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Della difficoltà di essere sindacato

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Pubblichiamo questo interessante articolo di Giovanni Iozzoli per Carmilla. Al netto di una lettura che ci pare troppo morbida nei confronti della CGIL e del suo ruolo storico (il sindacato di Lama come garante dello Stato negli anni ’70 non si può dimenticare, con le sue attività esplicitamente volte a placare la conflittualità operaia), l’articolo pone delle domande importanti sul presente di un’azione sindacale e sulle sfide che si pongono qui ed ora.

Parlare di “crisi della CGIL” è un po’ come parlare della crisi del PD – il racconto di una criticità eterna, estenuante, che ti costringe a rimestare argomenti triti e antichi. La Cgil, per definizione, è sempre “in crisi” (come il PD): e le diverse manifestazioni di questo malessere endemico – strategiche, programmatiche, di insediamento, di immagine e rapporto con i lavoratori – si riproducono fase dopo fase, in uno smottamento costante e mai definitivo.

Raccontare della crisi della CGIL vuol dire misurarsi con le colossali trasformazioni negli ultimi 30 anni della società italiana e del suo capitalismo sempre più asfittico: le privatizzazioni e lo spezzatino delle eccellenze industriali, il nanismo d’impresa, il decalage degli investimenti pubblici e privati. Come in ogni grande naufragio, anche quello della CGIL presenta un elemento oggettivo – la famosa “crisi dei corpi intermedi”, tipica delle società tardo liberali – e un elemento di responsabilità soggettiva: l’inadeguatezza di una classe dirigente cresciuta negli anni d’oro della concertazione e incapace di adeguarsi a scenari mutati.

Inadeguatezza, quindi, non intelligenza col nemico. Questo punto è essenziale: è sbagliato dare dei “venduti” a questi dirigenti, non lo sono; si sono trovati ad agire in una fase storica di epocale sterilizzazione del conflitto, accompagnata da un aumento artificioso del ruolo “politico” del sindacato, a cui ha fatto seguito una repentina stagione di disintermediazione; il tutto sullo sfondo di una mutazione potente della composizione sociale delle  classi che dovrebbero rappresentare. La confusione e la paura hanno prevalso in questa generazione di dirigenti – quella formatasi nel corso degli anni 90 – incapaci di una lettura sistemica di questi fenomeni contraddittori. Salvare le strutture, i bilanci, il tesseramento, salvare le apparenze in termini di rappresentatività formale (il livello di quella reale è ben noto anche a loro): fare sindacato è diventata un’attività di sopravvivenza, gioco forza condizionata sempre più dai meccanismi simoniaci della bilateralità, della gestione dei servizi, dei fondi negoziali. Le risorse finanziarie che arrivano da questi dispositivi – estranei e nemici di ogni pratica rivendicativa – sono una droga ottundente che da dipendenza e paralizza. Nessuna partita importante si può condurre in queste condizioni, si gioca sempre per lo zero a zero. Salvare la pelle e tirare su la saracinesca ogni mattina: questa è diventata la priorità in casa CGIL.

L’elezione a segretario di Maurizio Landini, avvenuta nel gennaio 2019 dopo un congresso fintamente unitario, in cui lo scontro tra pezzi di apparato trovò una sua mediazione e si risolse appunto con l’elezione dell’ex metalmeccanico, è stata solo la conferma della crisi di prospettiva della confederazione. La scelta degli apparati ha rappresentato il tentativo di cavalcare il residuo appeal mediatico di Landini per surrogare al drammatico vuoto politico e culturale di una stagione: l’equivalente della scarica elettrica applicata alle anguille, che certi pescivendoli napoletani un tempo usavano per offrire un illusione di vitalità alla merce esposta. L’arrivo di Landini in via del Corso, non ha rappresentato in alcun modo una svolta o un’uscita dallo stallo, anzi ha accentuato la tendenza al vivacchiamento spacciato per “tenuta”, alla politica del giorno per giorno, all’invenzione estemporanea a mezzo intervista, all’impaludamento unitario che ucciderebbe qualsiasi buona intenzione programmatica.

