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Un’intervista dall’Agrocaleno Ribelle

Questa intervista ci da uno sguardo ampio su quella che è la situazione delle lotte nell’Agrocaleno, ma consegna anche spunti, suggestioni e possibilità nel guardare alla militanza in uno dei molti Sud italiani. Ci parla di alcune questioni di metodo nell’intervento politico tenute aperte e sperimentali nel confronto con un territorio con le sue specificità, ma nel contempo utili a una riflessione più ampia su un approccio antagonista all’oggi. Nella narrazione della materialità delle lotte vengono attraversati il nodo dello sviluppo e del sottosviluppo, la questione dell’illegalità e della legittimità, la formazione di un’identità collettiva e del rovesciamento delle relazioni di una comunità in relazioni di lotta e conflitto. La soggettività come motore delle lotte, come pensare l’organizzazione, come costruire internità alla composizione. Molti altri sono i nodi che vengono lasciati aperti con uno sguardo alle tendenze ed all’emergere complessivo di bisogni e desideri determinati dalla crisi e dall’impoverimento, di possibili fronti di lotta inediti sulla fiscalità, sul reddito e sulla vivibilità complessiva dei territori.

 

Come ti sei avvicinata all’esperienza Cales, quali sono stati i passaggi che ti hanno affascinato di questo progetto?

D. Inizialmente c’è stato un avvicinamento al centro sociale, al Tempo Rosso, che è nato sicuramente durante le lotte contro la centrale a Biomasse a Sparanise e poi alla fine l’idea dell’occupazione è nata per l’esigenza di riappropriarci di spazi per la collettività. Ognuno di noi si è avvicinato diversamente, portando idee, convinzioni e capacità differenti e mettendole in gioco in questo progetto.

 

Come è nata l’idea dell’occupazione e come si inserisce nel contesto più generale dei conflitti in corso in questo momento o passati nell’Agrocaleno?

M. Diciamo che l’esperienza del Cales nasce per com’è all’oggi e per come si sta dando più che altro in autonomia, da sola. E’ esigenza che nasce da due fattori determinanti: il primo è quello di uscire dall’ottica del centrosocialismo anni novanta. L’esperienza di un centro sociale l’avevamo già da quindici anni con il Tempo Rosso, era importante cercare di capire come costruire all’interno dei territori, dei paesi, spazi di socialità che avessero più capacità attrattive e complessive rispetto a quella che era la peculiarità del centro sociale, quindi quasi esclusivamente orientato a un settore di proletariato giovanile all’interno dei paesi. Il secondo fattore era la necessità di fare in modo che alcune relazioni nate dalle lotte contro la centrale a Biomasse di Sparanise e in difesa dei territori si potessero riversare sul piano della crisi, quindi della riappropriazione, dell’apertura di spazi che fossero una risposta all’austerity. Quindi Cales nasce per questo, per essere laboratorio delle lotte, dei comitati di lotta e insieme centro dove si sperimentano forme di resistenza alla crisi e di attacco alla controparte rispetto a quelli che sono gli effetti della crisi su questi territori. Le mobilitazioni contro la Tares rientrano dentro questo tipo di ragionamento. E’ stato qualcosa che abbiamo ricercato fortemente, cioè il fatto di saper riversare le forze e le esperienze che si erano accumulate nelle lotte a difesa dei territori sul piano della crisi. L’abbiamo ricercato certo, ma la cosa peculiare è stata che più che costruirlo questo passaggio, ci siamo fatti trovare il più pronti possibile quando in autonomia si è dato sul territorio.

 

D. Mi collego a quello che è stato detto prima, il Cales dal mio punto di vista è stato uno strumento in grado di avvicinare un target di persone diverse da quelle che avrebbero frequentato un centro sociale. Questo senza sottrarsi però alla necessità concreta di provare a riconoscere i bisogni dei territori e organizzarli contro alla crisi e alla mancanza di servizi.

