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La Comune di Gezi: genealogia, potenza, sfide

Otonom ci aiuta così a demolire una parte sostanziosa dell’apparato di “credenze” che spesso dominano il campo discorsivo quando si tratta di comprendere “questioni arabe”, islamismo, islam.

La genealogia che propone Otonom fa affiorare l’attuale alterità rivoluzionaria della Comune di Gezi… seguirla può essere l’esercizio giusto per guardare e prendere parte al mediterraneo delle lotte dei prossimi giorni.

 

Intervista a Collettivo OTONOM (Istanbul) – di COMMONWARE

L’innesco della mobilitazione a Istanbul è costituito dalla difesa di un parco, ma il movimento ha immediatamente sollevato questioni generali. Come è allora iniziato? In particolare, ci interessa soffermarci sulla sua genealogia, su precedenti lotte e mobilitazioni, sugli elementi di novità, su forme di resistenza che il movimento di Gezi Park ha ricomposto, ovvero sull’apertura di uno spazio politico completamente nuovo.

Cerchiamo di fornire una risposta complessiva, che può essere articolata in due parti. In primo luogo, dobbiamo affrontare un lavoro genealogico che inevitabilmente trascende i limiti della questione. Ogni considerazione sulla presente composizione delle forze costituenti nel nostro contesto richiede infatti una valutazione storico-politica delle forze costituenti del passato. Questa sorta di analisi genealogica può essere condotta lungo tre linee principali: l’eredità ottomana e la fondazione della Repubblica turca, il governo del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) dal 2002, infine la reintroduzione del divieto di accedere a Piazza Taksim nella Mayday del 2013. In secondo luogo, nel contesto della genealogia delle forze costituenti, possiamo meglio procedere a considerare se il movimento sia stato uno spazio di ricomposizione di altre forme di resistenza, oppure se è innanzitutto uno spazio di azione politica completamente nuovo.

Secondo noi, l’ultima fase dell’Impero ottomano e la prima guerra mondiale hanno un’importanza centrale nella comprensione dei recenti sviluppi nella Turchia contemporanea e nei paesi musulmani del Nord Africa e del Medio Oriente. Il fatto è che i recenti sviluppi cui abbiamo assistito, specialmente in Nord Africa e nel Medio Oriente, mostrano un particolare ritorno e uno specifico dispiegarsi dei problemi repressi risalenti alla prima guerra mondiale. L’ultima fase della storia ottomana è stata modellata dagli slanci e dalle tensioni inerenti al processo di modernizzazione e allo sviluppo della forma Stato-nazione. Per essere chiari, vogliamo sottolineare che la Turchia è il solo paese musulmano che ha fatto esperienza del processo di modernizzazione, della costruzione dello Stato-nazione e della secolarizzazione in modo semi-immanente.

Questo periodo è segnato dall’inizio della seconda era costituzionale nel 1908. Nel contesto degli sviluppi interni ed esterni, la seconda era costituzionale coincide con la perdita del potere imperiale degli ottomani, pregno dei successivi processi costitutivi. In questa era turbolenta si confrontano due parti: i sostenitori del sultano Abdulhamit e il movimento Unione e Progresso. Entrambe possono essere considerate forze costituenti nelle loro richieste di superamento della crisi dell’Impero. Il sultano Abdulhamit aveva già rinunciato a insistere sui confini imperiali e puntava a restaurare il dominio ottomano all’interno dei confini islamizzati. A questo scopo, ha proceduto all’islamizzazione dell’Anatolia e del Medio Oriente. Le forze che lo sostenevano erano i turchi, gli arabi e i curdi che avevano aderito a una linea islamica. Questo è anche il motivo per cui la storia della cancellazione in Anatolia dai non musulmani, in particolare dagli armeni, comincia con l’epoca di Abdulhamit. In questa congiuntura, le elite dominanti curde rigorosamente fedeli all’Islam costituivano una forza politica e militare maggioritaria nelle aggressioni contro gli armeni. In altre parole, le elite dominanti curde erano alleate alle elite dominanti ottomane, erano una sorta di azionista delle posizioni di rendita dell’Islam e dell’Impero.

Unione e Progresso, allineandosi con la linea imperiale della politica basata sulla modernità, è stato l’attore centrale della Rivoluzione del 1908. Su questo territorio, il 1908 ha rappresentato la prima rivoluzione nel senso moderno. É stata una rivoluzione borghese, che comprendeva quasi tutti i settori all’interno dell’Impero, lasciando a ognuno la possibilità di dire la sua. Nei cartelli portati alle manifestazioni rivoluzionarie c’era scritto “viva la libertà” in molte lingue, dall’armeno al turco ottomano, dal greco all’arabo. Perciò il 1908 non è stato caratterizzato da uno spirito religioso, ma è stato piuttosto un grido di libertà contro la dittatura di Abdulhamit. In questo senso, si può forse dire che il 1908 è stato la controparte del 1789 su questo territorio, con l’importante differenza che si è basato sull’ottomanismo invece che su un tipo qualsiasi di nazionalismo.

Riguardo agli elementi costituenti, la Rivoluzione del 1908 è stata portata avanti da forze moderne come l’intellighenzia, la gioventù e l’esercito, che devono essere viste come un’estensione della tradizione del “devşirme”[1] nell’Impero. In questo periodo non assistiamo né a un forte movimento di classe contro lo sviluppo del capitalismo, né a una rivolta contadina contro il feudalesimo. La società, perlopiù costituita da una base di massa religiosa, era priva di una coscienza nazionale. In contrasto alla società in generale, l’intellighenzia, la gioventù e l’esercito – che condividevano una tradizione moderna – insieme sono serviti come rappresentanti politici della borghesia. Questa divisione tra forze tradizionali e moderne corrisponde alla divisione politica tra il sultano Abdulhamit e i quadri di Unione e Progresso: ciò rappresenta ancora una grande scissione nella società e nella politica turche, sebbene si sia manifestata in varie forme secondo le differenti fasi dello sviluppo capitalistico in Turchia. L’ottomanismo, favorito sia da Abdulhamit sia dai quadri di Unione e Progresso, seppure in modi diversi, è collassato con le sconfitte nelle guerre balcaniche. La sua fine ultima, comunque, è avvenuta con la sconfitta nella prima guerra mondiale. A quel punto c’è stato un bisogno urgente di un nuovo discorso costitutivo, che accompagnasse la transizione paradigmatica dallo Stato imperiale allo Stato nazionale.

