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La condizione precaria nell’Italia della crisi. Attualità militante della conricerca e pratiche di riappropriazione.

Relazione meeting “Contropotere nella crisi” Bologna 13 – 14 Ottobre

A cura di Csoa Newroz

 

Affrontare da un punto di vista antagonista la questione della precarietà significa sottrarre questa categoria ad un’impostazione neo-keinesiana per cui la precarietà equivale esclusivamente alla incertezza ed all’instabilità dovuta alla mancanza di reddito. D’altra parte questa categoria va rapportata politicamente con l’emersione di soggettività piuttosto che con un semplice quanto riconosciuto ed accettato dato sociologico. 

La precarietà come condizione non indica immediatamente una sua ricomposizione politica, né un’identità compatta. Per questo la concettualizziamo come condizione ambivalente che se per un verso rappresenta la sovversione irrevocabile della vecchia disciplina capitalistica del “lavoro fordista”, dall’altro si configura con tutta la sua violenza come dispositivo di espropriazione e sfruttamento che eccede il campo del “lavoro”, estendendo lo sfruttamento all’agire umano vivente ed al suo contesto.

Se la crisi del capitale oggi presenta le caratteristiche di un’accelerazione neo-liberista senza contropartita in termini di consenso e accesso al credito, individuiamo come centrale questo doppio processo tendente alla precarizzazione sociale: la crisi del toyotismo laddove questo nuovo modo di produzione si è impiantato dagli anni 70; ed una transizione al postfordismo segnata dalla violenza di una nuova accumulazione originaria – gestita “dall’alto” – in quei territori in cui la forza dei conflitti sociali operai non ha obbligato il capitale ad innovarsi negli ultimi trent’anni.

Il toyotismo da un punto di vista del capitale è stata la cattura dell’autonomia operaia che ha operato una trasformazione della società ai suoi livelli medi, trasformando la liberazione dal lavoro in flessibilità, l’antagonismo all’organizzazione del lavoro taylorista in una differente organizzazione del lavoro meno verticale, l’accesso al reddito in accesso al credito e finanziarizzazione. L’attuale crisi del capitale è scaricata su questo modello riproducendo una nuova “separazione”  proletaria dal rapporto di capitale, separazione come differenza di condizione, di obiettivi, di possibilità. E’ in questo quadro che il debito e la sua forma di espropriazione regge un processo di nuova precarizzazione che frattura in potenza l’illusione neo-liberista della società “in cui tutti sono proprietari”. Le insurrezioni sociali e post-coloniali in UK, la ciclica rivolta delle varie banlieues del mondo, fino all’esplosione delle periferie del 15 ottobre scorso indicano proprio questo processo.

Le lotte ed i conflitti degli ultimi mesi – in tutta la loro eterogeneità e  dispersione – risvelano proprio i livelli di dominio mistificati ed occultati dal sistema del credito. Il lavoro è sempre più “la ricerca del lavoro” in condizione di inoccupazione; la flessibilità diventa povertà; il lavoro autonomo si identifica con l’autosfruttamento; la libertà d’acquisto e l’accesso al consumo si traduce in indebitamento. È la svalorizzazione delle nostre vite – che prende forma nell’impoverimento costruito dalle politiche di austerity – che costituisce la cifra attuale della precarizzazione sociale.

 

In questo quadro il nostro tentativo è quello di interrogarci, dall’interno dei soggetti del conflitto sociale, per una critica alle forme di organizzazione della precarietà. Una critica non sterile, bensì alla continua ricerca di un metodo politico che sia all’altezza dello scontro agito dall’alto, capace  di scommettere sulle pratiche militanti che interpretino le risposte che emergono dal “basso”, verso una loro accelerazione in direzione del movimento di rottura e trasformazione.

Consideriamo la precarietà come stretta tra due poli che un agire politico antagonista deve affrontare “a viso aperto”: l’uno è quello che la interpreta dal punto di vista “lavorista”, e quindi nei termini della “mancanza di lavoro”. L’altro ha a che fare con le esperienze di organizzazione dei movimenti “precari” impostate da una concettualizzazione della precarietà come identità.

