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L’insurrezione russa del 1905

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La rivoluzione russa del 1905 colse di sorpresa anche coloro che l’avevano prevista. Non sarebbe potuto essere altrimenti. I processi accumulatisi in decenni, per non dire secoli, diedero il proprio salto qualitativo in qualche giorno. La coscienza venne dopo la rivoluzione e non viceversa. I lavoratori russi si mossero portandosi dietro i propri pregiudizi secolari e lo fecero attraverso i canali che conoscevano: gli stessi sindacati reazionari e il pope Gapon. Il 5 gennaio 26mila lavoratori a San Pietroburgo scesero in sciopero in risposta a dei licenziamenti alle acciaierie Putilov. Due giorni dopo gli scioperanti erano oltre 100mila. Con l’idea di incanalare il movimento, su iniziativa del pope Gapon, iniziò allora a circolare nelle assemblee di sciopero una petizione da consegnare allo zar. La prima grande rivoluzione del ‘900 iniziava così, con un’umile supplica:

Sovrano, noi, lavoratori, i nostri figli, le nostre donne, i nostri vecchi genitori infermi, siamo venuti da te sovrano a cercare giustizia e protezione. Siamo ridotti in miseria, siamo oppressi ed aggravati da fatiche insostenibili, siamo insultati. (…) Ecco Sovrano i nostri più importanti bisogni con cui siamo venuti da te. Ordina e giura di soddisfarli e tu farai la Russia più forte e gloriosa, scolpirai il tuo nome nei cuori nostri e dei nostri posteri in eterno. Se non lo farai, se non ascolterai la nostra supplica noi moriremo qui, in questa piazza.

La Luxemburg descrisse così questo particolare scherzo della coscienza:

“La storia reale come la natura è molto più bizzarra e ricca nelle sue trovate dell’intelletto classificante e sistematizzante. L’umile “preghiera” delle masse popolari allo zar consisteva solamente nella richiesta che la sua sacra maestà volesse benignamente e con le sue proprie mani decapitare il despota di tutte le Russie. Era la preghiera, rivolta all’autocrate, di farla finita con l’autocrazia. Era l’istinto di classe di un proletariato assolutamente serio e maturo trasposto nella trovata fantastica di una fiaba per bambini. Basta che la massa popolare risvegliatasi arrivi all’idea, formalmente infantile ma in realtà terribile, di guardare faccia a faccia il padre del popolo e di voler realizzare il mito della sovranità sociale, perché il movimento si trasformi in modo ineluttabile nel cozzo di due nemici mortali, nello scontro di due mondi, nella lotta di due epoche.”

Il 9 gennaio una marcia pacifica di 150mila persone, con icone inneggianti allo zar, si diresse al Palazzo d’Inverno. Ignare del reale significato del loro gesto, andarono incontro al massacro. Le truppe spararono tutto il giorno, lasciando a terra circa 4600 vittime. Fu la cosiddetta “domenica di sangue”, l’inizio della rivoluzione.

Lo sciopero generale divampò immediatamente in tutta la Russia. Esso coinvolse due milioni di persone; “senza piani, non di rado senza rivendicazioni, interrompendosi e riprendendo, obbedendo soltanto allo spirito di solidarietà, esso regnò nel paese per circa due mesi”. Niente fu più lontano dai marxisti che deprecare simile dinamica o stupirsi dell’iniziale arretratezza della coscienza degli scioperanti. Rosa Luxemburg scrisse a caldo:

“Senza dubbio il primo manifestarsi della massa operaia di Pietroburgo ha portato alla superficie ancora diverse magagne – illusioni filozariste, casuale direzione da parte di ignoti capi del giorno innanzi. Come in tutte le grandi esplosioni rivoluzionarie, in un primo tempo la lava ardente solleva con sé dalla profondità alla bocca del cratere ogni genere di melma. (…) Indubbiamente anche per la stessa socialdemocrazia russa questo primo sollevamento in massa dei lavoratori di Pietroburgo è stata una sorpresa. (…) [Ma] di rivoluzioni suscitate, organizzate e ben guidate, in breve “fatte” in base a piani, ne esistono soltanto nell’accesa fantasia di anime poliziesche (…) o di procuratori di stato prussiani e russi.”

Lo scontento operaio si collegava a doppio filo a quello generale creato dalla disastrosa guerra contro il Giappone. Quando la flotta russa fu annientata da quella giapponese a Tsushima nel maggio del 1905, la rivoluzione contagiò parte dell’esercito. Un mese dopo si ammutinarono i marinai della corazzata Potemkin. Ad agosto il ministro zarista Bulygin si vide costretto ad alcune parziali concessioni, convocando le elezioni della Duma (il parlamento) accompagnate però da una legge elettorale censitaria che escludeva dal voto la maggioranza dei lavoratori e dei contadini. Oltre tutto la Duma avrebbe avuto una funzione solo consultiva. I bolscevichi decisero immediatamente di boicottarla. La Luxemburg fu della stessa opinione.