 

Questione Tares, quale era la composizione che ha partecipato a queste mobilitazioni, quali i nodi interessanti a vostro parare, e, nonostante la vicenda non si sia ancora conclusa, quali le tendenze, le prospettive, le forme di esondazione che secondo voi potrebbero mettersi in moto sui territori?

M. La composizione è uno dei dati più interessanti da cogliere. Partiamo dal presupposto che il movimento che c’è a Pignataro in questo momento e che si cercherà di estendere a tutto l’Agrocaleno, data l’attenzione che la vicenda ha suscitato in altri paesi, è stato preceduto dalla battaglia di Giugliano. Bene o male la dinamica è stata simile, la stessa gente che si trovava a parlare nelle assemblee contro l’inceneritore si è trovata a discutere della questione della Tares e degli aumenti (si consideri che a Giugliano prima delle lotte si pagava la Tares più alta di Italia a fronte del disastro ambientale delle ecoballe e della minaccia dell’inceneritore). Lo stesso è successo più o meno a Pignataro, noi nell’immediato non eravamo pronti, non ci aspettavamo che proprio sulla Tares si potesse giocare una battaglia simile a quella, credevamo che l’amministrazione sarebbe stata più attenta, e invece ci è scoppiata in mano la mobilitazione. La composizione sociale è molto variegata, può assomigliare a quella composizione spuria che si è data a Torino il 9 dicembre nelle piazze dei cosidetti forconi. Molti strati sociali subalterni, proletari, soprattutto del centro storico del paese, quelli che abitano ai confini con la casa comunale, quindi anche in quell’ottica è stato molto importante il controllo del territorio da parte delle fasce più deboli in occasione dell’assedio al Comune di Pignataro. Dall’altra parte c’è pure una classe media che non riesce più a pagare, tanti piccoli commercianti, vendita al dettaglio che negli ultimi anni è stata particolarmente massacrata dalla nascita di grandi centri commerciali, sono piccole botteghe di paese.

Una composizione molto varia che noi inizialmente abbiamo visto con molta titubanza e attenzione perchè ci sembrava potesse essere facile da parte della controparte innescare un gioco di divisioni. Tanto è vero che il sindaco di Pignataro ha provato ad indire un tavolo unicamente con i commercianti che fortunatamente con una grande presa di responsabilità e dignità lo hanno rifiutato. Questa composizione per alcuni versi era già stata anticipata nelle lotte ambientali, nei comitati ci trovavamo di fronte diversi soggetti sociali, diverse appartenenze e provenienze sociali. Per questo si sta cercando di concentrarsi sulla vertenza specifica della Tares, ma senza schiacciare tutto unicamente su questo fronte, dato che questa vicenda porta con se direttamente la volontà di generalizzare, di esondare e di parlare anche di altro. Ad esempio molti insolventi in questo contesto di lotta sono usciti dal muro della vergogna che li silenziava e hanno palesato la difficoltà nel pagare le tasse aprendo un altro possibile fronte di mobilitazione. Quello che abbiamo in mente è uno strumento aperto popolare di lotta, di movimento che aggredisca tutto il piano della crisi sul punto di vista locale e comunale. Questo per dire che le assemblee nell’ottica della costruzione di soggettività antagonista sul territorio le abbiamo sempre pensate nella prospettiva della costruzione di consigli popolari, utilizzando anche l’immaginario dell’Agrocaleno come Zona Ribelle, quindi di una nuova istituzionalità popolare dal basso, di lotta che abbia la capacità di decidere, di determinare dei passaggi sul territorio. Questo è quello che sembra star succedendo a Pignataro, un’assemblea in piazza di duecento, trecento persone su cinquemila abitanti, in pratica almeno una persona a nucleo familiare, che si è presa la briga di decidere che la controparte doveva darci un consiglio comunale aperto, dove andare a discutere, a portare proposte, a piegare l’amministrazione su questo piano. I compagni dentro queste mobilitazioni sono presenti, ma crediamo che anche per una questione di background storico che sta alle nostre spalle, un background di lotte dal ’94 ad oggi a partire da quelle contro la raffineria, si è costruita un patrimonio soggettivo ed una riconoscibilità tale che dopo il parapiglia di fronte al Comune ha portato alcune vecchiette addirittura a venire a cercarci per riesumare la memoria delle battaglie passate. Queste assemblee, questi “consigli popolari” ci hanno dato la possibilità d’altro canto anche di fare inchiesta sulla composizione che le attraversava. L’esempio che accennavo prima degli insolventi, immaginando reti di autodifesa, di resistenza, di solidarietà contro distacchi e pignoramenti. Insomma la vicenda per molti versi si sta generalizzando da sola, come esigenza di chi sta vivendo questa lotta, certo con le dovute cautele e differenze. Consideriamo che stiamo ragionando da un’ottica privilegiata, di laboratorio, micro che ci permette di capire veramente nel profondo quali sono le corde della comunità, cosa si sta muovendo, le aspettative, i bisogni. Una visuale probabilmente più facile rispetto a un tessuto metropolitano dove forse è più complicato interfacciarsi con quartieri di centomila abitanti.