 

Il riemergere dei conflitti sul “lavoro”, dal primo significativo caso Inse fino all’Alcoa, lo interpretiamo non come “ritorno nostalgico” dell’identità operaia, forza motrice di processi di soggettivazione antagonista. Piuttosto ha a che fare con un’altro ritorno, quello “rimosso” ed occultato del nodo irrisolto del “lavoro” come nocività, e del reddito come rivendicazione immediatamente legata alla questione del potere di decidere cosa e come produrre, oltre le forme statuali. La “classe operaia” come grande segmento forte protagonista della trasformazione sociale del secolo scorso ha avuto nella sua capacità collettiva di “auto-negazione”  – con gli scioperi ed il rifiuto del lavoro- la maggiore forza per conquistare “potere”. Oggi la parabola progettuale delle lotte operaie legate ad un regime di produzione essenzialmente fordista è entrato nella sua fase discendente: non il “rifiuto del lavoro” bensì “la domanda di lavoro” connota le rivendicazioni di questa soggettività.  Rivendicazioni spesso mediate ed imposte da una prassi dell’agire politico e sindacale rinchiuso nella logica lavorista e produttivista, condotte all’insegna della rivendicazione corporativa e della mediazione sindacale. E’ allora dalle esperienze di maggiore radicalità e conflittualità che traiamo alcune riflessioni tutt’altro che assimilabili a semplici “ricette” o “soluzioni” del problema. Le lotte per la difesa del posto di lavoro rischiano di trasformarsi e di agganciarsi all’interesse del capitale di “rimercificare” il lavoro, di essere parte integrante di una strategia della crescita capitalista che utilizza la “ristrutturazione dell’austerità”  della forza-lavoro come variabile ancora più dipendente dal profitto. Abbassare le condizioni di vita, diminuire il salario, imporre nuova organizzazione della produzione sono vissuti come “mali minori” rispetto al licenziamento. Ecco che lo slogan “diritto al lavoro” sempre più si trasforma in “ricatto del lavoro”. Pensiamo che continui a sopravvivere una coincidenza discorsiva tra precarietà e “lavorismo” – di cui si avvantaggia il padrone collettivo prima di tutto – in una situazione in cui la lotta alla precarietà e lo sfruttamento pone immediatamente la questione della riproduzione sociale complessiva, della vita, come orizzonte e sbocco necessario delle lotte. E’ la critica della produttività (e del profitto dei padroni) come – anzitutto – antagonismo alla svalorizzazione delle nostre capacità, che vogliamo far riemergere dall’interno della domanda di cambiamento che la crisi pone nel momento in cui apre delle transizioni sociali. E’ anche e soprattutto la capacità di comprendere perchè le lotte dei precari, appoggiate dal sindacato, per ottenere il contratto a tempo indeterminato siano state, nei pochi casi in cui abbiano vinto, riassorbite subito dalla governance del capitale e che soprattutto stiano all’estremo opposto della attuale tendenza alla inoccupazione intermittente. E’ il superamento della richiesta dell’intervento pubblico e statale (le varie proposte di nazionalizzazioni) laddove lo Stato si configura immediatamente come strumento di governance del capitale multinazionale. La posta in palio è la crescita di soggettività che sappiano rispondere, nel conflitto e nell’autonomia, cosa, come e per chi produrre. La consapevolezza della distanza tra la realtà soggettiva delle lotte e gli obiettivi non può essere colmata con la “la fuga” dei militanti antagonisti da questi ambiti, quanto dalla conquista di un’internità nei vari contesti sociali in via d’impoverimento di una impostazione delle lotte sul salario, sul lavoro, come questione immediatamente politica e legata alla riproduzione complessiva.  Non è tanto una critica sterile alle lotte che ci interessa,  piuttosto interpella la qualità dell’intervento politico volta a trasformare la soggettività. Quanto paga ed ha pagato una resistenza sempre mediata dalla delega volta al compromesso al ribasso, ancorata alla logica della produttività (del capitale), incapace di rischiare quel salto politico della socializzazione del conflitto a partire dalla resistenza al modello Marchionne? Tematizzare questo “rischio” politico come connaturato ad ogni lotta  è imprescindibile  nella misura in cui il rischio ha a che fare con la produzione di un modus operandi dell’organizzazione volto alla trasformazione delle soggettività nell’alterità che il conflitto produce, cercando di costruire nuovi rapporti di forza. E’ anche un problema di “formazione” delle lotte, di come vengono impostate ed a cosa mirano. Questo momento storico è quello in cui la “crisi” è soprattutto la possibilità di mettere in discussione il modello sociale valoriale che si è imposto negli ultimi trent’anni, quello del capitale, che sgretola le “normalità” e le abitudini sociali ed apre di nuovo falle in cui può irrompere la questione sociale.  Per questo non è pensabile ottenere neanche delle briciole senza tentare di uscire da quella cornice di riferimento fatta di individualismo, paura e rassegnazione all’esistente. L’alterità è quindi non esercizio ideologico o retorico, ma diventa necessità politica di qualsiasi lotta sul tereno delle “condizioni di vita” che si ponga come obiettivo quello di vincere e di ottenere dei risultati. Certo essi non sono immediatemente misurabili nei termini del “valore-lavoro”, ed è soprattutto quei termini di misurazione che dobbiamo combattere, sostituendoli con nuovi paramentri. Sono quelli della riproduzione e della intensificazione delle lotte, della costruzione di nuovi legami e reti sociali, dello sviluppo di una contro-cooperazione effettivamente capace di “sostenere” il peso del rischio che ogni lotta contiene, e di rispondere concretamente alla domanda di cambiamento e di autonomia che ha ogni “resistenza”. Sono quelli che “inventano” dalle lotte una nuova concezione del valore, sganciata dal sistema del profitto, costruito sulla ricchezza sociale in quanto utilità al servizio dei bisogni.