Il problema, però, era che il paradigma dello Stato-nazione era senza alcuna fondazione nei territori ottomani, specialmente oggi nei paesi musulmani, forse con l’eccezione dei Balcani. La sovranità era infatti concepita in termini di unità islamica rappresentata dal califfato; pensare in termini di Stato-nazione era qualcosa di ancora difficile da immaginare. Come dice il proverbio, i confini nazionali dei paesi arabi erano disegnati solo dai governanti. In altre parole, i movimenti nazionali nel Nord Africa, nel Medio Oriente e in Turchia non erano costruiti sul consenso sociale e non manifestavano alcuno spirito democratico. Il paradigma dello Stato-nazione era imposto in tutti questi territori dall’alto, come parte dell’ingegneria sociale sotto il controllo dei poteri sovrani imperiali e locali. Questi territori non sono mai stato capaci di digerire la forma nazionale della sovranità: è un fatto che ancora serve come chiave per comprendere i movimenti emergenti in Turchia e nei paesi islamici. Spiega anche perché il dominio in tutti i paesi musulmani, inclusa la Turchia, dipenda dall’esercito. In questi territori, infatti, l’esercito costituisce ancora il potere politico supremo.

La Repubblica turca è nata nel 1923 all’interno delle tensioni inerenti all’ascesa della nuova struttura di potere. La fondazione della Repubblica turca non è stata il risultato di una lotta anti-imperialista, come i kemalisti spesso affermano, bensì l’estensione della prima guerra mondiale nel nostro territorio. Lo Stato-nazione della Prima Repubblica è stato fondato nel 1923 in alleanza con i poteri imperialisti – che così si garantivano che la Turchia fosse parte del campo capitalista internazionale – e in antagonismo alle tre maggiori minacce: il potere politico dell’Islam basato sul califfato, l’esistenza del popolo curdo, la Rivoluzione d’Ottobre e il movimento comunista. La Prima Repubblica ha sussunto tutte le forze militari e politiche in un unico partito politico e nell’esercito regolare, per disciplinare e, se necessario, demolire tutti i poteri costituenti democratici. Quasi tutti i quadri fondatori del 1923 hanno origini militari. L’ascesa della modernità e la fondazione dello Stato-nazione in Turchia sono evidenti casi di reazione politica totalmente dipendenti dalla forza dell’esercito e dalla coercizione.

Con l’abolizione del califfato nel 1924 da parte della Prima Repubblica, l’unità dei paesi musulmani è stata dissolta. I paesi arabi non erano più sotto il comando di un’unità politica. L’ascesa del movimento della Fratellanza Musulmana è stata una risposta a questa dissoluzione politica. In altri termini, è il 1923 che ha dato avvio alla Fratellanza Musulmana per come la conosciamo oggi. Le elite curde, l’altra grande forza, ha perso tutto il potere politico radicato nel regime di Hamidi. Con il trattato di Losanna, i curdi sono stati divisi dentro i confini di quattro paesi. Il movimento comunista, criminalizzato come la terza minaccia interna, è stato violentemente represso. La tragedia del movimento comunista nel nostro paese sta nel fatto crudele che i primi comunisti nella nostra storia sono stati tutti uccisi con i fucili forniti dai bolscevichi. In conformità con la definizione di minacce interne, l’ideologia ufficiale dello Stato nazionale del 1923 consisteva nell’obiettivo della turchizzazione e islamizzazione dell’Anatolia sotto il controllo dello Stato, sfociata nella distruzione e deportazione delle popolazioni non musulmane e nella sanguinosa repressione del popolo curdo, che sarebbe stato soggetto alla violenta assimilazione per i lunghi anni a venire.

Seguendo il filo da voi proposto, passiamo all’ascesa al potere dell’AKP nel 2002…

L’ascesa al potere dell’AKP nel 2002 è direttamente collegata al cambiamento nella forma capitalista della sovranità dallo Stato-nazione all’Impero. La risonanza della dissoluzione dello Stato-nazione innescata dall’Impero nei paesi musulmani ha scosso il precedente bilanciamento delle forze, portando alla formazione di nuovi rapporti di potere. Tutti i problemi nascosti fin dalla prima guerra mondiale sono stati rivelati dalla seconda guerra del golfo nel 2003. Il complesso degli Stati-nazione radicati nella gerarchia dell’era imperialista sono stati forzati a sottomettersi alla sussunzione biopolitica nell’Impero. Dal nostro punto di vista, questo processo è governato attraverso la terza guerra mondiale: si tratta di una guerra condotta dall’Impero contro tutti gli Stati-nazione, e quelli dei paesi musulmani sono il principale bersaglio. Gli sviluppi osservati in Turchia, in Medio Oriente e in Nord Africa puntano alla liquidazione dei poteri sovrani operanti nella gerarchia dell’era imperialista e all’istituzione di Stati imprenditoriali e nuovi rapporti di potere in conformità al sistema a rete imperiale. É in questo contesto che l’AKP è stato portato al potere come forza costituente della terza guerra mondiale nella regione. La sussunzione reale è stata rimpiazzata dalla sussunzione biopolitica. Come questa sostituzione stia avendo luogo e stia dando forma ai paesi mediorientali e nordafricani sarebbe oggetto di un saggio. Comunque, il punto che dobbiamo ancora sottolineare qui è che la costituzione dell’Impero è stata considerata finora dal punto di vista occidentale, mentre un approccio dello stesso processo nella prospettiva del Medio Oriente e del Nord Africa è tuttora carente.

Nel nostro caso, l’AKP ha assunto il ruolo di istituire un collegamento organico con l’Impero, cioè con la macchina capitalista della sovranità che opera attraverso la sussunzione biopolitica. Questo processo corrisponde allo stesso tempo con la protestantizzazione dell’islam per come è rappresentata dall’AKP. Questo è niente di meno che la riconciliazione dell’islam con il denaro e il capitalismo, così da trasformare tutti gli agenti sociali nel potere biopolitico dell’Impero. Perciò i recenti sviluppi cui abbiamo assistito nei paesi islamici consentono di risalire all’ascesa al potere dell’AKP. Il punto seguente può essere utile per la chiarificazione: l’AKP si muove come il cavallo di Troia della protestantizzazione dell’islam nei paesi musulmani. Può essere visto come un potere globale che promuove l’integrazione dei paesi musulmani nella sussunzione biopolitica da parte del capitale. Il discorso neo-ottomanista adottato dall’AKP è una chiara indicazione di questa missione.