 

Nella storia delle lotte recenti su questo territorio la questione ambientale assume una centralità. Le nuove mobilitazioni che si stanno dando arricchiscono il quadro parlando direttamente dei bisogni, di salute, reddito, qualità della vita. Quanto questo nuovo ciclo è figlio di una maturazione delle lotte passate? Quanto ha influito il sedimentarsi di militanti, attivisti, forme di attivazione, pratiche di lotta? C’è stato il formarsi di uno sguardo antagonista un po’ più generalizzato sul territorio?

D. Parlo a livello personale, la militanza per me è partita proprio dalla questione ambientale, cercando di comprendere, di informarmi sulle logiche speculative che si muovevano nel territorio in cui mi trovo. Questo è andato ad intersecarsi con la fase di crisi in cui siamo, con la difficoltà a resistere e con il bisogno di organizzarsi per farlo. La mancanza di una soggettività si sentiva notevolmente, la necessità di provare anche ad organizzare alcuni aspetti della vita in maniera diversa rispetto a quella presente si è palesata sul piano cittadino. Trovare un posto, della gente con cui mettersi in rete, mettersi a lottare in prima persona ha permesso a molti di provare a realizzare i propri bisogni, dove prima magari si trovavano passivi.

M. Anch’io volevo partire da questo. Il background di lotte che abbiamo è importantissimo, parla di radicalità, del discorso della rottura della legalità, della legittimità delle lotte, occupazioni di autostrade, di terreni della camorra per impedire le discariche. E’ importante perchè è fatto di comunità, però molte volte è stato fatto pure di nimbysmo, di particolarismo, si è arenata all’interno di circuiti istituzionali. Le lotte locali e campane in generale non è che abbiano avuto sempre una fisionomia prettamente anticapitalista in vent’anni di storia. Questo è un apporto che abbiamo sempre cercato di mettere noi. La necessità di far emergere come sia la messa a profitto dei territori quella che sta avvenendo, cioè come sia il capitale che gioca con le vite, con la nostra salute. Far emergere quindi che queste lotte sono di per sé anticapitaliste perchè si vanno a scontrare con gli interessi della controparte. Non solo e non più sul posto di lavoro, nella catena di montaggio, nei call center, ma anche nel posto dove abiti, nell’acqua che bevi, nell’aria che respiri, nelle verdure e nel cibo che mangi. E’ trarre profitto dalla tua vita e dai tuoi territori. Quindi è stato qualcosa che abbiamo tentato di mettere sempre con forza all’interno del nostro discorso e soprattutto nei discorsi che si facevano nei comitati, nel discorso complessivo che c’è stato all’interno delle lotte, dei presidi, delle occupazioni. Non sempre è stato facile, è chiaro, ci sono stati tanti momenti difficili per queste lotte, tanti momenti di arretramento, tante sconfitte come la centrale a turbogas di Sparanise, però abbiamo sempre cercato di dire con chiarezza che queste lotte sono lotte che criticano lo stato attuale di cose, il modello di sviluppo capitalista sul territorio e sulle nostre vite. In Campania quindi oltre alla formazione dal punto di vista tecnico delle comunità, che ormai anche solo per contiguità è stata appresa, in ogni famiglia quasi c’è qualcuno malato a causa delle nocività, è forte la necessità di immettere questo tipo di lettura e di visione in queste lotte proprio perchè in questa maniera può succedere che esondino e che affrontino su un fronte più ampio e complessivo i processi di trasformazione e anche quelli di contrapposizione.