Se  è “la dignità” il punto di partenza e la caratteristica principale delle lotte contro l’espropriazione di reddito che prendono forma a partire dalla difesa del posto di lavoro, lo sviluppo di una contro-cooperazione autonoma, ricompositiva di altre figure sociali altrettanto precarizzate, è l’impostazione di una nuova vertenzialità autonoma. Essa si costituisce nell’impossibilità di ottenere le briciole senza “impostare” la battaglia particolare secondo la visione generale, portando ogni conflitto sul terreno immediatamente politico e sociale dell’organizzazione.

 

Sull’altro versante, alla compiuta emersione e diffusione di una composizione di classe precaria, abituata all’intermittenza del lavoro, sfruttata e sussunta nella’intero agire umano, non è corrisposta automaticamente alcuna forma di composizione politica di questa nuova cooperazione sociale. Ne individuiamo principalmente alcuni aspetti: l’identità precaria non tiene di conto della differenza tra composizione tecnica e politica. La prima corrisponde al processo dinamico di composizione da parte del capitale finanziarizzato nei termini di una rinnovata socializzazione della produzione che eccede strutturalmente “il lavoro salariato” e mette a valore relazioni, affettività, capacità pscichiche e cognitive, etc… misurandole nel processo di finanziarizzazione. Questa composizione è  sempre divisa e segmentata su livelli differenti che spezzano e contrappongono le differenti specificità di classe l’una contro l’altra. La libertà e l’autonomia della cooperazione sociale è un obiettivo da raggiungere, non un dato di partenza, e l’organizzazione delle lotte non può essere risolta nei termini dell’autorappresentazione. La lettura della tendenza della composizione è stata utilizzata come pratica autoconsolatoria rispetto ai problemi ed alle mancanze, principalmente di organizzazione e di progetto, delle soggettivittà di movimento. Se la precarietà è ricomposta dal capitale, lo è solo in funzione del comando e della valorizzazione di capitale che essa produce. Certo, esiste una ambivalenza profonda, che è quella per cui oggi l’individuo sociale ha una potenza di cooperazione (ri)produttiva tale da porre la questione del contro-potere e delle istanze costituenti all’altezza di una liberazione non solo dal “lavoro” ma dall’intero agire umano vivente. Ma questa è dal nostro punto di vista una faccia della medaglia appunto in potenza, ben nascosta ed oppressa da quella del dominio, nient’affatto liberata. Istituire delle rivendicazioni potenzialmente generalizzabili, come quella del reddito garantito, avulse dal grado di soggettivazione (e soprattutto di assoggettamento) senza porsi inanzitutto la questione di come connettere progetto e composizione, si è tradotto troppe volte in “richiesta” di reddito, nella sua invocazione verso uno Stato e delle istituzioni che non hanno nessuna intenzione di concedere alcunchè, semmai la dirrezione dei processi in atto è quella dell’esproriazione e dell’impoverimento. Questa traduzione politica ha costruito categorie che hanno scambiato la ricomposizione di classe o con “identità” precostituite, esterne dalla produzione ambivalente di soggettività; oppure nella costituzione para-elettorale di fronti e cartelli che hanno cercato di mettere assieme, su un piano rivendicativo, diverse rappresentanze (espressione di ceto politico e sindacale – quand’anche di movimento – piuttosto che reale radicamento) di differenti figure sociali.  Nel primo caso le pratiche politiche oggi difficilmente vanno oltre la testimonianza, anche radicale, di una volontà rappresentata dai soggetti politici predefiniti. Nel secondo la ri-legittimazione della politica istituzionale, della democrazia rappresentativa come qualcosa da “difendere”, dei corpi intermedi di mediazione sociale come interlocutori privilegiati, hanno portato al rifiuto di qualsiasi ipotesi conflittuale e quindi di reale trasformazione sociale.