Quando l’AKP è andato al potere nel 2002, la sua strategia principale è stata la dissoluzione del potere politico dell­’esercito per rivendicare il potere statale. Nel suo tentativo di dissolvere i poteri sovrani dello Stato-nazione, in particolare quello dell’esercito, l’AKP si è appoggiato all’Unione Europea. Era chiaro che la fondazione della Seconda Repubblica sarebbe stata impossibile senza la dissoluzione dei rapporti di potere della Prima Repubblica. Nella prima fase del governo dell’AKP questo processo è stato per la maggior parte completato, consentendo all’AKP di diventare non solo il governo ma l’unico potere statale. Durante questo processo di trasformazione, il discorso di opposizione adottato dalle forze della Prima Repubblica è stato quello della laicità contro la sharia. Il contro-discorso sviluppato dall’AKP era centrato sulla democrazia contro l’esercito. Con l’abolizione della custodia politica dell’esercito come forza costituente e di protezione della Prima Repubblica, tutti i poteri politici con un lungo passato nella storia politica turca hanno cominciato a fare la loro comparsa, tra questi il movimento politico curdo è indiscutibilmente il più significativo.

Il movimento politico curdo contemporaneo, cominciato con il PKK nel 1979 e passato attraverso varie fasi, non dipende né dall’islam né dalla modernità, nel particolare senso di adesione all’autodeterminazione nazionale. Il PKK è essenzialmente un movimento di sinistra che ha le sue origini nella storia rivoluzionaria di questo territorio. Tuttavia, ha una natura molto particolare in cui si può trovare un ampio spettro di tendenze, dall’anarchismo al nazionalismo. É anche possibile riscontrare una grande influenza di Negri nei quaderni dal carcere di Öcalan. In breve, il movimento politico curdo si caratterizza come il movimento nazionale dei popoli indigeni del mondo, sebbene non si discuta di Stato-nazione.

É chiaro che l’AKP non sarebbe stato in grado di mantenersi come un potere globale dell’Impero nel Medio Oriente senza integrare il movimento politico curdo nella Seconda Repubblica. Consapevole di ciò, l’AKP ha cominciato il processo di negoziazione con il movimento curdo. Al momento, l’AKP è apparentemente un partito-stato e uno Stato di polizia.

E ora arriviamo al divieto di Piazza Taksim…

A questo punto abbiamo bisogno di fare una breve storia della sinistra in Turchia. Non sarebbe sbagliato sostenere che nel nostro territorio manca una tradizione di formazione di un background politico attraverso le resistenze, la sola importante eccezione è costituita appunto dal movimento politico curdo. É un chiaro esempio di risultati politici ottenuti dalla resistenza. Le realizzazioni da parte dei movimenti di sinistra, invece, non si sono quasi mai generalizzati all’intera società.

La sinistra ha iniziato la propria storia con la Prima Repubblica, ha le sue radici nell’anti-imperialismo e nella lotta per l’indipendenza politica. Questa tendenza è ancora viva all’interno della maggior parte della sinistra. Il secondo discorso efficace nell’auto-costituzione della sinistra è l’antifascismo, che ha raggiunto il suo apice nel periodo tra gli anni Settanta e il colpo di stato militare del 12 settembre 1980. La sinistra non è mai stata in grado di sviluppare un discorso costituente diverso dall’anti-imperialismo e dall’antifascismo. Le variazioni all’interno della sinistra, specialmente nel decennio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, si sono limitate alle differenze nella forma della lotta apparsa con il movimento del Sessantotto. La lotta armata, intensificatasi in quegli anni, e la concomitante nascita di nuove forme di organizzazione hanno cambiato la struttura della sinistra. Il colpo di stato del 1980 ha inferto il colpo maggiore alla sinistra, si può dire che non si sia ancora ripresa. La ragione di ciò non è però solo l’incommensurabile violenza statale, ma anche l’intrappolamento della sinistra dentro il paradigma di quasi un secolo fa. Con i suoi slogan paradigmatici dell’anti-imperialismo e dell’antifascismo, la sinistra non ha una cultura politica anticapitalista. É evidente nel suo attuale atteggiamento anti-imperialista contro l’AKP, che inevitabilmente la conduce in una posizione di difesa della Prima Repubblica. La sinistra si esprime ancora in termini di indipendenza nazionale, laicismo contro sharia, modernità. É incapace di sviluppare una comprensione del capitalismo nell’Impero, a causa della sua adesione al paradigma dell’era fordista. La sinistra si è evoluta nella stessa classica forma di lotta fino alla Mayday del 2013. Taksim è stata chiusa alle manifestazioni del primo maggio fin dal massacro della Mayday del 1977. Nel 2010 e nel 2011 si è potuto celebrare la Mayday a Taksim come risultato di tre anni di lotte nelle strade. Tuttavia il divieto è stato nuovamente imposto per la Mayday del 2013. Nei giorni seguenti non solo Taksim ma anche İstiklal Street (la principale strada che conduce alla piazza) erano completamente chiuse per tutte le manifestazioni. Da parte della sinistra c’è stata una veloce crescita di indignazione contro l’AKP, per quanto il motivo che l’ha mobilitata nella resistenza di Gezi all’inizio derivasse ancora dal suo tradizionale paradigma. Comunque questo movimento irrappresentabile, senza soggetto e con l’auto-creazione dei corpi nelle strade, ha portato la sinistra ai limiti del suo paradigma tradizionale, introducendola all’anticapitalismo. Vista dal punto di vista della formazione di una cultura di lotta anticapitalista, certamente il processo in corso può essere considerato una pietra miliare.

