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Cosa sono i rankings delle università?

 

 

Il 15 agosto è stata pubblicata la graduatoria nota come Academic Ranking of World Universities (ARWU). L’università Jiao Tong di Shangai segnala l’università di Pisa e “La Sapienza” di Roma come i migliori atenei italiani classificandoli indefinitamente tra il 101° e il 150° posto (il anking classifica 500 istituzioni di alta formazione ma solo delle prime 100 definisce una graduatoria precisa da 1 a 100). Quest’anno sono 19 gli atenei italiani che compaiono nell’elenco di Shangai.

Queste le dichiarazioni del Rettore dell’Università di Pisa Massimo Augello:

 

«A dieci anni dalla nascita della classifica di Shanghai, che è senza dubbio quella più accreditata a livello internazionale possiamo provare a tracciare un bilancio sul medio periodo. Per quanto riguarda l’Università di Pisa, tale bilancio è molto positivo, avendo scalato circa cento posizioni dal 2003, quando era collocata tra il 201° e il 250° posto al mondo, ed essendo diventata da alcuni anni leader assoluta in Italia, insieme alla Sapienza di Roma, dopo aver scavalcato atenei del prestigio di Milano, Firenze e Padova. Non altrettanto può dirsi, in generale, per il nostro sistema universitario, che ha visto diminuire le sue presenze nella top 500 mondiale, passando dalle 23 del 2003 al minimo di 19 di quest’anno, e che da un lungo periodo non conta università tra le prime 100 al mondo. A mio parere, ciò è conseguenza di una politica miope da parte dei governi che si sono succeduti alla guida del Paese, che hanno continuato a tagliare i fondi e impedito di fatto gli investimenti in risorse umane tendenti a un ricambio generazionale. In tal modo il Paese non ha saputo cogliere il rilievo fondamentale che il mondo dell’università e della ricerca ha nella società contemporanea, non riuscendo a rilanciare e valorizzare l’enorme potenziale di ricchezza degli atenei italiani in un contesto mondiale sempre più competitivo e globalizzato”

 

La soddisfazione del Rettore Augello per il buon piazzamento dell’Università di Pisa lascia trasparire alcune tendenze della governance del sistema della formazione. In primo luogo si afferma l’imperativo della competitività. Secondariamente questa competitività è legata all’esplicitazione, come suggerisce tutta la seconda parte della dichiarazione riportata, di una strategia neo-riformista imperniata sulla valorizzazione del mercato della produzione di sapere. Eppure sembra ormai conclamato che non esiste in Italia un riformismo possibile fondato sull’investimento in cultura e formazione e che questa risulti un’opzione velleitaria davanti alle scarse risorse disponibili – o meglio, di quelle messe a disposizione nel contesto di una nuova geografia del lavoro – e all’espulsione del nostro paese dall’area di alta valorizzazione capitalistica nel continente europeo. Ma ciò che conta è in fin dei conti che si crei un mercato. Non importa che l’accesso di massa al mercato della formazione si restringe, almeno l’istituzione dev’essere competitiva.

 

Ranking e Rating

Innanzitutto va sgombrato il campo dalla propaganda da pole position. Va puntualizzato che le classifiche che promuovono l’ateneo pisano pur stentando a qualificarsi come validi strumenti di misurazione scientifica pretendono comunque di fornire una gerarchia delle istituzioni capaci di erogare su scala planetaria i titoli formativi più riconosciuti e maggiormente spendibili, in una parola i più affidabili. Sì, la classifica di Shanghai, “la più accreditata a livello internazionale”, svolge esattamente il ruolo di agenzia di rating con funzioni non dissimili da quelle di Fitch, Standard & Poor’s o Moody’s. Se questi ultimi valutano l’affidabilità degli Stati guidando gli investimenti globali a spese delle popolazioni costrette a subire le restrizioni in materia di spesa pubblica operate per rendere gli Stati più competitivi agli occhi degli investitori, così la classifica di Shanghai valuta l’affidabilità degli atenei guidando gli investimenti sul mercato globale della formazione. Il regime della valutazione si impone su più livelli e su scala nazionale il principio del value for money – accreditarsi nelle classifiche dell’ANVUR, agenzia di valutazione del MIUR, per ricevere finanziamenti statali – regola sempre più pesantemente l’andamento finanziario degli atenei penalizzando un intero sistema e una generazione in formazione.

