che contrastano l’agire dello Stato. Non basta dire banalmente che alla repressione si risponde con le lotte…questa è una completa ovvietà! Alla repressione bisogna rispondere anche con la comprensione del fenomeno, con la solidarietà, con la diffusione delle informazioni, con l’appoggio materiale ai compagni, con le mobilitazioni ed il coinvolgimento su questo terreno dei più ampi settori possibili. Questo, a nostro parere, rafforza le nostre posizioni, contribuisce a ricostruire dei rapporti di forza adeguati a non dover subire passivamente lo Stato e rende chiaro a compagni ed avversari che nessuno verrà lasciato solo.

Se, per i nostri limiti, rinunciamo a questo, continuiamo a fare passi indietro. Allora, di fronte a questo scenario, si deve avere la capacità di affrontare il fenomeno  e  rilanciare anche su un terreno di mobilitazioni comuni, necessario proprio nella costruzione di legami sociali e di solidarietà che contrastino visibilmente le strategie di controllo e repressione.

Solidarietà per tutti i compagni e le compagne denunciati, sotto processo, in carcere.

Centro Popolare Autogestito fi-sud

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