Nel contesto della Seconda Repubblica, con uno sfondo di rapporti di potere profondamente radicati, la resistenza di Gezi ha mobilitato non solo gli attori storici come la sinistra tradizionale o il movimento curdo, ma anche tutte le forze costituenti ancora in formazione. La varietà di soggetti va dai curdi che spingono per una democratizzazione e una nuova costituzione alla organizzazioni politiche che rappresentano il nazionalismo della Prima Repubblica, dalla sinistra rivoluzionaria storica degradata e continuamente perseguitata dallo Stato fino ai musulmani anticapitalisti, dai lavoratori immateriali agli individui lgbt in lotta per la dignità dei propri corpi, dai gruppi ultrà alle organizzazioni ambientaliste e per una pianificazione urbana, e così via fino a tanti eroi anonimi che, tutti insieme, creano un nuovo comune che si materializza nel corpo sociale della resistenza stessa. É la virtualità di un nuovo piano politico. Questo comune può essere meglio caratterizzato come una consapevolezza condivisa del fatto che il piano politico tradizionale non è sufficiente e non risponde più ai problemi, accompagnata da una ricerca di un nuovo piano politico. Questa ricerca è direttamente riflessa nella problematizzazione di una nozione di politica basata su interessi, rappresentanza e alleanze. In altre parole, è una ricerca di singolarità e differenze per una democrazia basata sulla moltitudine e sull’espressione.

Siamo quindi in una situazione così importante che è inevitabile per tutti i soggetti rivedere se stessi e ricostituirsi. A nostro modo di vedere, il carattere globale della resistenza di Gezi risiede in questo. Ciò che la rende parte del ciclo globale di lotte non è la somiglianza dei problemi che porta avanti qui e in altre parti del mondo, quanto invece la sua ricerca di un nuovo piano politico su cui ogni tipo di problema può essere espresso. Comunque, la natura di questo nuovo piano politico non è ancora chiara, è tuttora un nodo di pensiero e dibattito. Nella nostra elaborazione, si tratta della ricerca di una costituzione politica di espressione contro la rappresentanza. Mentre il capitale e i poteri sovrani non sanno ancora come cooptare l’espressione in quanto opposizione politica, la sinistra e altre organizzazioni di opposizione basate sulla rappresentanza non sanno come istituzionalizzare l’espressione per trasformarla in potere politico. Nessuno si aspettava una rivolta così forte, ma è accaduta. La resistenza di Gezi, cominciata come un movimento contro l’assalto capitalistico alla città, si è trasformata in una rivolta generalizzata contro la sussunzione biopolitica da parte del capitale. Per la prima volta dopo molti anni, l’azione politica in questo territorio ha avuto il senso della sua globalità. La resistenza di Gezi ha separato il concetto di democrazia dalla modernità.

Qual è la composizione del movimento in rapporto alla composizione di classe?

Nella resistenza di Gezi, per la prima volta, le forme fordiste e postfordiste del lavoro si sono riunite intorno agli stessi problemi, come soggetti uguali nella lotta. Perciò crediamo che la comprensione di Gezi sia possibile solo attraverso una concezione della sussunzione biopolitica sotto il capitale. Sebbene le forme fordiste del lavoro, e specialmente i sindacati come loro rappresentanti, non abbiano da tempo alcun potere sociale, mantengono ancora il loro tradizionale peso all’interno della sinistra. Non sono più efficaci nel rivelare le altre forme di opposizione; in questo senso, sono in una profonda crisi. Considerano ancora le forme del lavoro peculiari della sussunzione biopolitica del capitale in termini di piccola borghesia o di ceto medio. Sono ciechi di fronte alla classificazione[2] del lavoro nelle relazioni attraverso cui il capitale è in grado di rendere la vita stessa una merce e un oggetto di rendita. In quanto sfida reale ai quadri interpretativi esistenti, la resistenza di Gezi ha reso politicamente visibile le molteplici forme di lavoro classificate attraverso la sussunzione biopolitica. In contrasto alla precedenti forme di lavoro nell’era fordista, quando il tempo era misurato attraverso la sua spazializzazione, queste nuove forme di lavoro sono coinvolte nella mercificazione di tempo che non può essere misurato attraverso la sua spazializzazione. Queste forme di lavoro hanno finora un’invisibile prevalenza tra le forze costituenti della resistenza di Gezi. Comunque, la prevalenza delle forme postfordiste del lavoro nella composizione della resistenza non deve essere considerata all’interno dei limiti di un particolare sfondo economico o di una domanda economica. Al di sopra e oltre tutto, ha riguardato l’immisurabile prevalenza politica dell’opposizione contro la degradazione della vita attraverso la mercificazione e la sua trasformazione in rendita. In altri termini, la resistenza di Gezi ha rivelato come la dignità del corpo e degli affetti costituisca il più efficace potere anti-capitalistico contro la sussunzione biopolitica. Dal nostro punto di vista, questa è la caratteristica più importante della nostra resistenza, che la rende un movimento di espressione invece che di interessi e domande. La lotta ha abbandonato il terreno della dialettica della competizione tra interessi e rappresentanze. Ha trasgredito le barriere poste dagli interessi e dalle rappresentanze, nella forma di espressione di singolarità e di ricerca del comune. Il dominio dello Stato e della moneta è stato il primo a essere messo in discussione. La scintilla per la crescente resistenza è stata la rivolta contro il piano statale di mercificazione e messa in rendita di Gezi Park, che è forse l’ultimo spazio comune nella città, autonomo dallo Stato e dal capitale. Le persone sono andate in strade per proteggere la dignità del comune. Si è trattato del rifiuto della rappresentanza dello Stato e del capitale, che separa il corpo da quello che può fare, le singolarità dalla loro espressione, e il lavoro sociale dal comune. É stato minato il potere dello Stato e della moneta di misurare e rappresentare i corpi e gli affetti attraverso la loro individualizzazione e il comune attraverso la sua mercificazione. La resistenza determinata conto la crudele violenza della polizia, lungi dall’avviare un circolo vizioso di violenza, è stata la chiara espressione del potere della lotta. Andare in strada ha significato soprattutto il rifiuto dell’impotenza operante attraverso l’individualizzazione e un desiderio di comune. Dal nostro punto di vista, l’orizzontalità della rivolta contro la sussunzione biopolitica che degrada il corpo separandolo da quello che può fare ed esprimere è intimamente collegato con il  livello che il general intellect della moltitudine ha raggiunto nella produzione postfordista.