 

La signora di Shanghai

Ma cosa si misura poi? Vediamo in cosa consiste il primato dell’Università di Pisa e cosa significa in termini di “qualità”. L’ Academic Ranking of World Universities stilato da un’equipe di ricerca dell’università di Jiao Tong di Shanghai si serve di quattro criteri fondamentali di valutazione. La qualità dell’insegnamento è valutata sulla base di quanti docenti di un’istituzione accademica hanno ricevuto un premio Nobel o una medaglia Fields; la qualità del corpo accademico è valutata sul criterio highly cited, ovvero conteggiando quanti membri dell’istituzione in esame figurano nell’ulteriore classifica dei ricercatori più citati, una classifica che si basa su un complesso di soli 5.500 ricercatori nel mondo e che ovviamente soffre della sindrome delle citazioni incrociate tra “firme” già quotate; la produzione scientifica è valutata sul duplice criterio del numero di pubblicazioni su Nature e Science – sì sempre e solo loro… e la produzione scientifica nelle humanities poi? – e sul conteggio bibliometrico del numero di articoli pubblicati dal personale accademico dell’istituzione – perché poi solo gli articoli nelle riviste riconosciute? Le tesi di dottorato, ad esempio? La produttività infine è calcolata dividendo gli indicatori precedenti per il totale dei docenti a tempo pieno dell’istituzione presa in considerazione.

 

Cosa si valuta? L’antagonismo tra valutazione e formazione

Basta dunque leggere il libretto delle istruzioni per far cadere un bel castello di carte. Ma certo non c’era bisogno di ingaggiare una guerra di numeri per capire che le agenzie di rating delle università non si propongono il chimerico obbiettivo quasi ammantato di eroismo scientifico di misurare la sostanza del sapere – in rapporto alle università pensiamo ancora di poter non parlare di quantità di informazioni erogate, queste sì, misurabili, ma di sapere prodotto condiviso e trasmesso entro contesti storici, culturali e sociali. La battaglia culturale intrapresa riguarda piuttosto l’imposizione di una misura fittizia che sappia tradurre in valore la potenza del sapere catturata dalle istituzioni universitarie, associandola ad indicatori impossibili, necessariamente inadeguati, ma comunque quantificabili, per poter orientare investimenti e flussi di capitale nel mercato della global university. In altri termini occorre creare le condizioni di un libero mercato tra i soggetti concorrenti e tra loro in competizione.

Eppure, com’è evidente dalla stessa inconsistenza scientifica di queste classifiche, la materia appare in sé riottosa all’addomesticamento. L’istanza minima di definire un modello condiviso di istituzione accademica, uno standard, la cosiddetta world-class university sulla quale misurare le diverse prestazioni appare più come una dichiarazione di intenti che come un fatto realizzato. Anzi, sempre più lo sforzo di associare la dimensione del sapere socialmente prodotto e riprodotto a indicatori di calcolo numerico definisce un antagonismo profondo tra la valutazione e il rapporto formativo, andando sempre più a impoverire questo riqualificandolo in funzione della possibilità di rilevare un prodotto misurabile tramite gli indicatori stabiliti dalle agenzie di rating.

In questo senso, nel contesto di sistemi di valutazione orientati a valutare e dunque a premiare la ricerca più che la formazione e nel quadro dell’università riformata italiana, si deve aprire una battaglia che contro i decreti AVA e contro un corpo docente ossessionato dal falso dogma della valutazione come criterio di trasparenza impugni il residuo ineliminabile del rapporto formativo: la qualità del metodo didattico. Una qualità non misurabile ma espressione di un eccedente bisogno di formazione – saranno in calo le iscrizioni ma ancora l’università ha un’attrazione di massa – che si cerca di comprimere riducendo a scarsità le risorse con la chiusura di corsi e insegnamenti.