 

Ci date un affresco complessivo di quella che è la situazione nell’Agrocaleno? Come mai avete definito questo territorio come spazio di identità? Quali sono le memorie, l’immaginario, le storie a cui si è ancorata questa identità territoriale politica?

D. L’Agrocaleno è un territorio molto difficile. C’è una difficoltà dei movimenti a rapportarsi con il resto della popolazione, però capita che le lotte si espandano e escano dalle sponde territoriali facendo in modo che tutti si identifichino in qualcosa di più ampio. E’ un territorio difficile in cui restare, molti giovani se ne vanno. Far sentire la propria voce è complesso, ma dove succede, dove le comunità si organizzano spesso avvengono dei processi di generalizzazione.

M. Sicuramente come diceva D. l’Agrocaleno è un territorio estremamente complicato, è la periferia della periferia dell’area metropolitana di Napoli. L’area metropolitana di Napoli arriva fino a Capua, e immediatamente fuori vi è l’Agrocaleno. E’ un’area che dagli anni settanta è stata interessata da un’industrializzazione discontinua a tratti selvaggia e a tratti pure pianificata senza criterio, che poi ha lasciato sul territorio cimiteri industriali, quegli spazi dove poi il capitale illegale è riuscito a fare affari con gli impianti, le discariche, gli sversamenti. Questo tipo di relazioni tra industrializzazione e devastazione ambientale sono sempre state forti da parte delle organizzazioni criminali. Qui c’è da fare un distinguo, crediamo, guardando al discorso legalità/illegalità rispetto alle soggettività che vivono questi territori e ai loro rapporti con le organizzazioni criminali. Non abbiamo mai fatto antimafia, nemmeno quella che qualcuno chiama l’antimafia militante o l’antimafia antagonista, per noi si tratta di anticapitalismo. Abbiamo avuto la fortuna o la sfortuna di vivere in un territorio dove il capitalismo si da con quelle forme che sono pure armate, che sono guidate dalla violenza, dalla forza, dalla prevaricazione in modo più becero e più diretto. Si tratta quindi di fare lotta anticapitalista. Siamo coscienti tra l’altro che queste organizzazioni al loro interno hanno una stratificazione sociale e non sono delle bolle omogenee. Sono verticali, c’è una base che viene pescata all’interno di strati sociali sottoproletari e proletari che sono quegli stessi con i quali noi ci ritroviamo ad avere a che fare nei quartieri, gli stessi disoccupati, gli stessi lavoratori in nero, nuovi braccianti agricoli (c’è anche questo fenomeno del nuovo bracciante agricolo non solo migrante come fino agli anni novanta, ma nuovamente locale, autoctono). Siamo consapevoli quindi che vanno fatti dei distinguo e che tutto va ragionato sempre in un’ottica di classe e di parte anche rispetto a questo tipo di fenomeni. Così come siamo consapevoli che è impossibile che il sistema estirpi le organizzazioni criminali, sono complementari. E’ semplicemente un gioco delle parti e quindi rientrano nel campo del nemico, della controparte. Per noi questo va sottolineato sempre, soprattutto perchè questa è la terra di Saviano, ed è quindi necessario dare una narrazione di parte di quello che vuol dire vivere, fare lotta politica, organizzare le comunità su questi territori.

