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Peccatori vs Santi, niente di nuovo sul fronte europeo

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Dopo giorni di trattativa nell’Eurogruppo, i ministri delle finanze dell’area euro hanno approvato un accordo di circostanza sulle iniziative comunitarie volte ad affrontare la crisi scaturita dalla pandemia covid-19.

Una sintesi ambigua che permette ai singoli governi di rilasciare dichiarazioni ottimiste sulla tenuta delle proprie posizioni all’interno dell’arena europea, con tedeschi e olandesi che vantano l’assenza della parola eurobond, mentre Conte e Gualtieri sbandierano un paragrafo di chiusura dove si parla di un recovery plan, alludendo alla possibilità che si emettano emergenziali titoli comunitari di debito.
Un teatrino politico-diplomatico che si riaggiornerà il 23 aprile nel Consiglio Europeo, due settimane nelle quali continuare questa battaglia di posizione auspicando che la concorrenza incorra in passi falsi, nella speranza che le forze politiche e le pressioni lobbistiche interne ai paesi concorrenti costruiscano un terreno più favorevole nel prossimo round.

Cosa prevedono i quattro elementi essenziali “dell’accordo”:
I primi due punti erano già noti:

1) Il fantasioso acronimo SURE (State sUpport shoRt-timE) annunciato da giorni dalla Presidente della Commissione Von der Leyen rappresenta una cassa integrazione europea di 100 miliardi, le cui tempistiche e modalità d’accesso sono ancora del tutto oscure.

2) La Banca Europea per gli Investimenti (BEI), il cui capitale è bene ricordarlo è sottoscritto dagli Stati membri, attiva una linea di prestito per le piccole e medie imprese sino ad un ammontare di 200 miliardi. La metà della garanzia di copertura messa a disposizione dalla sola Italia qualche giorno fa.

La sfida com’è noto era sull’ormai celeberrimo MES (fondo salva-stati), sul cui processo di riforma ci eravamo già espressi, e sull’emissione di corona/eurobond.

3) Un’ampia coalizione di ‘peccatori’ interna all’eurozona ha imposto ai ‘santi’ Germania, Olanda, Austria e Finlandia di allentare le loro posizioni sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Fondo che giunge a constare di 240 miliardi, erogabili senza incorrere nelle condizionalità di verifica e supervisione dei conti solo se usati nel finanziamento delle spese sanitarie indotte dalla pandemia (quindi una condizione c’è eccome).
Ogni paese potrebbe richiedere il 2% del proprio PIL, per l’Italia parliamo di 36 miliardi di euro.
Si trasforma uno strumento tecnocratico di tutela del mercato bancario e disciplinamento della finanza pubblica in un fondo ibrido, di compromesso, inutile nel tutelare i debiti pubblici dalle future tempeste speculative.

4) L’ultimo punto è quello a cui facevamo riferimento all’inizio, il recovery plan, composto da non specificati strumenti finanziari innovativi e temporanei (così come proposto dai francesi) il cui ammontare dovrebbe aggirarsi intorno ai 500 miliardi di euro. Questa è la battaglia del prossimo 23 aprile, con delle posizioni di partenza che, ad oggi, sembrano irriducibili, come dimostrano le dichiarazioni del ministro delle finanze olandese Hoekstra.

“C’è una maggioranza contro gli eurobond e la condivisione del debito all’eurogruppo, il testo è deliberatamente vago sugli strumenti finanziari innovativi. Ognuno ci può leggere quello che vuole, ma è importante non ingannare noi stessi: è impossibile leggerci qualcosa che si riferisca ad una condivisione del debito”. Più chiaro di così…

Andando oltre la cronaca di quanto succede nell’Unione Europea, che nella transizione critica si mostra sempre più come ambito di ‘organizzazione dell’ostilità reciproca’ tra le classi dirigenti europee, ci sembra opportuno fornire delle considerazioni nel merito e di metodo su un futuro prossimo mai così instabile.
Il dibattito che si svolge in sede di Eurogruppo ci riguarda poiché definisce il quadro macroeconomico nel quale organizzare la nostra sfida, evitando di prendere parte al tifo di uno scontro interstatale che ha poco a che vedere con le istanze di parte dei subalterni, di quelli che perdono con o senza MES, con o senza eurobond.

La partita sugli strumenti di tutela dei debiti pubblici e sul disciplinamento della finanza pubblica si deve leggere nella ben più ampia crisi del neoliberismo come paradigma economico, sociale e biologico. L’intensificazione della globalizzazione competitiva scaturita dalla ‘grande recessione’ 2007-08’ minaccia la profittabilità dell’intero comparto produttivo europeo e ridiscute la sua gerarchia interna, polarizzandola ulteriormente.
Le posizioni dei ‘santi’ del nord possono essere semplificate in due posture: dal un lato vi è la difesa dei privilegi del paradiso fiscale Olanda, dall’altro c’è un industria tedesca ad alto contenuto tecnologico che già nei due anni pre-covid registrava rallentamenti.
Per quest’ultima, l’Italia rappresenta sia un sub-fornitore di segmenti del valore sia uno sbocco importante di mercato. Il manifatturiero tedesco, soprattutto in seguito alla concretizzazione prossima del processo Brexit, teme di perdere una delle sue maggiori fonti di domanda rappresentata dal sud Europa. In questa dinamica vanno lette le pressioni delle grandi case automobilistiche sulla Cancelleria Merkel di ponderare le mosse nella trattativa, ricercando un accordo e non uno strappo.
L’allargamento dell’UE a est ha permesso alla Germania di creare nuovi convenienti fornitori di segmenti produttivi minacciando e indebolendo la posizione già subalterna dell’industria italiana, ma l’ordo-liberismo tedesco non sembra ancora pronto a scaricare del tutto i mercati del sud Europa.
La speranza tedesca è che l’Italia, con un conflitto sociale assente, accetti di rimanere subordinata, diminuendo quantitativamente la propria quota industriale e sacrificando, se necessario, una parte del proprio elevato risparmio privato.

