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Il divenire hub della città globalizzata

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Attorno al Cinquecento dC i mercanti veneziani usavano il simbolo @ come un’unità di misura chiamata anfora. Uno slittamento semantico che astraeva dall’antico contenitore per il trasporto di merci un’idea di peso e capacità – una mossa già orientata verso l’astratta equivalenza del valore di scambio. Se per lo studio delle civiltà antiche proprio il ritrovamento sottomarino di navi piene di anfore è una delle fonti più preziose, quando gli storici del futuro si troveranno a indagare la nostra epoca porteranno alla luce dal fondo del mare quelle che sono le moderne anfore, i container – parallelepipedi metallici con le più svariate cromie, più incisivi che i trattati di libero commercio per consentire la globalizzazione.

Oggi i mari sono costantemente attraversati da grandi autostrade in cui navi cargo sempre più giganti conducono ogni tipo di merce. La differenza rispetto al passato non è tuttavia solo quantitativa. Le anfore venivano svuotate e il loro contenuto smistato una volta giunte nei porti di destinazione. I container invece sono creati per essere trasportati senza soluzione di continuità da una nave a un treno a un camion a un aereo. Questa flessibilità tecnica dello spostamento sfuma la differenza tra l’acqua (storico elemento della circolazione) e la terra, espandendo la capacità di commercio in maniera inedita.

Il mare è sempre più uno spazio urbanizzato, mentre i territori e le aree urbane divengono infrastrutture logistiche predisposte per un crescendo di rapidità nella circolazione delle merci. È proprio quest’ultimo movimento che qui si indaga, partendo dall’ipotesi che questa matrice logistica di razionalità sia uno dei vettori che con maggiore forza sta simultaneamente disarticolando ed estendendo l’urbano su tutto il pianeta.

. L’esistenza delle cinte murarie ha formato l’idea che le città del passato fossero corpi chiusi. In realtà le mura proteggono ma al contempo accolgono, e le città da sempre nascono come entità politiche all’interno di sistemi economici aperti che si dipanano su ampiezze che eccedono radicalmente i confini urbani. Per la civiltà greca, ad esempio, il mare gioca una decisiva funzione di raccordo e discontinuità con la forma urbis, finendo esso stesso per rappresentare la città. La città non è mai immobile. Senza l’apporto del forestiero non può che decadere. Può inoltre perdurare unicamente a partire da una rete composita di altre città e di relazioni “logistiche” che consentano l’afflusso di risorse (idrauliche, di materie prime, alimentari…). Questa matrice relazionale, interconnessa e circolante dell’impianto urbano, conduce nelle sue molteplici provenienze storiche sino all’urbanizzazione planetaria contemporanea, che conferma che le città sorgono ed evolvono dal confluire di donne e uomini, abitazioni e vie di comunicazione.

In questo senso, forzando un po’ il discorso per poter aprire il campo analitico, si potrebbe sostenere che città e globalizzazione non rappresentino altro che due facce della stessa medaglia. O quantomeno: i processi di mutamento urbano e il definirsi del globale indicano percorsi intimamente intrecciati e mutualmente retroagenti. Evidentemente le città da sole non bastano tuttavia per strutturare stabilmente sistemi logistici e di scambio. Nell’antichità sono stati gli Imperi a costruire le grandi infrastrutture, mentre in epoca moderna sono gli Stati a organizzare i propri territori infrastrutturalmente, ossia logisticamente. Con la nascita ottocentesca della metropoli, che distrugge la città precedente, le cose però si complicano.

Mentre simbolicamente si “chiude” la frontiera americana con il congiungimento dei due tronconi della prima ferrovia transcontinentale nel 1869, sono gli spazi urbani a divenire progressivamente zone di frontiera. Nel 1863 apre la prima linea metropolitana di Londra, riportando all’interno del tessuto urbano la tecnologia ferroviaria. Nel 1865 a Vienna viene inaugurata la Ringstraße, un viale circolare che sorge dall’abbattimento delle mura medievali e apre a una nuova organizzazione urbana i cui confini si moltiplicano sia all’interno che all’esterno delle nuove mura piatte rappresentate dalla circonvallazione. Sono questi gli anni in cui Parigi viene completamente ridefinita dall’opera di Von Haussmann, e risale al 1867 la pubblicazione della Teoría general de la urbanización di Idelfonso Cerdà, autore del Piano urbanistico di Barcellona. Questo testo seminale che conia il concetto di “urbanizzazione” fa frequente ricorso alla metafora del mare nella descrizione dell’urbe. Questa è per Cerdà un «mare magnum» espansivo che ha al cuore l’idea di vialidad, ossia della circolazione. L’urbanizzazione rappresenta uno spazio fluido che trascende di continuo i propri limiti, e ha per Cerdà la funzione di sostenere un progetto politico teso all’unificazione dell’umanità all’interno di una società globale interconnessa entro una urbe mondiale.

