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Le formidabili carriere sulla pelle dei poveri

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Mafia, polizia e politica a Roma

Nian Maguette aveva 54 anni, veniva dal Senegal e lavorava come venditore ambulante nelle strade del centro di Roma. Morì nel tentativo di fuggire da una retata della Polizia di Roma Capitale il 4 maggio 2017. I testimoni raccontarono di una vera e propria caccia all’uomo che gli uomini del Nucleo Speciale Anti Degrado e Abusivismo misero in atto fra le vie del rione Trastevere, con il tragico (ma drammaticamente scontato) finale della morte di un lavoratore colpevole solamente di guadagnarsi il pane per resistere alla povertà e provare a costruirsi un futuro dignitoso. Lo stesso pensiero, una casa seppur considerata una “baracca” dove poter vivere dignitosamente, devono averlo avuto le famiglie Rom di via Salviati, a Tor Sapienza, scacciate dalle proprie abitazioni (poi demolite) dallo stesso “Nucleo Speciale” con tanto di pistole in vista, o quelle della “baraccopoli” di Ponte Mammolo, anche loro allontanate con la forza da quel misero giaciglio che erano riusciti a costruirsi senza alcun tipo di soluzione alternativa. Ma non solo, questo nugolo scelto di uomini più simili ad una Delta Force che ad un ordinario corpo di Polizia Locale, è ben noto nelle periferie della città in quanto spesso chiamato a intervenire negli sfratti e negli sgomberi delle case popolari o delle occupazioni abitative. Capo indiscusso era Antonio Di Maggio, lo “sceriffo con la pistola” o Tonino Bronson come viene simpaticamente ribattezzato dai suoi colleghi. Il verbo al passato non è casuale, perché da ieri Di Maggio è stato promosso a Comandante della Polizia di Roma Capitale. Un atto quasi dovuto dopo che la sindaca Raggi gli aveva sostanzialmente conferito pieni poteri solo poche settimane dopo l’assassinio di Nian Maguette, ma che conferma un trend nella capitale: fare la guerra ai poveri è un trampolino di lancio per le carriere di molti, un pass per promozioni, potere e agevolazioni.

Se infatti Di Maggio, alfiere col suo Nucleo della guerra a tutto ciò che viene definito “degrado e abusivismo” ma che nei fatti si rivela essere primo soldato della guerra ai poveri e ai tentativi di contrastare la povertà in città, diventa Capo della Polizia Locale è perché a Roma va strutturalizzandosi un meccanismo di Città-Laboratorio che vede in discesa la strada per chi decide di combattere dall’altro lato della barricata, in quella lotta di classe portata dall’alto verso il basso.

E quindi Di Maggio risulta essere solo l’ultimo di una lunga scia di esempi che delineano sempre di più come non si tratti più di casualità, di meriti personali, ma di una precisa strategia di controllo e sperimentazione che abbraccia vari poteri: da quello politico arrivando a quello repressivo e giudiziario.

In principio fu Luca Odevaine (o Odevain, come si chiamava prima di modificarsi il nome). Da semplice “militante” di Legambiente a Vice Capo di Gabinetto del sindaco Veltroni, la sua carriera conosce un ascesa fulminea e quasi inarrestabile (anche se poi arrestato ci finisce lui, nelle maglie dell’inchiesta “Mafia Capitale”). Diventa il gestore unico dei grandi eventi a Roma (come ad esempio il funerale di Papa Woijtila nel 2005), fino ad assumere cariche dirigenziali importanti nei sistemi SPRAR e Cara, in particolare a Mineo. Celebre, da rappresentante politico, la sua frase “Non parlo con chi viola la legge” rivolta ai movimenti e le organizzazioni per il diritto all’abitare che chiedevano un incontro per risolvere l’emergenza abitativa nella Capitale. Una battaglia condotta in prima linea quella contro i poveri e chi lotta per i propri diritti troppo spesso negati e calpestati, ma evidentemente ricordata e ben remunerata da chi sulla povertà fa affari. Non si dimenticarono di Odevaine i vecchi amici, fino all’inevitabile tonfo di Mafia Capitale figlio più di un normale rimescolamento di carte del potere che della reale volontà di cambiare l’esistente.