Che le speranze sinistroidi su Landini fossero malriposte, lo confermava tutta la sua storia dal 2010 in avanti – che è stata essenzialmente la storia del percorso di normalizzazione dell’anomalia Fiom, che pure una funzione aveva avuto nel dibattito pubblico italiano negli anni dell’offensiva Fiat. Del resto il viatico per avanzare la sua candidatura a segretario, fu la firma apposta nel 2016 al peggior contratto della storia dei metalmeccanici, un obbrobrio in cui gli aumenti in paga base risultavano quasi azzerati; quella firma rappresentò quell’“atto di responsabilità” che rendeva Landini potabile anche agli occhi dei pezzi di burocrazia che lo avevano osteggiato negli anni dell’effimero protagonismo Fiom. Della serie: nel mondo alla rovescia dei vertici CGIL vieni premiato se hai il coraggio di firmare delle schifezze e rinnegare la storia da cui provieni. Il senso di responsabilità è il male storico della sinistra italiana.

Oggi il governo Draghi, in questa fase balordissima di “unità nazionale” , ha bisogno di esibire un qualche revival concertativo – per completare in santa pace (sociale) l’apparecchiata del Recovery Fund. Il passaggio dalla disintermediazione ostentata dagli ultimi governi, a questa nuova visibilità mediatica – tavoli, consultazioni, conferenze stampa – ha lusingato e confuso ancora di più i gruppi dirigenti Cgil, persi nell’illusione di essere tornati in qualche modo in pista. Anche a livello regionale fioccano intese e protocolli di cui, com’è noto, è lastricata la via dell’inferno.

Correre dietro alle “nuove identità del lavoro” – iperprecari o riders – inventandosi strumenti di intervento, è doveroso ma nella situazione attuale non può servire a molto. Il calo delle tessere dei “produttivi “ è irreversibile – i mutamenti in atto nella vecchia base industriale saranno, nella fase post Covid, pesantissimi. Sarebbe necessaria una trasformazione in senso sociale delle Camere del Lavoro, che dovrebbero ridiventare epicentri di conflitto e organizzazione sui territori, stravolgendo filtri e prassi ormai ossificati, rimettendo in moto energie e strutture; provando a investire in progetti vertenziali nel nodo non lavoro/reddito intorno a cui si giocheranno molte partite del futuro. Ma con quale personale politico, con che elaborazione? Sono scenari impossibili anche solo da immaginare , visto che la concezione “proprietaria” dei gruppi dirigenti negli anni si è ulteriormente incarognita (la “roba” – risorse, sedi, strumenti, distacchi – appartiene a chi comanda, non ai lavoratori).

Peccato perché nel disastro civile e antropologico della società italiana, il volume di fuoco di cui dispone la Cgil è ancora robusto: non tanto per il numero di iscritti (dato ormai poco indicativo), quanto per la disponibilità gratuita, di migliaia di delegati, piantati in ogni ambito della produzione e della riproduzione sociale; una enorme ricchezza che nessuna organizzazione sociale italiana può vantare, che nessuno coltiva e che continua a stagnare e deperire, nell’assenza di conflitto e protagonismo. Con un simile patrimonio organizzativo (pensiamo alla presenza nella sanità pubblica e privata) un’altra CGIL avrebbe potuto esercitare un ruolo di governo dal basso, nella gestione schizofrenica della crisi pandemica. Invece non è riuscita a portare a casa neanche qualche soldo in più per gli “eroi” dell’emergenza. Il basso profilo è diventato una condizione, non una scelta.

La Cgil ha visto essiccare la sua area di influenza sociale sui posti di lavoro, soprattutto dentro l’industria – e soprattutto dopo il 2008. Nel gorgo della crisi generale, paure ed egoismi hanno prevalso nel corpo centrale di classe; le liste nere si sono moltiplicate ovunque – Marchionne ne fece addirittura esibito strumento di governance aziendale. L’impegno sindacale di fabbrica viene oggi considerato rischioso o non utile; lo slabbramento e lo sfilacciamento delle catene di produzione, finanche dentro i medesimi perimetri aziendali, ha spezzettato tragicamente le figure di classe ben oltre la tradizionale distinzione tra impiegati e produttivi: con un esercito di interinali, stagisti, contratti a termine e appalti interni, l’iniziativa sindacale la tieni solo se hai un profilo politico alto, intrepido, in grado di spaventare gli avversari e produrre egemonia nelle sfere di prossimità in cui operi.