Questa nuova materia urbana, un territorio terracqueo, segue una razionalità di tipo logistico. Che si tratti di abbattere le mura viennesi ormai divenute solo ostacoli al movimento, che si sventrino i quartieri popolari parigini per impedire l’erezione di barricate, che si taglino gli edifici storici londinesi con le ferrovie o che si disegni una griglia espansiva per trasformare Barcellona, è una logica funzionale alla massimizzazione della velocità del movimento e dello spostamento quella che si impone. Lungi dall’essere un elemento tecnico, questo pensiero logistico è espressione di una sua propria politica, una politica urbanistica che assume a seconda dei contesti tratti più egualitari come in Cerdà o maggiormente autoritari come in Haussmann – ma all’interno di una matrice comune.

Tuttavia questi processi sono tutt’altro che lineari o interamente governati. La metropoli ottocentesca sorge anzi soprattutto come sistema dialettico e conflittuale, di essa non si comprende appieno la natura se non si guarda anche al lato delle istanze di potere sulla città espresse dall’afflusso al suo interno di numeri sempre crescenti di poveri e dalla nascente classe operaia. Ad ogni modo le metropoli sono la molla che sostiene e spinge la “prima globalizzazione”, il vertiginoso aumento degli interscambi negli ultimi tre decenni dell’Ottocento e fino alla Prima guerra mondiale.

. L’intreccio tra grandi movimenti di persone, vie di comunicazione, produzione e commercio capitalistici ha modo di sperimentare ex novo la costituzione delle metropoli a un massimo grado di libertà sul suolo nordamericano. Si prenda un esempio tra i meno noti.

Nel 1867 viene incorporata negli Stati Uniti la nuova città di Minneapolis, nel momento in cui questo piccolo villaggio viene raggiunto dalla linea ferroviaria. Il nome della città combina la parola mni, che per i Dakota Sioux significa “acqua”, e il greco polis. La straordinaria presenza in questo territorio di corsi d’acqua le dà il nome e ne decreta la crescita. L’utilizzo che si riesce a realizzare dell’energia idroelettrica è talmente significativo che tra il 1880 e il 1930 la città è descritta come «the greatest direct-drive waterpower center the world has ever seen». Ma i “primati” di Minneapolis non si esauriscono qui. Oltre a un’importante industria del legname, acquisisce il soprannome di «capitale delle industrie molitorie» perché fino ai primi anni Trenta è il fulcro della regione con la maggior produzione mondiale di grano, nonché sede delle prime multinazionali del settore.

Ma Minneapolis è importante soprattutto perché la sua economia di esportazione la rende uno dei più importanti centri di trasporto degli Stati Uniti. Migliaia di camionisti sono impiegati nell’industria dello spostamento prodotti della città, senza nessun tipo di organizzazione sindacale. È il combinato di questi due fattori che fa affluire alcuni gruppi di agitatori sindacali. In precedenza questi militanti intervenivano per tutto il Midwest, ma analizzando i flussi della movimentazione delle merci comprendono che Minneapolis può essere un decisivo punctum dolens: bloccarla causerebbe l’interruzione della produzione in tutta la regione e oltre. Raffigurano il ruolo di Minneapolis in questa organizzazione produttiva con una metafora semplice: quella del centro di una ruota all’interno del quale si inseriscono i raggi. In inglese tale concetto si esprime con la parola hub.

Per bloccare l’hub-Minneapolis il 16 maggio del 1934 inizia uno sciopero generale che si conclude tre mesi dopo con l’accoglimento delle richieste degli scioperanti. La vittoria dello sciopero è possibile anche perché il sistema di svuotamento dei TIR è estremamente lento, essendo necessario scaricare ogni singolo collo: anche interruzioni brevi provocano incisivi effetti a cascata. Non a caso è proprio in questi anni, nel 1937, che al camionista Malcolm McLean viene un’idea: fermo in una lunga attesa prima di poter spostare il contenuto del proprio camion su un battello, intuisce l’enorme risparmio di tempo che si sarebbe ottenuto se fosse stato possibile staccare l’intero rimorchio dal camion invece che dover spostare ogni singolo collo.

