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“Città ostili” – Materiali per il convegno “Città, spazi abbandonati, autogestione”

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Pubblichiamo questo contributo inviatoci da Gennaro Avallone, ricercatore presso l’Università degli studi di Salerno, come primo di una serie di materiali introduttivi alla discussione per il convegno del 3 ottobre a Bologna organizzato dal Laboratorio Crash! intitolato “Città, spazi abbandonati, autogestione” (qui la call). Segnaliamo intro un altro contributo analogo scritto da Pietro Saitta uscito su Effimera. Chiunque volesse contribuire al dibattito inviando dei testi può mandarli a conferenzacrash@gmail.com e verranno pubblicati su Infoaut prima dell’iniziativa in modo da arricchire la discussione. Ricordiamo inoltre che l’invito è a presentare brevi abstract di interventi per costruire il programma delle due sessioni del convegno.

 

Città ostili

Venditori immigrati che scappano nelle traverse dei corsi e delle piazze delle città al passaggio di auto dei vigili urbani o della polizia. Alloggi inaccessibili. Redditi insufficienti e sempre meno disponibili. Orari di lavoro lunghissimi o estenuanti attese per un’occupazione qualsiasi. Adulti chiamati giovani costretti a convivere con la famiglia di origine, unica garanzia, per quanti ne hanno una, della riproduzione sociale personale e collettiva. Telecamere pubbliche e private disseminate ovunque. Volanti, sirene e lampeggianti, poliziotti di quartiere e vigili urbani che pattugliano le aree dello shopping e del passeggio. Centri commerciali lungo le tangenziali e le autostrade controllati da guardie private, sensori ed altri dispositivi tecnologici. Antifurti che suonano nelle domeniche e nelle giornate estive dai condomini e dalle villette del periurbano senza che nessuno possa fermarli.
Questo elenco è solo una parte delle molteplici immagini che si possono utilizzare per raccontare la qualità che hanno assunto gli spazi urbani e le vite di una parte degli abitanti al loro interno. Si tratta di immagini di realtà che dicono di spazi sottoposti alle logiche del controllo capillare, con i relativi strumenti tecnologici e simbolici di applicazione, e di vite, individuali ed associate, che si muovono dentro e attraverso quegli spazi, imbrigliate nelle medesime logiche e pratiche di dissuasione.
La centralità della forza economica, attuale e potenziale, dei singoli e dei gruppi è propria delle società basate su un’economia monetaria e, senz’altro, di quelle capitalistiche, fondate sulla forma merce, dunque sulla relazione di potere denaro-merce. Essa, tuttavia, può essere affiancata o ridimensionata da altri tipi di forza, ad esempio la forza dello Stato, come è avvenuto soprattutto durante la seconda metà del Novecento nelle aree occidentali del pianeta con le istituzioni del welfare e le politiche sociali e di redistribuzione della ricchezza, o la forza delle reti di reciprocità o delle forme di capitale individuale non economico (sociale, culturale o simbolico).
Quando la forza della competizione individuale e/o di gruppo si afferma sulle altre, essa si propone direttamente come fattore politico oltre che economico, come potere le cui stesse logiche, materiali e simboliche, si impongono, in un rapporto costitutivo tra dimensione materiale e dimensione delle idee e delle credenze.
È questo il caso delle città contemporanee italiane, città attraversate da una radicale trasformazione successiva al ciclo fordista, conclusosi durante gli anni ’80, che ne ha mutato profondamente i caratteri, così come le forme di convivenza e socialità al suo interno, le forme di produzione dello spazio ed i discorsi che l’hanno interessata. Non sono mutate solo le politiche pubbliche urbanistiche, le modalità di vita quotidiana nei suoi luoghi, i suoi tempi e ritmi di vita. Ad essere cambiato è stato anche l’ordine del discorso che riguarda la città, il senso della vita urbana ed il diritto a vivere la città come spazio politico, cioè come spazio complessivo di vita, non segmentato né ridotto alla somma di alcune funzioni (consumare, lavorare e produrre). E, come ogni produzione del discorso, essa ha la funzione “di scongiurare i poteri e i pericoli, di padroneggiare l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità”. (Foucault, 1985, 4-5).