Ma a queste criticità pensiamo sia necessario rispondere evitando di portare delle formuline che già contengano la soluzione di tutti i problemi. Piuttosto ci interessa, a partire dalle esperienze e da un bilancio messo in prospettiva con gli obiettivi radicali che abbiamo, contrappore un metodo in continuo divenire, quello della con-ricerca militante. Non concepiamo tanto la con-ricerca come una tecnica, quasi fosse un diversivo radical dell’inchiesta. Piuttosto – se l’inchiesta è tecnica di rilevamento di saperi utili alla produzone di capitale – ne rappresenta la faccia antagonista, ovvero svolta da soggetti che hanno l’obiettivo di connettere la produzione di sapere all’organizzazione del conflitto. Parlare di conricerca significa parlare di lotte, dei militanti che contribuiscono al loro sviluppo ed intensificazione. Significa soprattutto parlare di soggettività, concependo essa non come caratteristica neutro dei rapporti capitalistici, quanto come espressioni di specifici comportamenti di   differenti composizioni che di per sé sono nient’affatto autonomi ma che contengono, se sviluppati adeguatamente, la possibilità di essere agiti per un’altra direzione rispetto all’uso che ne fa il capitale. La conricerca non è qualcosa di leggero, e se è vero che qualsiasi lotta o conflitto ne indica una presenza, quello che interessa a noi è il radicarsi ed il territorializzarsi di questo “sguardo militante” all’interno della materialità delle contraddizioni sociali. Se la tendenza della sovrapposizione tra vita e lavoro è corretta, essa esprime differenti caratteristiche a seconda del contesto sociale e del segmento cui applicata. Una tendenza appunto non risolve né muta la realtà. Leggere questa tendenza, significa acquisire gli strumenti conoscitivi necessari ad individuarne gli assi portanti ed a rilevarne le variabili, le ciclicità e le permanenze (per quanto riguarda caratteristiche della composizione di classe, qualità dell’azione capitalista, specificità dei contesti); soprattutto indica l’intervenire e il tradurre concretamente questa tendenza. Ciò significa affrontare il nodo della prassi e della teoria, non come aspetti consequenziali, né staccati l’uno dall’altro. La conricerca afferma l’importanza prioritaria di radicare il progetto ed il cambiamento al di fuori di ogni concezione idealistica ed autonoma (politicamente) dalla processualità dinamica insita in ogni organizzazione concreta dei soggetti sociali. La conricerca è dunque rintracciare all’interno delle specificità dei contesti sociali le tracce della potenza di costruzione di segmenti forti della composizione. Significa organizzare una negatività che si esprime in differenti livelli della classe iperproletaria con differenti caratteristiche, una negatività che compone il progetto antagonista essenzialmente come spinta destituente, che tende alla distruzione dei rapporti sociali esistenti come fattore decisivo per la produzione di spazi di autonomia. Senza la capacità di mobilitazione e di protagonismo massificato di questo “nichilismo” non esiste nessuna forza sociale e politica capace di imporre un change che non sia la riproposizione dei meccanismi di sfruttamento mascherati di nuove vesti. La con-ricerca di segmenti forti all’interno dell’“agire umano vivente” deve perciò territorializzarsi ed organizzare le proprie priorità, mirando a sedimentare “altra” soggettività. Nell’attuale prodursi della separazione tra consenso e potere, ogni lotta e conflitto può svilupparsi su questo terreno, per cui la conricerca è assumere una direzione cui si vuol tendere come processo collettivo ed individuare le forme dell’organizzazione e gli strumenti della conoscenza necessari per conseguirli. Riempire la domanda di riscatto sociale costruendo collettivamente le forme di organizzazione. Non c’è nessuna esternità possibile dei militanti dai conflitti e dalle lotte, laddove conricerca è l’attivazione di un circolo virtuoso per cui i militanti costruiscono le lotte e le lotte costruiscono nuova militanza. La necessità di organizzare movimenti contro l’austerità che agiscano immediatamente su una dimensione costituente significa superare l’autorappresentazione del “precario in lotta” e criticare l’insufficienza dell’esperienza autorganizzata in quanto soggetti politici che già esistono. Conricerca come stile di militanza è quindi scegliere e scommettere nei contesti sociali in cui costruire un’internità militante sulla base dell’esplorazione dell’eventuale formarsi e riprodursi nell’informalità di autonomia, di scelta e di resistenza su cui fondare progetti di alterità. Il riferimento al movimento No Tav è d’obbligo, non solo per i risultati che ha ottenuto ed ottiene, quanto per lo sviluppo di un processo di crecita contro-formativa ed organizzativa, basato sulla costruzione di un’internità militante del progetto di alterità: da un NO, la messa in discussione dei rapporti sociali esistenti e la costituzione di tendenziale autonomia della riproduzione sociale. Riprodurre quel metodo politico nelle metropoli, nelle periferie, nel modo della formazione è l’obiettivo della conricerca.