Il no teutonico alla raccolta sui mercati finanziari di risorse a basso costo (bassi tassi di interesse) tramite l’emissione di eurobond, ed un loro possibile acquisto da parte della BCE, ha almeno tre origini.
Una dimensione di politica interna per la quale la CDU si deve tutelare dall’avanzata della destra tedesca. Poi vi sono due elementi riconducibili al paradigma ordo-liberista: uno è il noto disciplinamento finanziario volto ad evitare un ‘azzardo morale’ dei peccatori del sud che si sentirebbero tutelati dalle tempeste speculative sui propri debiti nazionali.
Mentre un secondo elemento è il meno citato tema della competizione capitalistica intra-UE: l’Italia non deve tornare a rappresentare un pericoloso competitor industriale, non deve attrarre risorse che le permettano di minacciare la gerarchia interna, sottraendosi allo stretto sentiero di rientro del debito redatto nel fiscal compact e imposto dalla leadership tedesca, perché di questo si parla: concorrenza. Nessuno liberalismo win-win, mors tua vita mea.

Vale la pena rispolverare la nostra situazione: l’Italia è un paese che nei quattro anni acuti della ‘grande recessione’ ha perso il 20% della propria capacità produttiva, la cui ‘ripresina’ a partire dal 2014 si è strutturata su un impoverimento della classe medio-bassa, la moltiplicazione di ‘bad jobs’ nel settore terziario, un crollo della capacità contrattuale del fattore lavoro a causa di una disoccupazione strutturale intorno al 10%, quella giovanile da anni intorno al 30-40%, con più 5 milioni di persone in condizione di povertà assoluta e altre 5 milioni sulla soglia della stessa.

Gli inesistenti margini di intervento pubblico italiano sono noti, limitati dalla capacità della rendita e del comparto industriale di evitare ogni forma di redistribuzione della ricchezza attraverso una riforma catastale, tassazione progressiva o patrimoniali. Gli avanzi della nostra bilancia commerciale combinati alla distruzione del welfare, la sanità ne sa qualcosa, non sono riusciti a ridurre un debito pubblico che continua a crescere per il meccanismo perverso della speculazione finanziaria sul nostro rischio-paese, individuato dai mercati finanziari come anello debole della catena eurozona.

L’Italia del Conte 2 non ha più niente da concedere, pena la definitiva affermazione delle forze ‘sovraniste’, formazioni indebolite nei sondaggi, sempre meno strumento in grado di anticipare delle tendenze politiche, ma forti di una coerenza politica nazionalista e di un’ideologia del lavoro fondata sulla disuguaglianza e sullo scaricamento dei costi di produzione e riproduzione su donne e migranti. Un paradigma socioeconomico, che eludendo i nodi biologici ed ecologici, propone la ricetta della crescita ad ogni costo, uno schema vecchio, non all’altezza dell’attuale scontro geo-economico, ma in grado di irretire l’animo della parte più debole del nostro paese che opportunamente si percepisce perdente nello scenario della globalizzazione neoliberista dei flussi incontrollati di capitale, di cui l’UE rappresenta la manifestazione più plastica ed evidente.

Il presidente del Consiglio, uomo sempre più solo al comando, è mal supportato da forze di governo confliggenti che persistono nel non intraprendere nessun sentiero di medio-periodo nella gestione dello scontro economico sia esso interno, regional-europeo, o globale.
I Cinque Stelle sembrano aver perso qualsiasi capacità retorica di azionare il basso contro l’alto, rifiutano ogni presa di posizione fuori dal seminato e governano ossessionati dalla ricerca di compatibilità con l’estabilishment, la cui avversione tanto gli aveva fruttato in termini elettorali.
Il PD, forza avvezza a prendere schiaffi in Europa e disillusa da un possibile successo della trattativa Conte, propone una timida tassa sui redditi più elevati, un’imposta che raccoglierebbe una ‘miseria’ di 1.8 miliardi il cui unico risultato è la creazione di tensione interne e l’insorgenza dell’intero arco parlamentare.

Conte, però, come dimostrano gli attacchi diretti di ieri sera, sembra aver capito che con Salvini e Meloni si deve giocare sporco, mostrandosi in una conferenza stampa infuocata che sa di campagna elettorale.
Mentre contiamo morti e feriti di una tragedia più che prevedibile ci attendono due settimane di guerra di posizione, interna ed esterna, con la destra italiana ed europea che soffia su un’insofferenza socioeconomica che cresce giorno dopo giorno, pronta a rappresentare nuovamente la ‘mossa politica del capitale’ da attivare nel caso in cui i processi di estrazione della ricchezza dovessero essere eccessivamente minacciati dal caos che incombe.
Lo stadio è pieno, prendiamo fiato, dovremo scendere in campo.

 

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