 

Collettivo Universitario Autonomo – Pisa

 

 

 

Per approfondire dalla vasta letteratura sul ranking di Shanghai e sulle classifiche degli atenei segnaliamo i seguenti studi:

 

van Raan A. F. J. “Fatal attraction: Ranking of universities by bibliometric methods”. Scientometrics, 62: 133-145, 2005, consultabile on line al seguente link

Jean-Charles Billaut, Denis Bouyssou et Philippe Vincke, « Faut-il croire le classement de Shangaï ? », Revue de la régulation [En ligne], 8 | 2e semestre / Autumn 2010, mis en ligne le 14 décembre 2010, consulté le 17 août 2013. consultabile al seguente link

Francesco Coniglione “Ranking a go-go e promemoria per il nuovo ministro”, pubblicato on-line su ROARS il 7 maggio 2013 al seguente indirizzo, link consultato il 17 agosto 2013

Rating e competitività delle istituzioni accademiche nel mercato della sapere: uno sguardo all’antagonismo intrinseco tra valutazione e rapporto formativo

 

 

Il 15 agosto è stata pubblicata la nota graduatoria nota come Academic Ranking of World Universities (ARWU). L’università Jiao Tong di Shangai segnala l’università di Pisa e “La Sapienza” di Roma come i migliori atenei italiani classificandoli indefinitamente tra il 101° e il 150° posto (il anking classifica 500 istituzioni di alta formazione ma solo delle prime 100 definisce una graduatoria precisa da 1 a 100). Quest’anno sono 19 gli atenei italiani che compaiono nell’elenco di Shangai.

Queste le dichiarazioni del Rettore dell’Università di Pisa Massimo Augello:

 

«A dieci anni dalla nascita della classifica di Shanghai, che è senza dubbio quella più accreditata a livello internazionale possiamo provare a tracciare un bilancio sul medio periodo. Per quanto riguarda l’Università di Pisa, tale bilancio è molto positivo, avendo scalato circa cento posizioni dal 2003, quando era collocata tra il 201° e il 250° posto al mondo, ed essendo diventata da alcuni anni leader assoluta in Italia, insieme alla Sapienza di Roma, dopo aver scavalcato atenei del prestigio di Milano, Firenze e Padova. Non altrettanto può dirsi, in generale, per il nostro sistema universitario, che ha visto diminuire le sue presenze nella top 500 mondiale, passando dalle 23 del 2003 al minimo di 19 di quest’anno, e che da un lungo periodo non conta università tra le prime 100 al mondo. A mio parere, ciò è conseguenza di una politica miope da parte dei governi che si sono succeduti alla guida del Paese, che hanno continuato a tagliare i fondi e impedito di fatto gli investimenti in risorse umane tendenti a un ricambio generazionale. In tal modo il Paese non ha saputo cogliere il rilievo fondamentale che il mondo dell’università e della ricerca ha nella società contemporanea, non riuscendo a rilanciare e valorizzare l’enorme potenziale di ricchezza degli atenei italiani in un contesto mondiale sempre più competitivo e globalizzato”

 

La soddisfazione del Rettore Augello per il buon piazzamento dell’Università di Pisa lascia trasparire alcune tendenze della governance del sistema della formazione. In primo luogo si afferma l’imperativo della competitività. Secondariamente questa competitività è legata all’esplicitazione, come suggerisce tutta la seconda parte della dichiarazione riportata, di una strategia neo-riformista imperniata sulla valorizzazione del mercato della produzione di sapere. Eppure sembra ormai conclamato che non esiste in Italia un riformismo possibile fondato sull’investimento in cultura e formazione e questa risulti un’opzione velleitaria davanti alle scarse risorse disponibili – o meglio, di quelle messe a disposizione nel contesto di una nuova geografia del lavoro – e all’espulsione del nostro paese dall’area di alta valorizzazione capitalistica nel continente europeo. Ma ciò che conta è in fin dei conti che si crei un mercato. Non importa che l’accesso di massa al mercato della formazione si restringe, almeno l’istituzione dev’essere competitiva.

 

 

Ranking e Rating

 

Innanzitutto va sgombrato il campo dalla propaganda da pole position. Va puntualizzato che le classifiche che promuovono l’ateneo pisano pur stentando a qualificarsi come validi strumenti di misurazione scientifica pretendono comunque di fornire una gerarchia delle istituzioni capaci di erogare su scala planetaria i titoli formativi più riconosciuti e maggiormente spendibili, in una parola i più affidabili. Sì, la classifica di Shanghai, “la più accreditata a livello internazionale”, svolge esattamente il ruolo di agenzia di rating con funzioni non dissimili da quelle di Fitch, Standard & Poor’s o Moody’s. Se questi ultimi valutano l’affidabilità degli Stati guidando gli investimenti globali a spese delle popolazioni costrette a subire le restrizioni in materia di spesa pubblica operate per rendere gli Stati più competitivi agli occhi degli investitori, così la classifica di Shanghai valuta l’affidabilità degli atenei guidando gli investimenti sul mercato globale della formazione. Il regime della valutazione si impone su più livelli e su scala nazionale il principio del value for money – accreditarsi nelle classifiche dell’ANVUR, agenzia di valutazione del MIUR, per ricevere finanziamenti statali – regola sempre più pesantemente l’andamento finanziario degli atenei penalizzando un intero sistema e una generazione in formazione.