Ovviamente, parlare della crisi della Cgil, significa parlare della crisi generale dell’”agire sindacale”, delle sue pratiche, dei suoi obiettivi, soprattutto della sua efficacia dentro un mondo del lavoro globalizzato e liquido, con milioni di lavoratori che sono fuori da ogni tutela contrattuale e la giornata lavorativa sociale in piena destrutturazione. In Italia ormai si è sedimentata da trent’anni un’area di sindacalismo di base, coraggiosa, orgogliosa, eppure restia a fare un bilancio della sua storia. Forse perché sarebbe un bilancio complicato e non lusinghiero. E questo non solo per la nota frammentazione settaria delle sigle, quanto per un ritardo complessivo, lungo l’arco di questo trentennio, in termini di crescita, maturazione e influenza di tali aree: la crisi del confederalismo corre più veloce della capacità di queste forme sindacali di intercettarne gli esiti; le tessere non rinnovate alla Cgil spesso defluiscono nel qualunquismo aziendalista, non si trasformano in consenso a sinistra.

Naturalmente non si possono ignorare gli sforzi neo-confederali dell’USB o l’eroismo del Si Cobas, che nella logistica ha raggiunto risultati straordinari – e che, bando alle chiacchiere, rappresenta l’unica novità reale dell’ultimo decennio, in termini di organizzazione operaia. Ma è necessario interrogarsi sulla limitatezza e la rigida perimetrazione di questi insediamenti: la logistica è strategica, lo dicono tutti, ma perchè questo nuovo sindacalismo non riesce a penetrare nei settori di classe più “tradizionali”? Si rischia la ghettizzazione settoriale degli insediamenti. La possibilità che il nuovo sindacalismo si “adatti” alla struttura castale del mercato del lavoro, accontentandosi di presidiare questo o quel segmento lasciato libero dall’insipienza confederale, anziché puntare alla ricomposizione di classe. Che significa: tenere insieme quello che l’organizzazione capitalistica del lavoro divide. Non sarebbe male riprendere in mano alcune elaborazioni della stagione dell’autorganizzazione, tra il 1987 e i primissimi ani 90, quando la forma dei Comitati di Base veniva ipotizzata non come matrice di una pletora di neo-sindacati, ma come nuova organizzazione di massa – aperta e trasversale – del protagonismo operaio, con suggestioni persino neo-soviettiste. Un’altra epoca, un altro mondo – la storia ha preso una diversa direzione. Ma solo tenendo aperta la discussione, il ragno della nostra confusione sarà cavato dal buco in cui ci siamo cacciati.

Stesso discorso per la piccola e residuale sacca di opposizione interna alla CGIL. Attenzione: parliamo dell’Opposizione non delle “sinistre sindacali” – che storicamente sono state solo cordate di poltronisti e buoni a nulla. L’Opposizione CGIL esiste da circa vent’anni e si è definita in una discontinuità radicale rispetto alla storia del sindacato confederale post 92, sempre sul filo di lama che divide l’eresia dall’apostasia. Una presenza urticante, mai alla ricerca dello strapuntino del ”diritto di tribuna”. Tutte le condizioni della fase storica in cui questa esperienza nacque, sono oggi profondamente mutate, a partire dal terreno di gioco – la CGIL stessa. Varrebbe la pena anche qui aprire un dibattito coraggioso su questo impegno duro, snervante, fatto di espulsioni ed ostracismi, che pure così poco ha sedimentato nel tempo: per capire come valorizzare quel che resta di questi anni di sforzi e coerenza (anziché sfibrarsi in microscissioni o fingere continuità, rispetto ad una stagione ormai chiusa).

All’inizio dicevamo che è sbagliato e fuorviante parlare di “sindacalisti venduti”, espressioni che generano polemiche volgari e rischiano di offendere impunemente migliaia di quadri e delegati onesti e puliti; sono argomenti che non fanno crescere politicamente il dibattito tra lavoratori e ci condannano ad una eterna pantomima populista tra “onesti e corrotti” che già tanto male ha fatto alla sinistra. Questo, però, non ci esime dall’usare un’altra categoria, quella del tradimento: non come faccenduola morale, ma come grande fenomeno storico, il tradimento di classe di cui tutte le espressioni organizzate  del movimento operaio europeo si sono macchiate a partire dagli anni 90 (ne parlava Hobsbawm anni fa, quando furoreggiavano le terze vie). Questa categoria del tradimento ci torna in mente, leggendo l’esposto “all’illustrissimo sig. Prefetto e all’Ill.imo sig. Questore” presentato dalla Filt Cgil di Piacenza  il 4 febbraio del 2021. In esso si denunciava il fatto che un picchetto sindacale organizzato dal Si Cobas impediva l’ingresso e l’uscita delle merci ai cancelli del grande magazzino Tnt Fedex, dov’era in corso una durissima vertenza. Nella sostanza la dinamica era: driver organizzati dalla CGIL che reclamavano la “libertà del lavoro” (come un qualsiasi sindacatino giallo) contro il loro colleghi facchini iscritti maggioritariamente ai Cobas. Si era nel pieno della lotta contro la chiusura di quell’impianto e il segretario della categoria Cgil più importante del territorio, chiamava le forze di polizia a rimuovere un picchetto sindacale.