Questo accresciuto potere politico della moltitudine, manifestatosi nella transizione dalla rappresentanza all’espressione, ha anche creato le possibilità per una ricomposizione politica. I corpi estranei e ostili che si uniscono, cosa inimmaginabile nella continua frammentazione del corpo sociale da parte dello Stato e del capitale, diventano nel corpo della resistenza fratelli e sorelle. I musulmani anticapitalisti erano in strada, si sono rivoltati contro il monopolio della rappresentanza che l’AKP ha stabilito sull’islam. Contro la protestantizzazione e la commercializzazione dell’islam, hanno espresso il modo in cui l’islam può essere vissuto come un’etica di vita comune e di resistenza. Nel contesto dei dibattiti sull’assegnazione del nome del terzo ponte sul Bosforo al sultano Yavuz Selim, responsabile dell’assassinio di massa del popolo alevita, anche gli aleviti sono usciti di casa e questa volta non sono stati lasciati soli nella loro lotta di secoli per la dignità. In risposta alle opposizioni come laicismo contro conservatori, sunniti contro aleviti, opposizioni usate dallo Stato per frammentare il comune e trasformare fratelli e sorelle di questo territorio in nemici, tutte le singolarità hanno optato per fraternizzare la resistenza. Specialmente dopo lo sgombero di Gezi Park, ogni volta che i gruppi con i propri programmi si sono riversati nelle strade per le manifestazioni, si sono ben presto riunite folle di persone un tempo opposte, guardinghe o totalmente indifferenti rispetto a queste istanze. In questo spirito, quando i musulmani anticapitalisti hanno convocato il “pasto della terra madre” a Istiklal Street a Taksim nel primo giorno del ramadan contro lo iftars (veloci spuntini) organizzati negli hotel di lusso, migliaia di persone – credenti e non credenti – hanno partecipato e i tavoli preparati in strada per tutto il ramadan in diverse città sono presto diventati spazi di comunizzazione. Gli individui lgbt, vittime di marginalizzazione, tortura e uccisioni, erano impressionanti nella loro insistenza e militanza nel difendere la dignità dei loro corpi contro tutte le rappresentazioni derivanti dagli immaginari sessisti. Il loro slogan “l’amore è organizzarsi”, diventato molto popolare tra la gente, è una delle più splendide traduzioni dello spirito di Gezi. E la gioventù mediatizzata che componeva una larga parte della resistenza ha rifiutato di essere rappresentata da parte dello Stato-padre con l’etichetta dei “figli ingannati”, prendendolo come un insulto contro il suo intelletto generale e ciò che il loro corpo può fare. La serietà dei giovani nella resistenza ha origine nella gioia di affermare il proprio potere. Questo è il motivo per cui hanno prodotto il più incisivo umorismo durante la battaglia militante sulle barricate. E gli ultrà che erano soliti essere rappresentati come storditi dall’oppio del calcio, specialmente ÇARŞI, il gruppo del Beşiktaş, sono diventati una importante forza trainante della resistenza con la loro inesauribile energia. Nella resistenza di Gezi, hanno continuato la lotta per la dignità contro l’aziendalizzazione delle loro squadre e la loro esclusione dagli spalti.

In questa costruzione collettiva di un nuovo immaginario basato su una forma di ricomposizione sociale e politica, una delle maggiori controversie riguarda la coesistenza di bandiere turche e del PKK, poster di Atatürk e Öcalan, a Gezi Park e nelle strade. Tutti quanti, in particolare il movimento politico curdo, erano molto cauti rispetto a questa situazione apparentemente suscettibile di essere manipolata nella lotta di potere tra la Prima e la Seconda Repubblica. Comunque erano anche ben consapevoli di questo fatto: lo spirito del processo di pace non risiedeva nei negoziati tra rappresentanze, ma nella vita creata a Gezi Park e da quella indimenticabile manifestazione partecipata da tutti i manifestanti di Gezi, quando un giovane curdo è stato ucciso nella protesta contro la costruzione di una stazione di polizia a Lice. La manifestazione è stata un chiaro segno che la questione curda può essere risolta solo sul piano politico aperto dalla resistenza di Gezi.

Complessivamente, l’espressione delle singolarità nella resistenza di Gezi ha frantumato tutte le rappresentanze tagliate e configurate per ognuna di loro in loro nome. Con l’abolizione delle barriere stabilite dalle rappresentanze attraverso flussi, intersezioni e combinazioni di singolarità, ora procedono a costruire una nuova vita etico-politica in cui difendono non solo le loro particolari identità e forme di vita, ma la dignità del comune e dell’intera vita. La democrazia che può essere immaginata all’interno del sistema rappresentativo solo come un rapporto formale di reciproco riconoscimento, adesso si trasforma nell’immanenza etico-politica alla vita. Il nostro dignitoso punto di partenza è stato il riconoscimento di tutti i dolori del passato come dolori comuni della vita. L’onore di tutte le vite marginalizzate, devalorizzate e degradate dal Potere e dalle rappresentanze sovrane è stato vendicato. Gezi Park ha avuto un cimitero armeno molti anni fa. Ma adesso ogni albero del parco è un armeno, la tomba è qualcosa di insopportabile per i governanti, oppure un rivoluzionario ucciso a Taksim nella Mayday 1977, un villaggio curdo bombardato a Roboski e i cui assassini non sono ancora stati individuati dallo Stato, oppure un martire che è morto nella nostra resistenza… É solo l’inizio, la nostra lotta continua…

Molti commentatori parlano, in Turchia e in Brasile, di una rivolta del ceto medio. Ma quello cui stiamo assistendo da ormai lungo tempo è il declassamento del ceto medio, la sua proletarizzazione. Il che significa che, almeno in Occidente, il ceto medio perde anche la sua tradizionale funzione politica di mediazione rispetto alla lotta di classe. Qual è l’importanza di questo elemento nel vostro contesto e nel movimento?

Parlare della resistenza di Gezi come di una rivolta del ceto medio significa non comprenderla affatto. Si tratta precisamente di un movimento che combina vari settori della società nella loro rivendicazione di una trasformazione del general intellect. É una pratica che dà vita a una nuova virtualità.

La Turchia è uno di quei paesi in cui i tassi di interesse sono molto alti, il che la rende attraente per grandi volumi di afflusso del capitale globale. C’è un ceto medio molto forte in Turchia, che è stato ulteriormente rafforzato durante il regno dell’AKP. Perciò non possiamo parlare di un impoverimento del ceto medio. Sebbene l’impoverimento si sia intensificato attraverso il debito e i meccanismi finanziari, non è culminato in una crisi economica e nell’instabilità politica.