La città conflittualmente inclusiva costruita tra gli anni ’50 e ’70 è stata sottoposta ad una molteplicità di processi erosivi del suo doppio carattere costitutivo, che non hanno dato vita ad un ribaltamento delle sue logiche di organizzazione, ma ad una loro torsione, sebbene avvenuta in maniera non lineare.
Da un lato, si è passati dalla logica della conflittualità sociale e politica, fondata su interessi diffusi legittimi contrapposti, a quella della conflittualità inter-individuale e tra categorie sociali, basata su contrapposizioni asimmetriche tra quanti sostengono e rappresentano rivendicazioni legittime e quanti non sono legittimati ad avanzarne. La più chiara espressione di questa antitesi è quella vigente tra nazionali e non nazionali, tra italiani e stranieri, secondo un rapporto di tipo coloniale che colloca i nazionali dal lato della legittimità ed i non nazionali nell’ambito dell’illegittimità, in quanto soggetti fuori luogo, presenti nel territorio nazionale ma non appartenenti ad esso, sostanzialmente degli impostori, dei nemici. La cronache, come una parte delle ricerche, raccontano di questa separazione – sociale, spaziale e simbolica – già individuata da Abdelmalek Sayad nel caso francese e generalizzabile a molteplici altri contesti di immigrazione, in cui l’appartenenza nazionale segna un confine, parte di un più generale dispositivo di gerarchizzazione, governo e disciplinamento della popolazione o, meglio, di una parte della popolazione contro un’altra. Il rapporto costruito con i migranti nelle città italiane ha seguito questa traccia, contribuendo, più di ogni altro processo, a ridefinire i caratteri della convivenza urbana e del governo dello spazio e della società nella spazio fondato su rapporti di inimicizia. Le città sono divenute spazi in cui si combatte, ambiti di vita da salvaguardare con strumenti di polizia, ma anche di prevenzione e dissuasione, al fine di garantire sicurezza, pulizia e decoro.
Dall’altro lato, si è determinato il passaggio da città inclusive, seppure in maniera contraddittoria, a città programmaticamente basate su logiche di inclusione selettiva. Si sono imposti due principi di ordine della città, simili a quelli imperanti nella città della seconda metà dell’Ottocento, corrispondenti ai principi della competizione e della selezione. Questi principi hanno operato in processi differenti da quelli della città dello sviluppo industriale, in un contesto attraversato da un regime di accumulazione capitalistica del tutto differente e dal dispiegamento del paradigma di governo delle popolazioni di tipo neoliberista, nel quale le logiche produttive e di scambio mercificato e le relazioni sociali fondate sul debito e l’indebitamento si sono dispiegate nella società nel suo insieme, interessando profondamente la stessa produzione dello spazio e la socialità urbana vigente. Il debito, in quanto espressione di capitale fittizio, è divenuta la base su cui si è costruita la città neoliberista sia nei suoi aspetti macro – urbanistici ed economici – sia negli aspetti micro – quelli relativi alla vita ed alla socialità quotidiana.
La città del debito è la città finanziarizzata, che dipende, per la sua vita presente e futura, dal denaro che sa attirare e dalla sua credibilità verso gli investitori. La città è finanziarizzata non solo perché con la crisi fiscale dello Stato e degli enti locali non è più in grado di sostenere la riproduzione e l’erogazione dei servizi fondamentali al suo interno (sanitari, trasporti, manutenzione strade, sicurezza pubblica, servizi sociali e scolastici, servizi e programmi culturali), ma anche perché la logica a cui deve sottoporsi per avere denaro da utilizzare è quella della competizione inter-urbana e dell’attrattività degli investimenti dall’esterno, mantenendo un clima favorevole agli affari. Il debito diviene parte del dispositivo di disciplinamento più generale nel quale si tende a costringere la vita ed il lavoro. Esso si pone come forza oggettiva alla quale subordinare ogni decisione ed ogni comportamento, una forza che prescinde da specifici rapporti sociali e di forza e si impone come un fatto sociale totale, un fattore determinante generale, esterno alle dinamiche sociali e coercitivo, capace di influire su tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva.