Il container nasce per trasportare i bagagli dei passeggeri di lusso nei treni tra Londra e Parigi. Ma nei primi anni Cinquanta McLean ne propone un uso commerciale, come elementi separabili dai camion e impilabili nelle stive delle imbarcazioni. La Ideal X, una vecchia nave petroliera, salpa il 26 aprile del 1956 dal porto di Newark con a bordo il primo carico di container. Quarant’anni dopo il 90% del commercio mondiale si muoverà in container spostati da navi-cargo disegnate per trasportarli. La prima nave costruita come porta-container salpa l’anno successivo, e prende il nome di Gateway City. Per le strane coincidenze che spesso regala la storia, proprio quell’anno si conclude la demolizione del Gateway District, l’area centrale di Minneapolis, decaduta dopo la Grande depressione e la Seconda guerra mondiale.

Il successo di Gateway City segna una svolta. Il container consente infatti lo sviluppo dell’intermodalismo, minimizzando le interruzioni durante il viaggio della merce tra navi, camion, aerei e treni. Si semplifica l’intero processo logistico rivoluzionando il trasporto delle merci e il commercio internazionale, riducendo in maniera decisiva la necessità di forza-lavoro. Questo fattore provoca una serie di scioperi all’interno della rapida espansione dell’industria dello shipping container nei primi anni Settanta, ma i tempi sono cambiati rispetto agli anni Trenta e l’esito della mobilitazione è negativo. McLean nel frattempo fonda la Mare-Terra, la Sea-Land’s international services, che nel 1999 sarà venduta alla Maersk, oggi la più grande container shipping company del mondo.

Se il nome di Henry Ford è assunto come simbolo del tipo di industria che, usando la catena di montaggio per la produzione di massa, contraddistingue la prima metà abbondante del Novecento, McLean merita di essere menzionato tra coloro i quali contribuiscono a superare il fordismo o quantomeno ad innovarlo radicalmente – consentendo l’organizzazione di una gigantesca fabbrica senza pareti su distanze inedite. Con la trasformazione logistica indotta dal container le economie si riorganizzano avendo un peso sempre più sbilanciato sull’ambito della distribuzione e circolazione piuttosto che su quello della produzione diretta, potendosi estendere ad libitum geograficamente. È a partire dagli anni Settanta che inizia a strutturarsi un nuovo ciclo di potente aumento degli scambi e di interconnessione delle economie su scala mondiale. Questa seconda globalizzazione si sviluppa anche a partire da specifiche politiche logistiche.

La logistica coordina tempi e spazi che portano in luce cartografie diverse da quelle geopolitiche. I confini statuali sono sempre più mobili e indefinibili con tratti lineari (si pensi al Mediterraneo come confine dell’Unione Europea), e sul globo gemmano nuove forme che prendono il nome di corridoi, enclave, zone speciali, fronti mobili, città-stato. Ma è soprattutto l’aumento repentino dell’urbanizzazione a risultare lampante, replicando e superando quanto avvenuto con l’affermarsi della metropoli.

Mentre gli architetti costruiscono piccoli frammenti urbani, disegnando edifici che dovrebbero avere un significato più generale, mentre gli urbanisti lavorano su ridotti segmenti di città usando come base Google maps ed elaborando i dati forniti in sequenza dai droni, la dynamis urbana si esprime oggi attraverso alcune tendenze sotterranee la cui intelligenza sembra essere progressivamente in mano alle grandi aziende della logistica e a quelle della cosiddetta Retail revolution. Le aziende dedite alla distribuzione, usando lato sensu il concetto, sono infatti sempre più rilevanti. Per comprendere il loro peso basta guardare la classifica dei maggiori datori di lavoro globali. Tra i primi dieci attori si collocano soprattutto comparti statali come il Dipartimento della difesa statunitense e al decimo posto si colloca la Foxconn, multinazionale Taiwanese che produce manifattura elettronica. Le uniche altre due aziende private in classifica sono Walmart, la catena statunitense di supermercati che si posiziona terza con oltre due milioni di dipendenti, seguita da McDonald’s.