Non è sbagliato affermare che la Turchia è storicamente un paese di ceto medio, che ha sempre giocato un ruolo significativo negli sviluppi politici. Oggi l’AKP ha il controllo quasi totale del ceto medio. La Turchia non consiste solo di Istanbul, Ankara e Izmir; l’Anatolia ha un differente portato culturale rispetto a queste tre grandi città. A Istanbul si può passare la vita sena fare il digiuno del ramadan, ma in Anatolia non sarebbe così facile. La vita culturale del ceto medio ha un forte orientamento religioso, solitamente incompatibile con la cultura moderna. A questo riguardo, l’AKP è anche la rappresentanza ideologica del ceto medio. L’ideologia kemalista della Prima Repubblica ha fallito nel modernizzare la posizione ideologica del ceto medio, che è perlopiù affermata dal fatto che nella maggior parte degli sviluppi politici nella storia turca la dimensione ideologica della questione ha prevalso sulla dimensione di classe. Durante il regno dell’AKP questa situazione si è ulteriormente esasperata. Inoltre, il ceto medio mantiene la sua distanza dalla sinistra, che in tutta la sua storia non ha costruito legami con il ceto medio.

La caratteristica maggiormente peculiare del ceto medio nel nostro paese, che ha sempre avuto forti legami con l’asse hamidiano menzionato prima, consiste nel fatto che non ha mai raggiunto una rappresentanza stabile nel sistema politico fino al governo dell’AKP. Il sostegno prestato dal ceto medio a vari partiti è sempre stato temporaneo. Nell’AKP il ceto medio ha trovato la sua ultima rappresentanza. Per questa ragione, l’AKP può essere meglio caratterizzato come il blocco storico del ceto medio. Comunque, il blocco storico del capitale o del lavoro all’interno del sistema rappresentativo non è ancora emerso; da parte del capitale, il blocco politico è lo Stato stesso. Perciò in Turchia un sistema rappresentativo basato sulle classi non si è ancora consolidato, il che si è anche manifestato nei problemi affrontati nella formazione di consenso sociale. Inoltre, le masse delle classi lavoratrici seguono ancora la linea politica del ceto medio. Come risultato, la rottura del blocco storico tra il ceto medio e l’AKP sembra possibile solo con l’eruzione di una crisi storica.

Nella sua ascesa al potere, la difesa della democrazia è stato il principale discorso cui ha fatto ricorso l’AKP. In questo modo ha guadagnato l’appoggio di circoli liberali, incluse alcune parti della sinistra. Il Partito Popolare Repubblicano (CHP), il partito kemalista fondatore della Prima Repubblica, ha il 25% dei voti, mentre il Partito del Movimento Nazionalista (rappresentante storico della linea fascista nella politica turca) ha solo il 15% dei voti. Entrambi i partiti mancano della capacità di proporre una linea politica in grado di abbracciare un ampio bacino elettorale. Sono vecchie formazioni politiche senza futuro. Con l’esplosione della resistenza di Gezi, l’AKP sembra aver perso il sostegno che aveva ricevuto da settori al di fuori della sua tradizionale base di massa. Un’importante ragione della perdita di sostegno è che l’AKP ha promosso lo spossessamento economico, politico e culturale di tutti i settori al di fuori della sua base sociale. A questo riguardo, Gezi può essere considerata la resistenza di tutti gli spossessati durante il regno dell’AKP. Pertanto non si può parlare di un ceto medio che ha ritirato il suo sostegno al governo; sembra invece che siano altre forze politiche che hanno ritirato il loro sostegno al ceto medio. Per quanto provocatorio possa suonare, si può dire che la resistenza di Gezi sia anche una rivolta contro il ceto medio in Turchia, e il suo successo dipende dal suo potere di frammentare politicamente il ceto medio. Aspettiamo e vediamo cosa ci porterà il futuro…

Sulla base di quello che avete detto finora, qual è il rapporto tra il movimento e la sinistra, nuova e vecchia? Qual è, più complessivamente, il rapporto con il sistema della rappresentanza?

La sinistra è stata duramente colpita dal collasso dell’Unione Sovietica e dal colpo di stato militare del 1980. Comunque, come detto prima, lo stallo della sinistra è legato soprattutto alla sua incapacità di comprendere la fase presente del capitalismo, così come i cambiamenti e le trasformazioni che hanno luogo in Turchia, nei paesi mediorientali e nordafricani in quanto parte del processo di costituzione di una nuova forma di sovranità capitalista attraverso la terza guerra mondiale. La sinistra, intrappolata in un quadro interpretativo forgiato dal fordismo e dalla Terza Internazionale, sta facendo i conti con una grave crisi di civilizzazione. Sembrano esserci due possibili strade per superare la crisi: o la vecchia sinistra riformerà se stessa, oppure una nuova sinistra sarà creata all’interno di una nuova ondata di movimento. La prima possibilità sembra impossibile dato che la sinistra, chiusa nel suo conservatorismo, ha già perso il suo potere di riformarsi. La resistenza di Gezi indica la seconda possibilità. É una nuova ondata che ha riunito l’intera sinistra su un piano pratico.

Preferiamo definire questa sinistra conservatrice come sinistra modernista. Questa sinistra modernista, che ha preso posto a Gezi Park con i suoi striscioni e le sue bandiere che sventolano in alto, non ha potuto esercitare alcuna influenza politica durante la resistenza. La sua arroganza nel guidare e rappresentare è stata completamente distrutta. É perplessa e paralizzata di fronte alla capacità di iniziativa della resistenza. In questo senso, la resistenza di Gezi ha introdotto la sinistra all’espressione contro la rappresentanza, alle singolarità contro l’universalità, alla moltitudine contro l’Uno. Ha fatto un passo avanti nella nozione di politica, aprendo la strada ai compiti di una nuova sinistra. Fino alla resistenza di Gezi, “moltitudine” o “comune” erano visti come concetti filosofici oscuri. Ma con le loro concrete manifestazioni attraverso la resistenza, adesso sono recepiti come concetti chiave per dar senso alla vita.

Figure come Spinoza, Deleuze, Negri e Holloway, così come la tradizione presente e passata del marxismo autonomo, complessivamente costituiscono una ricca cassetta degli attrezzi di paradigmi da utilizzare per i compiti che la nuova sinistra deve affrontare anche nel nostro paese. Il lato maggiormente potente di questi paradigmi costituitivi rischia però di diventare il loro punto debole. Nel nostro contesto, queste figure e teorie sono state espropriate dal monopolio di un mercato intellettuale isolato dalla vita e dall’azione politica. Sono utilizzate per giustificare l’individualismo anziché la sensibilità politica e organizzativa, e si trasformano in un oggetto di piacere aristocratico. Tutti parlano di Negri, ma la maggior parte evita di fare i conti con le implicazioni del suo pensiero politico. Per questo crediamo che questi paradigmi costitutivi necessitino di essere attraversati da una militanza costitutiva e da una sorta di leninismo, per come noi lo intendiamo.

