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Cagliari Nara Cixiri

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Le campane delle chiese avevano appena battuto il tocco. A Cagliari quel 28 aprile, pareva già un giorno estivo. E’ l’ora di pranzo e le strade sono quasi vuote e nessuno sembra sul momento notare un’intera compagnia di granatieri che scende da Castello, attraverso la Porta Reale diretta verso il borgo di Stampace. Sembrerebbe una semplice esercitazione se non fosse per l’insolita ora. Non è così. Un abitazione viene circondata e il Comandante di Piazza in persona, il cavalier Lumel, consegna un mandato di arresto agli avvocati Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor. L’accusa è quella di cospirazione contro il re piemontese e la sua corte in Sardegna.

Il quartiere di Stampace – dei «cuccurus cottus», delle teste calde come si autodefiniscono gli abitanti – è sempre stato dalla sua nascita nel XIII secolo un incrocio di spiriti liberi e poco avvezzi a chinar la testa. Per i governatori spagnoli erano gli esseri più infidi e pericolosi del mondo e persino i pirati nordafricani, che pur mercanteggiavano nel quartiere di Marina, avevano avuto una suprema diffidenza nell’avvicinarvisi.

L’anno precedente la flotta francese si era affacciata nel porto di Cagliari, alla guida dell’ammiraglio Trouguet, nella speranza di esportare il verbo rivoluzionario e contemporaneamente nel tentativo di spezzare l’alleanza degli Stati nemici attaccando l’anello debole della coalizione, il regno dei Savoia, impegnandolo in quella che veniva considerata una colonia pronta ad insorgere. Il viceré Balbiano non aveva preso la minaccia con troppa preoccupazione. Non così il clero e la nobiltà isolana, impauriti dalle notizie provenienti da oltralpe, di una plebe che mozzava le teste incoronate e altolocate. Il vescovo di Cagliari aveva messo a disposizione un’enorme cifra e l’argento suo personale oltre a quello del Duomo per acquistare armi ed equipaggiare gli uomini reclutati dai nobili per la difesa della città. I cagliaritani accorsi a formare le milizie venivano dai borghi di Villanova, Marina e soprattutto Stampace, arruolati da un capopolo come il notaio Vincenzo Sulis, uomo dal passato movimentato e conosciutissimo negli ambienti più popolari della città. I francesi apparivano come un nemico sconosciuto e a esso preferivano quello vecchio e conosciuto, i lontanissimi re piemontesi. La vittoria sulla flotta nemica e la sua fuga – benché dovuta principalmente alla cattiva conduzione dell’ammiraglio francese, ai dissidi, sfociati in veri scontri fra i volontari corsi e provenzali e infine alle cattive condizioni del mare – le milizie popolari l’attribuirono alle proprie eroiche imprese, che si erano ridotte ad alcune azioni di guerriglia sulle paludi. Vincenzo Sulis e tutti gli stampacini, tutte le milizie apparivano patrioti e salvatori della patria. Così non smobilitarono e non restituirono le armi. Anzi, assieme ad altre componenti militari e della nobiltà, iniziarono ad avanzare al governo piemontese e al re la richiesta di ripristinare ciò che perfino i governanti spagnoli avevano concesso alla «nazione sarda», la possibilità di riunire i propri rappresentanti e avere voce in capitolo nelle decisioni che la riguardavano e in più l’apertura ai sardi di tutti i posti nell’amministrazione pubblica. La risposta negativa a queste richieste giunta da Torino non aveva fatto altro che accrescere il malcontento popolare.

Il complotto di cui erano accusati Cabras e Pintor era proprio questo e gli stampacini con le loro milizie apparivano un pericolo da domare con il brutale esempio.

Ma la notizia degli arresti corre di bocca in bocca, di casa in casa ed è tutto un precipitarsi in strada armati di schioppi, di coltelli o di armi improvvisate. Da Villanova, dalla Marina gruppi di armati si uniscono agli stampacini; un fiume umano prende d’assalto e brucia i ponti levatoio sollevati che dividono Castello dai suoi borghi. Lunghe scale vengono issate sui bastioni, che, nei punti più bassi vengono scalati e superati. Il palazzo viceregio cade in mano agli insorti e il suo comandante ucciso, la prigione che ospita i due detenuti (la torre di San Pancrazio, in cima al quartiere) viene assaltata e liberati i prigionieri. L’intera città e in mano ai rivoltosi. Per due giorni bande di ragazzini imperversano intorno al porto alla ricerca di militari e amministratori piemontesi in fuga. «Nara cixiri», intimano al minimo sospetto: «Dì la parola cece», difficilmente pronunciabile correttamente da un non sardo. Alcuni capi della rivolta assicurano impunità agli uomini della corte e al viceré Balbiano, quello che i sardi chiamavano – da quando era stato il governatore sassarese dal pugno di ferro – «su vissurrey baioccu» per quell’unico occhio mobile, che fissava duro e implacabile. Impunità in cambio di un imbarco per nessun ritorno.

E i cagliaritani inventarono per gli illustri piemontesi costretti alla fuga un beffardo saluto che chiamarono «scommiato», accompagnato da un festoso e irriverente «ballu tundu» al porto.

Iniziava il triennio rivoluzionario e la sarda rivoluzione anti-feudale, più volte sconfitta, con i suoi uomini migliori brutalmente uccisi o esiliati, che (fra rivolte contadine ed espropri dei possedimenti feudali) risorgerà a più riprese per tutti gli anni di fine secolo sino ai primi del 1800 e all’ultimo tentativo fallito e sconfitto di moto insurrezionale nel 1812, in «s’annu doxi de su famini mannu», l’anno della grande carestia: dagli orti di Palabanda a tutta la città.

Fonte: La bottega del barbieri

Guarda “28 aprile 1794 Sa Die“:

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