In questo tipo di città cambiano anche le forme del lavoro e, soprattutto, mutano gli atteggiamenti dominanti verso il lavoro, merce chiamati ad adeguarsi ai principi di ordine della concorrenza, della circolazione e della sicurezza. Nella città neoliberista l’insieme dei lavori necessari alla produzione e riproduzione della città è prioritariamente orientato a garantire la certezza della distribuzione e dello scambio di merci. Il lavoro vivo viene governato in modo che la circolazione delle merci avvenga nel modo più efficiente possibile per la loro valorizzazione, con rapidità, comprimendo il più possibile tempi e spazi di movimento. Tutte le attività lavorative vengono sollecitate nella medesima direzione: dagli addetti alle vendite nei negozi e centri commerciali ai mobility manager pubblici e privati, tutto il lavoro è organizzato per rendere liscio, privo di ostacoli, lo spazio-tempo di circolazione delle merci. Questa massa di lavoro vivo riproduce le condizioni per la realizzazione delle merci e, insieme, produce e riproduce la vita urbana ed i suoi flussi (di cibo, così come di energia, acqua ed altro). Essa produce plusvalore, assoluto e relativo, e valore, costituito dal processo di urbanizzazione; è il lavoro che da vita alla città nel suo farsi e rifarsi quotidiano. In quanto produttore di valore e plusvalore, David Harvey, opportunamente, si è chiesto perché non concentrarsi sulla città piuttosto che sulla fabbrica come principale luogo di produzione di plusvalore, riconoscendone il tipo di proletariato che la abita, caratterizzato da occupazioni precarie e composto dalle “orde dei disorganizzati produttori dell’urbanizzazione (del tipo che si è mobilitato nelle marce per i diritti degli immigrati)” (Harvey, 2012, 131).
Riassumendo, si può dire che le città italiane si sono trasformate negli ultimi venti anni attraverso il dispiegamento dei meccanismi del debito, pubblico e privato; di differenti principi di ordine dello spazio; di nuove modalità di governo delle popolazioni e di produzione delle gerarchie sociali e simboliche e, infine, mediante l’affermazione di nuove forme del lavoro urbano associate ad una nuova struttura spazio-temporale. 
Se la città è divenuta uno spazio di inimicizia, essa è divenuta anche uno spazio potenziale di nuove solidarietà nel quale possono aggregarsi quanti sono definiti come nemici, ma anche quanti non si riconoscono in questa logica di ostilità. L’analisi, pertanto, presenta anche alcune linee di frattura attive nel nuovo ordine urbano, evidenti, ad esempio, nei movimenti per la casa e per la difesa dei beni comuni e della salute collettiva, nelle forme di sindacalismo autorganizzato e negli scioperi nei settori dei trasporti pubblici e della logistica, ma anche nelle molteplici forme di mutuo aiuto realizzate da piccoli gruppi mettendo in comune risorse, spazi, saperi e relazioni sociali.
La città si presenta come ambiente costruito funzionale alla circolazione delle merci, dunque luogo di produzione diffuso, infrastruttura da sottoporre a continua manutenzione, ma anche spazio di socialità, esperienze che si mettono in comunicazione, produzione in comune. In altre parole, la città è l’ambiente necessario alla circolazione ed alla valorizzazione capitalistica, ma è anche l’ambiente in cui i produttori di questa circolazione, il lavoro vivo che produce e riproduce la città si incontra e può riconoscersi come espressione del medesimo progetto o dei medesimi diritti e bisogni negati, andando oltre i dispositivi di separazione vigenti.
Le città italiane hanno assunto, dunque, un carattere ostile per una parte della loro popolazione, ma sono state anche attraversate da movimenti sociali, forme di conflitto sociale, processi di riappropriazione diretta che hanno provato a difendere diritti e bisogni e a costruire forme di convivenza oltre le logiche e le pratiche proprie dell’ordine neoliberista. La crisi di questo ordine, evidente a tutti dal 2008, dimostra che nuove forme di organizzazione sociale sono necessarie, mentre le opposizioni, i conflitti e le resistenze sociali ed individuali registrate negli ultimi anni hanno evidenziato che le proposte alternative ci sono, sono state già elaborate, come è esemplificato dalle proposte sui beni comuni, e richiedono lo spazio politico per potersi sperimentare.

Gennaro Avallone

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