Quali sono gli elementi comuni e le differenze tra il movimento in Turchia e altre lotte nella crisi (dalle insurrezioni del Nord Africa alle acampadas spagnole, da occupy fino ad arrivare al Brasile)? É secondo voi possibile parlare di un “ciclo” transnazionale di lotte nella crisi?

É molto piacevole che la resistenza di Gezi, che è ancora in grado di determinare autonomamente le sue dimensioni spaziali e temporali nonostante gli alti e i bassi che deve affrontare, non abbia perso la sua capacità di far rivivere in sé e di richiamare i corpi ribelli. Il movimento deve questa capacità alla sua natura attiva e non reattiva, che si è essenzialmente manifestata nella sua continua esistenza come un nuovo piano politico su cui una varietà di agende trovano la loro espressione, invece che essere intrappolato nella dialettica delle domande della rappresentanza. Forse il fatto che il movimento si è inaspettatamente tradotto in molte questioni, sebbene sia partito dalla difesa di un parco, può essere meglio spiegato con la transizione dalla dialettica della rappresentanza all’antagonismo di espressione nella costituzione della soggettività politica. Inoltre, questa soggettività politica emergente è, secondo noi, la caratteristica più importante della nostra resistenza, che indica non solo il comune che le singolarità in questo territorio stanno collettivamente costruendo, ma anche la globalità nella sua indigenità, che lo connette al ciclo di lotte in altre parti del mondo. Perciò, comparando e contrastando la resistenza di Gezi con altre lotte nella crisi, è essenziale avere in mente questa dimensione.

La notevole differenza tra la rivolta di giugno in Turchia e altri movimenti nel mondo rivela in realtà come la profonda connessione tra di loro sia apparentemente un paradosso che stimola la riflessione. É ovvio che la resistenza di Gezi non si sia immediatamente sviluppata in un movimento “anti-sistemico” come è avvenuto per le insurrezioni in Nord Africa contro i regimi dittatoriali, oppure per i movimenti che si sono sviluppati contro la crisi del welfare e della rappresentanza in Europa e Stati Uniti, dovuti al collasso del sistema finanziario globale. A un primo sguardo questa differenza può essere spiegata con due condizioni specifiche della Turchia. In primo luogo, non abbiamo qui un crudele regime dittatoriale come quello dei paesi limitrofi, e il sistema rappresentativo è ancora capace di mantenersi come strumento politico e di cultura politica, per quanto la sua efficacia si sia considerevolmente ridotta da molti punti di vista. In secondo luogo, gli effetti della crisi finanziaria del 2008 in Turchia non sono stati così gravi da portare a un’esplosione sociale, soprattutto perché l’espansione del credito non è stata ancora ostacolata. Tuttavia, dedurre da tutto ciò che le condizioni per la trasformazione della resistenza di Gezi in un movimento anti-sistemico e anti-capitalistico non siano ancora mature significherebbe solo ripetere l’orientalismo della modernità, che ha sempre disprezzato la potenza e l’intelligenza delle moltitudini di questo territorio. Le condizioni sono sempre attualizzazioni della virtualità dei rapporti di potere, sono immanenti, e la resistenza di Gezi ha determinato esattamente un cambiamento fondamentale in questa virtualità. La resistenza di Gezi è soprattutto un movimento di riappropriazione da parte delle moltitudini della potenza da cui sono state separate attraverso l’espropriazione, la rendita, la mercificazione e la rappresentanza. Di fronte a questo movimento di riappropriazione, la capacità del biopotere di governare è stata posta in seria crisi. Il bilanciamento gerarchico del potere mantenuto tra biopotere capitalistico, come potere di espropriare e governare, e moltitudine in quanto potenza creativa della vita, è stato irreversibilmente scosso. Secondo noi, la natura “sistemica” della crisi creata dai movimenti nel nostro territorio e nel mondo risiede nel rifiuto da parte delle moltitudini di essere assoggettate nella specifica composizione dei rapporti di potere imposti dall’Impero nei nostri territori. Questo rifiuto globale dal Nord Africa a Puerta del Sol, da Zuccotti Park a Taksim è mobilitato dal desiderio delle moltitudini di una nuova composizione del potere basato sull’autodeterminazione. Tuttavia, non si sa ancora se il movimento delle moltitudini per riappropriarsi della loro potenza condurrà alla restaurazione della composizione gerarchica del potere attraverso le riforme, oppure a una nuova forma di ricomposizione sociale e politica.

Nel nostro caso, sembra che le incertezze sul corso della resistenza di Gezi permettano una comparazione con altre esperienze mondiali. Come abbiamo accennato prima, la Turchia sta tentando di fare un balzo in avanti nella democratizzazione della rappresentanza per consolidare la Seconda Repubblica. L’iniziativa del governo di sostituire la costituzione del 1980 fatta dal colpo di stato con una nuova costituzione, ottiene significativi sostegni ch vanno al di là della base elettorale tradizionale dell’AKP. Tutti gli “altri” esclusi dall’ideologia ufficiale della Prima Repubblica – dai musulmani sunniti alla popolazione alevita, dai curdi ai non musulmani – chiedono di essere inclusi in un nuovo processo costituzionale, per non essere disonorati ancora una volta. Per questa ragione, non possiamo dire che il rifiuto del sistema della rappresentanza nella resistenza di Gezi sia stato così evidente come in Spagna. Comunque, dopo la lotta comune di tutti i soggetti sociali per la dignità della vita invece che per obiettivi di riconoscimento da parte del sistema e di garanzia dei loro interessi, si vede chiaramente che il nuovo processo costituzionale non può essere ridotto a una concertazione da risolversi attraverso l’alleanza e il consenso tra rappresentanze politiche. Nella misura in cui si può continuare questa lotta per la dignità, la democratizzazione non significa democratizzazione dello Stato ma della vita stessa, e il processo di pace non può portare alla continuazione della guerra con altri mezzi, bensì alla fraternizzazione della vita. In questo contesto, i forum creati nei parchi locali di molte città in tutta la Turchia dopo lo sgombero di Gezi Park e gli sforzi per trasformarli in assemblee come abbiamo visto in altre esperienze in giro per il mondo, presentano incommensurabili possibilità per costruire democrazia e pace come vita etico-politica.