Un potere di ben altra natura stava tra l’altro iniziando ad animare i centri operai. A San Pietroburgo era nato il Comitato dei lavoratori, il SOVIET: si trattava di un’assemblea composta dai delegati eletti e revocabili delle fabbriche della città. Anche in questo caso l’inconscio aveva preceduto il conscio. I Soviet non erano stati l’invenzione di un qualche pensatore illuminato, ma il risultato stesso del movimento della classe. Nati dall’esigenza di coordinare la lotta, essi avevano finito per trasformarsi in veri e propri organi di controllo operaio sulla produzione. Erano il nuovo potere operaio in forma embrionale. Così ne diede notizia la Luxemburg:

“Ed ecco un risultato interessante della rivoluzione: in tutte le fabbriche si sono formati “da sé” comitati eletti dagli operai, che decidono su tutte le questioni del lavoro, sull’assunzione e sul licenziamento degli operai ecc. L’imprenditore ha realmente cessato di “essere padrone in casa sua”. (…) Dopo la rivoluzione probabilmente tutto questo cambierà, col ritorno alle condizioni normali. Ma tutti questi fatti non saranno avvenuti senza lasciar tracce. E contemporaneamente l’organizzazione procede instancabilmente.”

Dopo un periodo di breve calma, nell’autunno del 1905 gli scioperi ripresero impetuosi. Tra il 9 e il 17 ottobre solo nelle ferrovie scioperarono 750mila lavoratori. L’assolutismo fu costretto a quel punto a ulteriori concessioni: il 17 ottobre fu promulgato un manifesto che introduceva i diritti costituzionali e l’amnistia per i prigionieri politici. Dietro ai proclami cartacei, però, non si nascondeva nessun vero cambiamento. Non era una Costituzione che rimuoveva lo zar, ma era uno zar che concedeva gentilmente una Costituzione. Il liberalismo borghese prese in ogni caso la palla al balzo per sfilarsi dalla lotta con la coscienza tranquilla. In novembre la controrivoluzione rialzò la testa. Furono organizzate squadracce di sottoproletari con cui fomentare i pogrom, veri e propri linciaggi a sfondo razzista e religioso. Nello stesso mese i grandi industriali dichiararono la serrata per schiacciare il movimento: la grande borghesia pugnalava così alle spalle la stessa rivoluzione borghese. Il soviet di San Pietroburgo rispose con lo sciopero. Rosa Luxemburg descrisse alcuni mesi dopo lo spirito eroico con cui gli operai di San Pietroburgo provarono a far fronte ai licenziamenti di massa:

“si è avuta l’occasione di vedere come stanno le cose a Pietroburgo. (…) Un caos indescrivibile nell’organizzazione, frazionamenti del partito, nonostante tutte le unificazioni e depressione generale. (…) Ora a Pietroburgo, come da noi, il punto debole del movimento sta nella colossale disoccupazione (…) e non c’è nessun mezzo per porvi rimedio. Con ciò però si sviluppa nelle masse un eroismo silenzioso ed un sentimento di classe, che porterei volentieri ad esempio ai cari tedeschi. I lavoratori trovano dei rimedi da sé, per esempio, quelli occupati dedicano sistematicamente una giornata di paga alla settimana per i disoccupati. (…) Infatti il senso della solidarietà, ed anche della fratellanza con i lavoratori russi è così sviluppato, che ne rimaniamo involontariamente meravigliati, anche se per arrivare a questo abbiamo tanto lavorato noi stessi.

Ciononostante lo sciopero di San Pietroburgo si infranse contro l’ostinata resistenza della serrata. L’attenzione ricadde su Mosca dove fu tentato un ultimo assalto al cielo. Il 9 dicembre 1905 lo sciopero si trasformò in insurrezione, con barricate e combattimenti di strada. Il 17 però l’ultimo quartiere insorto si arrese: era la sconfitta non solo dell’insurrezione di Mosca, ma della stessa rivoluzione. Questo però non poteva apparire altrettanto chiaro a coloro che ne erano i protagonisti. Rosa Luxemburg, per altro, riuscì a rientrare in Polonia soltanto lo stesso giorno della sconfitta di Mosca.

Qual’era stato fino a quel momento e quale fu il lavoro di una “spontaneista sanguinaria” come lei nel bel mezzo di una rivoluzione? Lo possiamo riassumere in alcune semplici parole: teoria, propaganda e agitazione. Dall’inizio si propose di “diffondere una vera e propria fiumana di pubblicazioni” e di scrivere finché gli occhi non le fossero uscite dalle orbite. Dietro l’entusiasmo di circostanza mostrato dalla stampa socialdemocratica tedesca, esisteva a riguardo una profonda incomprensione. La rivoluzione era considerata non un anello della lotta di classe internazionale, ma un fatto a sé stante: il prodotto peculiare di un paese arretrato e barbaro. Il fenomeno russo veniva quasi ridotto a folklore. Nelle testate socialdemocratiche si sprecavano, come ironizzò la Luxemburg, “frasi sui lastroni di ghiaccio che si spaccano, le steppe sconfinate, le anime affrante stordite dal pianto e simili altisonanti espressioni da letterati nello spirito dei giornalisti borghesi le cui conoscenze sulla Russia provengono dall’ultima rappresentazione dell’Asilo notturno di Gorkij o da un paio di romanzi di Tolstoj e che sorvolano con ignoranza parimenti benevola sui problemi sociali dell’uno e dell’altro emisfero”.

Nel vivo della rivoluzione, le differenze politiche tra la tendenza menscevica e bolscevica apparvero alla Luxemburg estremamente più chiare. In diverse occasioni espresse ammirazione verso il lavoro dei bolscevichi a Mosca e si scagliò contro la viltà dei menscevichi.

La sconfitta di Mosca fece infine sentire i suoi effetti e nel giro di qualche mese la rivoluzione tornò a inabissarsi nel riflusso. A luglio 1906 tornava in Germania con in mente un solo concetto: “La rivoluzione è magnifica e ogni altra cosa è priva di importanza”.

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