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«Sono legione, non cyberterroristi»

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17 maggio. All’alba la Procura di Roma ed il CNAIPIC fanno scattare l’operazione “Tangodown” contro alcuni presunti membri di Anonymous Italia: 4 ragazzi finiscono agli arresti domiciliari, altri 6 vengono perquisiti mentre decine di computer ed una grande quantità di materiale informatico sono posti sotto sequestro dalle forze dell’ordine. Per tutti gli indagati le accuse sono le stesse: associazione a delinquere finalizzata al danneggiamento di sistemi informatici, interruzione illecita di comunicazioni informatiche e telematiche, accesso abusivo a sistemi informatici. Nelle settimane successive la reazione di Anonymous non si fa attendere: uno stillicidio di attacchi colpisce prima il sito del tribunale di Roma, poi quelli dei sindacati di polizia SIULP e SAP. Infine viene messo a segno il colpo più ghiotto: a finire nel mirino degli hacktivisti è il ministero degli Interni, i cui server vengono violati ed i materiali trafugati pubblicati in rete. Basterebbe forse questo per smentire la versione ufficiale degli inquirenti che, a poche ore dagli arresti, già parlava di “decapitazione del vertice di Anonymous”. Eppure molti altri dubbi circondano l’operato degli investigatori: dal ricorso alla disciplina antiterroristica nei confronti degli attivisti fino alla contestazione del reato associativo che, se confermata in sede processuale, potrebbe costare agli imputati una pena dei tre ai sette anni di carcere. Infoaut ha deciso di vederci più chiaro ed ha intervistato l’avvocato Fulvio Sarzana, giurista ed esperto di diritto dell’informazione, che da più di dieci anni si occupa di tecnologie digitali e di internet.

 

IFF – Non è la prima volta che il network di Anonymous in Italia è oggetto delle attenzioni delle forze di polizia. Già nel luglio del 2011 la procura di Roma aveva disposto decine di perquisizioni contro presunti appartenenti al movimento, contestando i reati di accesso abusivo, danneggiamento a sistema informatico e interruzione di pubblico servizio. Anche allora l’attività investigativa era stata guidata dal procuratore Perla Lori con il coordinamento del CNAIPIC. C’è però un’importante differenza tra i due filoni di indagine: nell’operazione Tangodown agli indagati è stata contestato anche il reato di associazione a delinquere virtuale. Che cosa cambia nei fatti?

L’associazione a delinquere è una sorta di macro reato che va a sovrapporsi ai singoli reati contestati. Per usare una metafora potremmo dire che si utilizza solitamente come una pellicola coprente: quando questa si configura vengono fatte una serie di indagini (per esempio sotto copertura) o una serie di attività (come il ricorso a tecniche di intercettazione anche per i singoli reati) che generalmente non sarebbero ammissibili. Comporta cioè la possibilità di essere indagati, con tutte le conseguenze del caso, solo per aver fatto parte di una certa associazione, a prescindere dalle azioni di cui ci si è resi responsabili. Questo è esattamente quanto accaduto nell’ultima operazione messa in atto dalla polizia postale contro Anonymous Italia: a quanto riferito dalla stampa fino a questo momento uno dei ragazzi coinvolti si limitava ad amministrare una pagina Facebook senza aver mai partecipato in alcun modo agli attacchi veri e propri. Ma la semplice circostanza di contestazione dell’associazione a delinquere virtuale – così definita perché le persone risiedevano in città diverse e perché è difficile provare l’esistenza di un’organizzazione stabile o di una finalità comune espressa in incontri fisici – ha fatto si che soggetti, che magari non avevano partecipato a determinate azioni, venissero invece ricompresi nel reato.

Questo però non è l’unico elemento controverso riguardante l’operazione “Tangodown”. Ho trovato altrettanto singolare il ricorso alla disciplina antiterroristica, ovvero il cosiddetto decreto Pisanu. Si può sindacare o meno sulla legittimità delle azioni di Anonymous ma se si ricorre a norme di questo genere… beh, credo che l’attività terroristica oggetto dell’attenzione degli inquirenti andrebbe in qualche modo esplicitata.

 

IFF – Infatti lei fin dalle prime ore seguite agli arresti ha sollevato forti perplessità proprio sul fatto che gli investigatori abbiano deciso di utilizzare l’articolo 7 bis della legge Pisanu, ricordando come già in passato fossero emersi dubbi sul suo «ambito di operatività». Effettivamente viene da chiedersi per quale motivo sia stata impiegata una norma esplicitamente formulata (citiamo testualmente) «per la prevenzione e repressione delle attività terroristiche o di agevolazione del terrorismo condotte con i mezzi informatici» per contrastare la forma di attivismo messa in campo da Anonymous negli ultimi due anni in Italia.