Naturalmente è andata a finire che la TNT-Fedex ha portato a compimento lo smantellamento di quel centro di distribuzione e 300 famiglie sono rimaste per strada. Senza addentrarci nei meandri di una vertenza complicata – per l’intreccio di appalti e società coinvolte e per la ridda di accuse e contraccuse tra sindacati – fa impressione vedere un gruppo dirigente Cgil invocare la polizia contro le iniziative di sciopero in difesa dei posti di lavoro organizzate da un altro sindacato. Non una lotta per l’egemonia: ma il più sbrigativo ricorso alla celere. Sarà sulla base di quell’esposto, oltre che di uno parallelo dell’azienda, che la Procura di Piacenza avvierà la nota inchiesta [QUI] finita con arresti e denunce – quella in cui una PM ha candidamente detto in conferenza stampa che i Cobas non sono un sindacato e che le loro rivendicazioni erano pretestuose perché in quei magazzini , “acquisiti agli atti le buste paga”, la Procura giudicava ingiustificati simili eccessi rivendicativi! In questo grumo collusivo tra strategie aziendali, corporativismo sindacale, intervento giudiziario e questurino, c’è un crudo e impietoso ritratto d’epoca. Qui non si tratta di essere “venduti” (nessuno realisticamente pensa questo) quanto di tradimento storico delle ragioni sociali che difendi: e, di sicuro, tradimento di ogni statuto o Carta dei valori o di qualsiasi altra documento identitario o valoriale stia nella storia del sindacato di Giuseppe Di Vittorio; e non è un fatto morale, è una grave questione maledettamente politica, che racconta molto della crisi di identità della CGIL.

Un vecchio sindacalista ormai in pensione, che aveva visto gli anni d’oro del protagonismo consiliare, e le grandi sconfitte, tra il 1980 e il 1984, ha detto: “l’attività sindacale, in ogni epoca, anche nei periodi straordinari, è fatta al 90% di tante piccole cose, microvertenze, tutele individuali, rotture di maroni quotidiani; però nei decenni passati, tutti, ma proprio tutti quelli che lavoravano in CGIL, erano convinti di incarnare una qualche verità storica, una marcia di emancipazione collettiva; ognuno a suo modo – chi pensando alla Costituzione, chi al socialismo – ma ognuno sentiva di stare dentro questo orizzonte di emancipazione, dentro una funzione storica, un progresso. Oggi, smarrito quell’orizzonte collettivo, restano le piccolezze quotidiane della pratica sindacale e ti trasformi in un impiegato che deve arrivare a sera e chiudere le sue pratiche.” E questa è oggi la CGIL: un corpaccione sfibrato e disilluso che non evoca alcuna suggestione né tra i lavoratori né tra i suoi dipendenti; nessun lavoratore conta più su quell’affiliazione per migliorare la propria condizione; nessun iscritto conosce le parole d’ordine della Confederazione; al sindacato ci si rivolge quando le cose cominciano ad andare male e si sente puzza di esuberi o di chiusure, allora i lavoratori si indirizzano alla struttura come ad un ufficio parastatale o ai servizi sociali: gli esperti degli ammortizzatori sociali che dovranno “ammortizzare” gli effetti della crisi.

C’è una “specificità italiana” nella crisi dell’agire sindacale? Siamo dentro l’onda lunga di una nemesi storica che ci condanna in un virtù di un passato glorioso – il partito comunista più forte dell’occidente e anche il laboratorio rivoluzionario più avanzato nel decennio 68-78? O la nostra crisi è lo specchio fedele di quella che attanaglia l’intero movimento sindacale in Europa e negli Usa? Una buona domanda da porci, in questo primo maggio delle piazze vuote.

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