Ma è proprio dalle ceneri di Mafia Capitale che nelle buie stanze del Campidoglio si è fatto largo un nome rimasto pulito dalla palude dell’inchiesta più importante sulla corruzione a Roma di sempre. E’ quello di Aldo Barletta, anonimo funzionario del Dipartimento alle Politiche Abitative, mai un’intervista di troppo ne particolare esposizione mediatica anzi addirittura a leggere le carte giudiziarie nemico di quel Buzzi factotum della politica romana. Eppure bravo, evidentemente, a districarsi in quella complessa fase di transizione tra la gestione “tecnica” Tronca e l’insediamento, fin troppo lento, politico della giunta Raggi, tanto da divenire (un unicum nel suo genere) plenipotenziario tecnico di un dipartimento delicato ed importante come quello alle politiche abitative. La sua è un ascesa rapida e inquietante. Sua è la firma in calce sugli sfratti e sugli sgomberi oltre che la continua ostruzione “tecnica”, tramite ritardi, vizi di forma, pressioni, rispetto ad alcune questioni portate avanti dai Movimenti per il Diritto All’Abitare (come ad esempio la famosa delibera regionale sull’emergenza abitativa). Una figura tecnica ma dal comportamento estremamente politico: negare spazi di agibilità a chi prova ad organizzarsi per resistere alla povertà sul terreno della casa, con ogni mezzo necessario. Da semplice funzionario una rapida ascesa a direttore del Dipartimento e, sostanzialmente, ad Assessore alle Politiche Abitative “Ombra”, non c’è delibera o atto che non passi per le sue mani e la sua visione di città è estremamente chiara: a Roma non c’è spazio per i poveri ne tantomeno per chi prova a resistere e lottare contro questa condizione di povertà. Una visione, come abbiamo visto, estremamente remunerativa per l’ambizioso Aldo.

Non solo potere politico ma anche giudiziario repressivo. Il capo della polizia Franco Gabrielli, infatti, da prefetto di Roma ha dato il via ad un aspra stagione di scontro con i movimenti per il diritto all’abitare e in generale con le forme di lotta e di conflittualità in città. Suoi molteplici sgomberi di stabili occupati in nome del ripristino della legalità, sua la cinica politica di attacco ai poveri per quello che è a tutti gli effetti un tornaconto personale: il lasciapassare politico alla poltrona più ambita, quella di capo della Polizia. Si è imposto come uomo ordine (dagli sgomberi alle circolari che regolano i cortei in centro), costruendo una buona fetta della sua credibilità e della sua carriera sulle teste di chi in città combatte per una vita migliore. Non fa eccezione nemmeno Giuseppe Pignatone, procuratore della repubblica di Roma. Immediatamente ha virato le indagini della procura nei confronti di centinaia di compagni e compagne, costruendo fantasiosi castelli accusatori sui “racket” che gestirebbero le occupazioni abitative della città. Non c’è mai stato da parte di Pignatone un attacco diretto a chi veramente sugli immobili di Roma ha fondato un racket redditizio (dai palazzinari per arrivare ai mafiosi che gestiscono migliaia di appartamenti popolari nelle periferie), ma immediatamente si è puntato il dito contro chi organizza sul tema della casa forme di resistenza e di lotta, provando a gettare fango su queste esperienze di lotta con la teoria del racket, dell’utilizzo della povertà come strumento per i propri comodi.

A ben vedere chi sfrutta la povertà per i propri tornaconto sono proprio questi personaggi che sull’attacco diretto alle forme di lotta hanno costruito la loro carriera. Pignatone, che anche in audizione parlamentare ha tenuto a ribadire che uno dei maggiori problemi che affligono Roma sono le occupazioni abusive gestite dal racket degli antagonisti, è ora uno dei più importanti magistrati italiani. Tra le sue mani passano le inchieste più calde e mediaticamente appetibili della procura di Roma, ivi compresa la famosa indagine su Mafia Capitale. Al suo servizio, da anni, i pubblici ministeri Tescaroli e Abamonte. Il primo è, al fianco del procuratore di cui sopra, assegnatario di gran parte dei più “succulenti” processi nel tribunale di Piazzale Clodio e firmatario di centinaia di indagini nei confronti di altrettanti militanti politici. Non vi è compagno o compagna, a Roma, che non conosca questo pubblico ministero, sempre in prima linea quando si tratta di provare a fermare le lotte e reprimerle. Al suo fianco, per molto tempo, quell’Eugenio Abamonte ora diventato addirittura capo dell’Associazione Nazionale Magistrati, anche lui firmatario di centinaia di denuncie e misure cautelari a compagni e compagne di Roma.

Sono solo alcuni dei tantissimi esempi di un modello di gestione del potere che va sviluppandosi. A Roma chi fa la guerra ai poveri viene premiato, combattere le resistenze metropolitane diventa un lasciapassare dorato per poltrone e posti dirigenziali, per avanzamenti di carriera e potere.

Chissà se verremo mai ringraziati per tutti questi posti di lavoro che, nostro malgrado, ci troviamo da anni a creare. Sicuramente tutto ciò alimenta la nostra convinzione di essere dalla parte giusta della barricata. Per noi, per le nostre vite, quello che facciamo non è finalizzato ad un avanzamento di carriera, ad un posto di lavoro o ad una poltrona calda. Lo facciamo perché crediamo in un mondo diverso, nella possibilità di creare una società giusta ed equa. Vedere chi ci combatte auto incensarsi e premiarsi fortifica semplicemente questa nostra convinzione.

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