Non è certo se il movimento di riappropriazione della potenza si trasformerà in una rivolta generalizzata contro il comando della moneta e in un desiderio collettivo di costruire e istituire il comune. Come già detto, la resistenza di Gezi non è cominciata come una rivolta direttamente contro il debito e il comando della moneta. Tuttavia, fin dal principio è stato un movimento di contestazione dei confini imposti dalla moneta, di riappropriazione del potere, di desiderio di costruire il comune all’interno della resistenza. La Comune, che è durata forse solo 15 giorni a Gezi Park, può essere costruita solo interrompendo la disciplina dell’orario di lavoro, attraverso la demercificazione e, cosa più importante, con la produzione cooperativa di un tipo di ricchezza inaccessibile con la mediazione della moneta. Il nostro comune come esempio di un realismo magico non è più esistito; però, è ancora vivo come immagine della potenza del comune contro il comando della moneta e del lavoro.

Noi spingiamo per leggere le incertezze del movimento in termini di opportunità per una crescita della sua potenza nella ricomposizione sociale e politica. Comparato con gli slogan “non abbiamo paura”, “non ci rappresenta nessuno” e “noi la crisi non la paghiamo” che si sono alzati a Tahrir, Puerta del Sol e a Occupy Wall Street, l’urlo di Gezi “è solo l’inizio, la lotta continua” riflette il desiderio degli “chapullers”[3], le moltitudini del nostro territorio, nella ricerca di queste opportunità.

Avete più volte nominato il comune: qual è l’importanza che questo concetto ha avuto nel movimento, a livello di lessico politico e soprattutto nel concreto sviluppo delle lotte? E qual è invece il rapporto delle lotte con il pubblico?

Il comune sembra assumere un ruolo molto importante nella costituzione della soggettività politica, sia come linguaggio sia nella concretezza dell’azione e degli obiettivi. É un concetto chiave indispensabile nel superamento delle situazioni di stallo, non solo nella teoria ma anche nelle forme di lotta e di organizzazione. Ci guida al desiderio, alla gioia e all’attività, facendoci prendere le distanze dalle forme di lotta dell’era fordista basate sugli interessi e sulle domande. Emerge come una potenza immanente che abolisce la distinzione tra il sociale e il politico, trasformando la vita stessa in potenza di resistenza. In questo senso, ciò che si è espresso con maggiore forza nella resistenza di Gezi è proprio la ricerca del comune. L’istituzionalizzazione e la continuità della resistenze globali richiede organizzazione del comune: il comune come un evento, l’anticapitalismo immanente al comunismo, il comune come il corpo politico della potenza della moltitudine.

La difesa del pubblico si è già esaurita nel nostro paese, non ha risonanza nei movimenti. É perfino arduo dire che il welfare state qui è stato sconfitto: è totalmente collassato, lo Stato è stato aziendalizzato. La mercificazione di ogni spazio e di tutte le cose è già diventata la forma di vita del capitale in Turchia. Quindi, la resistenza di Gezi è basata non sulla difesa del pubblico ma sul comune. Il comune è la forma di vita del lavoro contro quella del capitale. Nella resistenza di Gezi, la sostanza politica dell’antagonismo ha fatto la sua apparizione. Da qui vengono le nostre speranze.

Vogliamo concludere l’intervista con i nostri saluti a tutti. Cari compagni, stupende persone che portate la coscienza, la dignità e la gioia della vita: siamo passati attraverso una rivoluzione minore, attraverso una vita che si rivolta contro il Potere che ha pisciato fuori dal vaso, una vita che non vuole essere Potere. Abbiamo imparato a rispettare la vita. La virtù del comune, quanto ci manca! Ci siamo abbracciati l’un l’altro come gli indigeni del mondo, riempiendo il nostro desiderio per l’altro con la virtù del comune. Abbiamo riso e ballato con la gioia della rivoluzione. Siamo onorati, abbiamo meritato l’amore e la rivoluzione!

Quanti siamo! E come eravamo soli. Perché avevamo lasciato l’altro così solo. Come è bello essere uno, due, tre e migliaia tra la moltitudine. Come eravamo arroganti nella solitudine dell’egoismo. Come è bello sentirci umili nella moltitudine di differenze ed espressioni senza soggetto e rappresentanza. Ora vediamo la rivoluzione come immensa amicizia. L’amore è amicizia nella rivoluzione, lo vediamo! Essere amici, compagni nell’amore e per l’amicizia. Come è onorevole essere rivoluzionari.

Prima le nostre parole erano discorso vuoto. Abbiamo parlato dalla bocca alle orecchie. Adesso vediamo che sono i cuori che parlano. E la rivoluzione non è nient’altro che il flusso di parole da cuore a cuore. Ci sentiamo pienezza! É una transizione dalla “volontà di potenza” nella mancanza, alla “volontà di desiderio” nella pienezza. Sentiamo la volontà di amicizia. La volontà di potenza non è più volontà di comando. Vediamo che la rivoluzione non è una transizione nel Potere o un potere di negare, ma la trascendenza culturale del general intellect con la potenza di guidare tutto nella trasformazione immanente. Nessuno è se stesso o se stessa, nulla sarà come prima.

Vi amiamo tanto. La vostra lotta è la nostra dignità, gioia e potenza. Non dimenticatevi mai che qui avete dei compagni. Questa è la vostra casa. La nostra porta è la vostra.

Con la gioia della risata rivoluzionaria: “noi vogliamo tutto”!

 


[1] Devşirme (la tassa del sangue) era la pratica principale con cui l’Impero ottomano prendeva i ragazzi dalle loro famiglie cristiane per poi convertirli all’islam, con il primario obiettivo di selezionare e formare i bambini più abili per posizioni di leadership, come capi militari oppure come alti funzionari dell’Impero.

[2] Classificazione è qui usato in riferimento alla produzione e riproduzione dei soggetti di classe, avendo in mente la nozione foucaultiana di soggettivazione come questione di relazioni di potere.

[3] Termine usato da Erdogan per designare i manifestanti come saccheggiatori, è stato riappropriato dal movimento ed è diventato sinonimo di combattente per i propri diritti.

 

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