Teniamo conto del contesto in cui questa norma era stata pensata e scritta, ovvero subito dopo gli attacchi terroristici di Londra del 2005. Allora la sua finalità era quella di reprimere specifiche attività terroristiche, come attacchi cibernetici che avrebbero potuto mettere in crisi le infrastrutture critiche italiane (e di queste infatti dovrebbe occuparsi il CNAIPIC).

Al contrario le attività di Anonymous negli ultimi due anni hanno avuto una funzione dimostrativa. Oltretutto sono state compiute da soggetti che non sono mossi da finalità terroristiche e neppure di lucro: questo a mio giudizio dovrebbe escludere la possibilità di poter configurare come applicabile quella norma. Ecco da dove emergono le perplessità sul concetto di “ambito di operatività”. Il dubbio sorge cioè a monte sulla possibilità che strutture come il CNAIPIC possano effettuare indagini di questo genere. Per poter ricostruire una competenza generale del CNAIPIC dovremmo immaginare che i protagonisti di queste azioni siano stati mossi da finalità distruttive verso le infrastrutture critiche nazionali. Ora, come si fa a considerare la SIAE come un’infrastruttura critica nazionale? Ma anche se parliamo degli attacchi contro Trenitalia… beh stiamo parlando di siti internet, di portali vetrina, non certo di nodi fondamentali dell’infrastruttura di rete italiana né di banche dati private la cui distruzione comporterebbe certamente ricadute di portata estesa.

 

IFF – Torniamo per un attimo sull’associazione a delinquere virtuale. Lei ha sottolineato come più volte tale reato sia stato ritenuto non configurabile sia in sede di giudizio che in sede di merito. Oltretutto la Cassazione in una sentenza del 2005 ha specificato come la determinazione di tale fattispecie richieda in corso di indagine la dimostrazione di alcuni requisti specifici. Tra questi la presenza di un vincolo associativo stabile, una struttura organizzativa, delle procedure di reclutamento e delle prassi di affiliazione. Si tratta di elementi già di loro poco compatibili con le forme di organizzazione che si producono in rete ed in particolare con quella propria di Anonymous, notoriamente modellata da alleanze eterogenee e temporanee, incline ad assumere i connotati e la logica dello sciame piuttosto che quelli dell’avanguardia strutturata intorno ad un centro. Esemplificativo in questo senso è il messaggio che campeggia in tutte le chat di Anonymous: «Regola numero 1: non chiedete come si fa ad entrare in Anonymous». Com’è possibile dunque che la procura di Roma avanzi la contestazione di associazione a delinquere virtuale?

È l’elemento più strano di tutta la vicenda. In conferenza stampa il pubblico ministero ha sottolineato che questa è la prima volta che in Italia viene adottata tale configurazione del reato. Le notizie di stampa affermano che almeno quattro persone avrebbero tentato di trarre profitto dalla loro posizione e dal brand di Anonymous. Eppure gli stessi attivisti non coinvolti nella retata hanno smentito seccamente questa ricostruzione. Oltretutto dagli elementi di cui siamo in possesso sembrerebbe che almeno due degli arrestati non siano stati coinvolti in attività di tipo lucrativo. Questo è di notevole importanza sotto il profilo giuridico perché se fosse vero verrebbe anche a mancare il numero minimo di persone stabilito dalla legge come prerequisito per configurare l’associazione a delinquere (ovvero tre). Viene ipotizzata un’associazione criminale dedita ad attività di cracking dietro compenso. E per chi? Per solo quattro persone? O anche per le altre sei perquisite? Qual’è la prova dello scopo di lucro? Vedremo i fatti d’indagine ma da quanto è apparso fino ad ora sui giornali non vedo elementi di richieste economiche. Per quanto mi riguarda dubito fortemente che ad una vaglio processuale la fattispecie di associazione a delinquere possa reggere. Inoltre soffermiamoci per un secondo ad analizzare i connotati assunti dal fenomeno Anonymous a livello globale e non solo italiano: non esistono capi, non esiste un’organizzazione ad hoc, non esiste una struttura verticistica. Come si può pensare di applicare contro una realtà simile un reato del genere? Vorrei fare un controesempio per essere più chiaro: è come se venisse contestato il vincolo associativo a diverse persone che in diversi paesi del mondo decidessero di aderire ad un netstrike o ad una qualche forma di dimostrazione in rete. È un’ipotesi ad oggi non contemplata dalle modalità di azione penale.

 

IFF- Da almeno 30 anni la tradizione giuridica del nostro paese ha registrato l’emersione di un preciso trend. Per introdurre reati associativi nell’ordinamento le istituzioni tendono a cavalcare eventi sensazionalistici con l’intento di ritagliarci leggi ad-hoc: il risultato è stato quello che potremmo definire come una stratificazione di legislazioni emergenziali prive di una disciplina codificata in senso classico. Ne sono esempio la legge Reale del 1975, quella Cossiga del 1980 e la legge 401 del 1989, inasprita dopo i fatti di Catania che portarono alla morte dell’ispettore di polizia Filippo Raciti. Non siamo di fronte al ripetersi di uno schema simile anche in questo caso? La vicenda degli arresti degli hacktivisti di Anonymous Italia (prontamente apostrofati da alcuni quotidiani come “cyberterroristi”) non potrebbe essere il banco di prova ideale per la messa a punto del reato di associazione a delinquere virtuale?