Di questi due modelli si sta assistendo oggi a uno stiramento che li diffonde nelle città. Rispetto al secondo si potrebbe prendere come esempio l’esponenziale aumento negli ultimi anni del food delivery, la consegna di pasti a domicilio, con aziende come JustEat – la cui quotazione continua a crescere in borsa assieme al suo fatturato da centinaia di milioni di sterline, e il cui logo inizia a riempire le strade appiccicato come adesivo sulle vetrine dei ristoranti, indossato dalle pettorine dei rider o impresso sui loro mezzi di trasporto. Ma ancora più interessante è Amazon. Il più grande supermercato online del mondo ha lanciato a novembre a Milano e hinterland PrimeNow, un servizio che garantisce qualsiasi delivery (consegna) in massimo un’ora. L’implementazione di tale sistema implica notevoli capacità di processo, una logistica snodata in una miriade di punti di transito, e una grande velocità di consegna con una flotta di lavoratori sempre disponibili. Per poter realizzare questo meccanismo Amazon necessita di una rete e di infrastrutture offline. Il materializzarsi di questo sistema si articola infatti a partire da grandi centri di raccolta e smistamento nelle periferie, dove si svuotano i container, fino ai magazzini “di prossimità” per le consegne immediate. Gli sciami di fattorini che seguono i click di questa nuova logistica metropolitana sono a loro modo emblemi del mondo del lavoro contemporaneo, che comunque Amazon sogna di eliminare sperimentando mirabolanti consegne a domicilio via drone. I furgoni con lo stemma Amazon PrimeNow sfrecciano per le vie di Milano, mentre negli Stati Uniti Amazon si è addirittura dotata di venti Boeing 767 presi in leasing e ha lanciato servizi di consegna Flex (una specie di Uber per le consegne, dove ognuno può fare il fattorino); in Germania è in trattativa per acquisire un aeroporto e in Francia ha comprato il corriere espresso Colis Privé. È in altre parole in corso una mutazione da Internet company a Logistics company, con evidenti ricadute urbane.

Questa logica della localizzazione e del just in time guida oggi una politica urbanistica globale che non è più nelle mani di attori statuali o di detentori di saperi scientifici specifici. Si proietta una tensione al divenire-hub delle città, nuovi grandi dispositivi per l’immediatezza del consumo – propensione inscritta nei codici di sviluppo storico della metropoli ma che pare oggi impennarsi su intensità inedite. Questa logica logistica che ridefinisce strade ed edifici è dunque un buon punto di osservazione per tentare di decrittare l’attuale geroglifico dell’urbanizzazione globale, come si è sinora tentato di dimostrare. È tuttavia necessario assumere le giuste cautele, per non ricadere nei bagliori enfatici dell’ideologia della smart city che guida questi processi. Gli apparati logistici indubbiamente informano la nouvelle raison du monde ma non rappresentano modelli autopoietici. I nuovi disegnatori logistici dell’urbano, pur all’interno di lessici ed immaginari tecnici, sono portatori piuttosto di una politica della città che è continuamente contestata e agita in maniera differente da una miriade di altri soggetti, sia nello specifico del rapporto di lavoro che nelle pratiche abitative dei territori metropolitani. Inoltre l’urbanizzazione si definisce anche con iniziative molecolari e con le pratiche informali delle povertà.

Il sogno di un governo logistico dei processi urbani, rinnovata forma della politica urbanistica, si scontra di continuo con la matrice eterogenea, polemologica della materia urbana. Se ormai tutte le città sono città globalizzate, catturate tra località e una tensione al divenire quartieri di un’unica città-mondo, è proprio perché sono attraversate e costituite da fenomeni contraddittori. Connesse nell’infosfera, plasmate da dinamiche globali come la gentrification, segnate da conflitti, luoghi di transito e approdo delle migrazioni, paesaggi monotoni di automobili, catene di negozi multinazionali e supermercati, gesti architettonici in sequenza, in cui circolano di continuo immaginari e segni, queste entità in metamorfosi che continuiamo a chiamare città si rivelano sempre più come campi processuali aperti e incerti. Scenario di una adveniente guerra civile planetaria per pezzi, molecolare, diffusa, a bassa intensità, luogo di continua produzione di nuove inimicizie nonché di amicizie, patti e alleanze, la città globalizzata – bizzarro impasto politico di logiche terresti, marittime e aeree – pare sull’orlo di un processo che ne porta all’estremo i tratti globali col suo divenire-hub mentre al contempo è circondata dall’aura crepuscolare che sembra stia conducendo all’imbrunire della seconda globalizzazione.

Nei prossimi anni alcune delle tendenze in atto aumenteranno i loro effetti, in cui lo scontro tra il continuo aumento delle diseguaglianze urbane e le logiche logistiche e finanziarie dell’estrazione di valore a rete renderanno più espliciti i tratti di politicità della produzione logistica dell’urbs, di fronte a una civitas sempre più divisa. In questa direzione analizzare simultaneamente i processi urbani e logistici può essere un buon angolo visuale, considerando che molto del futuro della città attuale si gioca sulla loro implementazione e realizzazione. Città globalizzata, urbanizzazione, logistica, seconda globalizzazione: simul stabunt simul cadent.

 

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