 

 

La signora di Shanghai

 

Ma cosa si misura poi? Vediamo in cosa consiste il primato dell’Università di Pisa e cosa significa in termini di “qualità”. L’ Academic Ranking of World Universities stilato da un’equipe di ricerca dell’università di Jiao Tong di Shanghai si serve di quattro criteri fondamentali di valutazione. La qualità dell’insegnamento è valutata sulla base di quanti docenti di un’istituzione accademica hanno ricevuto un premio Nobel o una medaglia Fields; la qualità del corpo accademico è valutata sul criterio highly cited, ovvero conteggiando quanti membri dell’istituzione in esame figurano nell’ulteriore classifica dei ricercatori più citati, una classifica che si basa su un complesso di soli 5.500 ricercatori nel mondo e che ovviamente soffre della sindrome delle citazioni incrociate tra “firme” già quotate; la produzione scientifica è valutata sul duplice criterio del numero di pubblicazioni su Nature e Science – sì sempre e solo loro… e la produzione scientifica nelle humanities poi? – e sul conteggio bibliometrico del numero di articoli pubblicati dal personale accademico dell’istituzione – perché poi solo gli articoli nelle riviste riconosciute? Le tesi di dottorato, ad esempio? La produttività infine è calcolata dividendo gli indicatori precedenti per il totale dei docenti a tempo pieno dell’istituzione presa in considerazione.

 

 

Cosa si valuta? L’antagonismo tra valutazione e formazione

 

Basta dunque leggere il libretto delle istruzioni per far cadere un bel castello di carte. Ma certo non c’era bisogno di ingaggiare una guerra di numeri per capire che le agenzie di rating delle università non si propongono il chimerico obbiettivo quasi ammantato di eroismo scientifico di misurare la sostanza del sapere – in rapporto alle università pensiamo ancora di poter non parlare di quantità di informazioni erogate, queste sì, misurabili, ma di sapere prodotto condiviso e trasmesso entro contesti storici, culturali e sociali. La battaglia culturale intrapresa riguarda piuttosto l’imposizione di una misura fittizia che sappia tradurre in valore la potenza del sapere catturata dalle istituzioni universitarie, associandola ad indicatori impossibili, necessariamente inadeguati, ma comunque quantificabili, per poter orientare investimenti e flussi di capitale nel mercato della global university. In altri termini occorre creare le condizioni di un libero mercato tra i soggetti concorrenti e tra loro in competizione.

Eppure, com’è evidente dalla stessa inconsistenza scientifica di queste classifiche, la materia appare in sé riottosa all’addomesticamento. L’istanza minima di definire un modello condiviso di istituzione accademica, uno standard, la cosiddetta world-class university sulla quale misurare le diverse prestazioni appare più come una dichiarazione di intenti che come un fatto realizzato. Anzi, sempre più lo sforzo di associare la dimensione del sapere socialmente prodotto e riprodotto a indicatori di calcolo numerico definisce un antagonismo profondo tra la valutazione e il rapporto formativo, andando sempre più a impoverire questo riqualificandolo in funzione della possibilità di rilevare un prodotto misurabile tramite gli indicatori stabiliti dalle agenzie di rating.

In questo senso, nel contesto di sistemi di valutazione orientati a valutare e dunque a premiare la ricerca più che la formazione e nel quadro dell’università riformata italiana, si deve aprire una battaglia che contro i decreti AVA e contro un corpo docente ossessionato dal falso dogma della valutazione come criterio di trasparenza impugni il residuo ineliminabile del rapporto formativo: la qualità del metodo didattico. Una qualità non misurabile ma espressione di un eccedente bisogno di formazione – saranno in calo le iscrizioni ma ancora l’università ha un’attrazione di massa – che si cerca di comprimere riducendo a scarsità le risorse con la chiusura di corsi e insegnamenti.

 

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