Purtroppo in Italia a partire dalla legge Reale in poi le finalità emergenziali sono state introdotte con provvedimenti d’urgenza. Il problema è che l’urgenza passa e le leggi restano. Noi abbiamo da più di trent’anni una norma che impedisce di mettersi il casco durante le manifestazioni perché questo può rappresentare un travisamento del volto. Abbiamo avuto norme che impedivano di riempire una bottiglia di benzina, pur avendo un motorino in panne, perché questa poteva essere una molotov. Ora io credo che con il web stiamo riproponendo lo stesso schema. Anche per questo motivo la vicenda processuale di questi ragazzi dovrà essere osservata con attenzione. Consideriamo però che fino al 2008 la giurisprudenza affermava che non c’era la possibilità di inibire l’accesso ai siti internet. Anche la Cassazione in merito si era espressa chiaramente, sopratutto rispetto alla posizione dei provider: non era loro consentito di mettere in atto tale pratica censoria né attraverso il blocco IP né attraverso quello DNS. Poi improvvisamente la giurisprudenza è cambiata e oggi in Italia abbiamo un sequestro mediante provider ogni tre giorni. Un’immagine che è una cartina al tornasole delle trasformazioni in atto. Certo è che se si dovesse arrivare alla definizione giurisprudenziale dell’associazione a delinquere virtuale questo potrebbe significare che persone che non si conoscono e che frequentino un medesimo forum – magari ritenuto sovversivo dalle autorità – potrebbero essere considerate parte di un’associazione a delinquere pur non avendo mai avuto tra di loro alcun contatto al di fuori del web.

 

IFF – Ciò che colpisce dell’operazione contro Anonymous Italia è anche il contesto all’interno della quale essa si colloca. Sul piano internazionale gli ultimi mesi hanno visto un’escalation di tensione (limitata fortunatamente fino a questo momento al j’accuse mediatico) tra Cina e Stati Uniti proprio sull’ambito della cybersicurezza, tema che Obama ha indicato come priorità da conseguire nel suo secondo mandato. Se invece ci limitiamo al panorama italiano gli ultimi mesi sono costellati da segnali allarmanti. Solo per citarne alcuni: le dichiarazioni della presidentessa della Camera Boldrini, del Presidente del Senato Grasso e di altri parlamentari che sembrano indicare un’assoluta continuità con le posizioni espresse dalla classe politica italiana negli ultimi 10 anni in merito ai diritti digitali; la riproposizione del decreto Alfano (ribattezzato “ammazza-blog”) dal pidiellino Costa; il ritorno alla carica da parte di AGCOM per l’approvazione di una norma in difesa del copyright il cui vero obbiettivo sembra essere quello di far contenta la Confindustria e di colpire gli OTT come Facebook e Google; per non parlare del decreto Monti di gennaio sulla protezione cibernetica e la sicurezza informatica nazionale che prevede la possibilità per i servizi di accedere alle banche dati di operatori privati e pubblici senza l’intervento della magistratura. All’orizzonte si profila un giro di vite contro la libertà sul web?

Il web da dieci anni a questa parte è oggetto di una campagna che raccoglie varie istanze per poter penalizzare il dissenso in rete. E non solo in Italia: l’abbiamo visto anche in Turchia in questi giorni con l’arresto di 24 ragazzi che twittavano quanto accadeva a Gezi Park. Se andasse in porto il tentativo di introdurre una legislazione emergenziale il danno sarebbe enorme: questa non riguarderebbe un ambito circoscritto, come era stato per le manifestazioni di piazza negli anni ’70, ma avrebbe una portata molto più estesa ovvero l’intero mondo dell’informazione on-line, sopratutto quella libera. Il tentativo in atto è quello di rendere identificabili – e quindi assoggettabili ad un controllo – i netizen. La fine dell’anonimato sul web rappresenta per le istituzioni uno strumento per porre fine ad attività di carattere illegale. Ma ha come risvolto la possibilità di mettere il bavaglio alla rete limitandone il dissenso che l’attraversa. Ecco perché a mio avviso la vera battaglia che si combatterà sarà sull’anonimato. Oggetto del contendere sarà la stessa idea di libertà in rete e la possibilità di assumere lo pseudonimo e l’identità che più si preferisce (il che oggi è perfettamente lecito e legale). Dall’altra parte della barricata invece troveremo coloro che, a partire dall’abolizione dell’anonimato, vorrebbero trarne pretesto per introdurre un dispositivo di sorveglianza diffusa nei confronti di un medium che oggi è ormai a tutti gli effetti uno dei principali luoghi di socialità oltre che di informazione.

InfoFreeFlow (@infofreeflow) per Infoaut

 

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