La mancanza di un “occupy” italiano, come catalizzatore di processi di opposizione e di riterritorializzazione di spinte costituenti oltre lo Stato e la democrazia rappresentativa – ci porta a ragionare sulle esperienze di riappropriazione che si stanno diffondendo negli ultimi anni. Dai centri sociali, alle case occupate, passando per progetti di sport autogestito fino ai più recenti teatri occupati: sono numerose le occupazioni presenti nel nostro paese. Eppure non è il dato quantitativo né la partecipazione ad essere la discriminante che differenzia il “movimento” nel nostro paese dall’occupy nordamericano o dal 15 M spagnolo. E’ la capacità di costruire processi di riappropriazione sociale che siano effettivamente ricompositivi di differenti figure sociali. Questa capacità pensiamo abbia molto a che fare non con la “forma” del movimento, ma con la forza che i movimenti si sono costruiti nell’imporre un NO comune all’impoverimento. Un No generalizzabile perchè è riuscito ad interpretare la domanda di riscatto sociale, data dall’intensificarsi dell’espropriazione di reddito, status e possibilità.   Un NO radicato nell’agire umano vivente, capace di mettere in discussione la mercificazione integrale della vita al capitale, facendone campo di battaglia da cui far partite processi costituenti: nessuna istituzionalità autonoma può darsi senza la forza necessaria e le energie sociali utili alla sua realizzazione. Pensiamo che nello spazio mediterraneo, l’ipotesi di generalizzazione di un movimento di riappropriazione sia molto più vicino alle caratteristiche destituenti del processo rivoluzionario tunisino che alla “rivendicazione” del welfare nordeuropeo. Per due motivi: che la rivendicazione di welfare e di reddito presuppone e si appella a un entità statuale che è evidentemente impegnata in una violenta espropriazione; e che laddove si ha un’interlocuzione istituzionale per un neokeinesismo, esso si traduce nell’allentare i cordoni della borsa per investimenti dove il capitale continua a riprodursi: nelle grandi opere e nella privatizzazione dei servizi. E che soprattutto non è quello – il welfare – l’orizzonte strategico entro cui si possono dare degli effettivi percorsi di liberazione (non occorre essere storici per analizzare “lo stato sociale” come grande compromesso storico tra le conquiste operaie e la necessità capitalistica di disciplinarne l’autonomia sotto lo stato-nazione), bensì il processo di autonomizzazione della ri-produzione sociale dai ricatti del capitale.

Ogni percorso di riappropriazione quindi lo intendiamo non come feticcio rivendicativo né come identità legata alla pratica dei soggetti politici, quanto come vocazione al contropotere capace di radicarsi e territorializzarsi nel momento in cui forma nuove dimensioni sociali di militanza, frutto dell’opposizione alla svalorizzazione ed all’impoverimento delle differenti capacità dei soggetti sociali. Diventa quindi fondamentale per le esperienze di riappropriazione non accontentarsi delle briciole, pensando ad un modo di organizzare le lotte che rifiuti la mediazione al ribasso sapendo progettare una radicalità collettiva. Pratiche di rappropriazione che lavorino per l’intensificarsi e l’avvitarsi della crisi del capitale, che sappiano quindi costruire le risposte adeguate nei termini della separazione delle forme di vita dai ricatti del capitale. Non si tratta quindi tanto di invocare un temerario “diritto al default”, né di concepire il contropotere come la somma di tante occupazioni più o meno “militanti” che si sostituiscano alle istituzioni statuali. Piuttosto la sfida che vogliamo correre è quella di estendere ed intensificare capacità collettive per una nuova, altra e differente valorizzazione dei territori e dell’organizzazione sociale. Una differente “strategia della crescita” da conquistare nell’opposizione all’impoverimento dei saperi, delle tecniche, delle capacità, e nel dispiegarsi collettivo di queste utilità, per un progetto immediatamente trasformativo dei rapporti sociali.   

 

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