Per il resto le lotte a cui ho partecipato io dal 94-96 fino ad oggi, che tra l’altro è stato un ciclo che ci ha consegnato molte vittorie, hanno palesato la capacità delle comunità dell’Agrocaleno a costruire saperi di lotta, a praticare incompatibilità non solo in funzione particolarista ma anche in funzione di identità come popolo, come presenza atavica e indisponibilmente atavica rispetto al dominio, senza citare Spartaco, esiste un documento che cita il fatto che già nel 1700 i pignataresi occupavano le terre, venivano cacciati dai Borboni e poi ritornavano dopo pochi anni. Anche la vicenda del brigantaggio crediamo che vada più che riletta, riscritta secondo un’ottica di parte di classe, o meglio interrogandoci sul perchè i pastori e i contadini di un Sud ancora allo stato feudale decidevano di sottrarsi al dominio e di andare sui monti ad organizzare bande che si contrapponessero a chi governava. Riteniamo che tutto questo background storico ci ha sempre mostrato un Sud capace di effervescenza e rivolta sociale che crediamo siano latenti. Sta a noi saperle cercare, non farci trovare impreparati e, qui veniamo all’Agrocaleno, lavorare alla costruzione di comunità autonome e ribelli che si riconoscono attraverso altri desideri. L’Agrocaleno come senso di appartenenza, come identità geografica politica serve e te lo ritrovi nelle lotte ma anche nella vita di tutti i giorni.

 

Da un punto di vista di giovane abitante di Sparanise D. come pensi che le lotte di questi anni e la nascita dello spazio Cales stiano cambiando il tuo modo di vivere questo paese?

D. Il cambiamento c’è stato nella partecipazione come dicevo prima, di continuare a sentire gente che si interessava sia in positivo che in negativo a quello che stava succedendo. Il fatto di sentirsi interni a dei processi di trasformazione a delle lotte ha cambiato anche l’aspirazione di molti, compresa me ad andarsene il prima possibile dal paese. Il ritrovarsi in comunità fa sentire meno soli e permette a molti di sentirsi protagonisti, di sentire che c’è la gente, c’è l’interesse, la forza, la possibilità.

 

Esiste un fenomeno del ritorno?

M. Molti giovani partono per il Nord e dopo pochi anni ritornano. Questo perchè le opportunità di procacciarsi reddito sono diminuite anche da emigranti e quindi spesso preferiscono tornare e appoggiarsi alle reti sociali dei territori di provenienza. C’è anche un ritorno alla terra come dicevo prima e spesso i due fenomeni si intersecano. Sarebbe da capire se e come possano essere interessanti per le lotte questi meccanismi.

 

Quali sono i processi che secondo te hanno permesso di costruire inimicizia su dei territori che vedono già relazioni sociali molto serrate, alcune come la vulgata mediatica vorrebbe di clientela, altre legate semplicemente alle dinamiche di paese, di comunità già formate e molto unite?

M. La domanda è difficile, molto spesso sono le lotte a dare la risposta. Sono le lotte che creano inimicizia. Diciamo che i bisogni creano la possibilità di lottare e le lotte creano l’inimicizia. Il discorso è molto complesso perchè a parte l’esperienza della Valsusa possiamo tracciare ben pochi ponti di paragone su come si costruiscono lotte in territori molto vasti di pochi abitanti divisi in paesi. Per noi è anche una responsabilità dopo quindici anni di presenza sul territorio riuscire a dare un contributo su questa questione. Dal nostro punto di vista la risposta sta nella capacità di costruire soggettività. Di interrogarsi su quale soggettività costruire e immaginare su questi territori specifici che ti diano la possibilità di accumulare forze e di avere anche un controllo del territorio stesso. Il controllo del territorio, del quartiere, del paese è il punto fondamentale per poi innescare il discorso sull’inimicizia. Quanto più la soggettività è in grado di controllare i territori, più costruisce la minaccia per il potere, per le istituzioni. Certo risulta molto più difficile essendo una dinamica più stretta, ci si conosce tutti in paese, però crediamo che siano le lotte a dare la legittimità per costruire la minaccia e l’inimicizia con la controparte. E’ un passaggio molte volte naturale, e quando avviene è più facile generalizzarlo e diffonderlo nella comunità. Si costruisce certo con prese di responsabilità, chiaramente è rischioso su territori come questo costruire inimicizie specifiche verso comitati d’affari, al capitalismo locale di cui parlavamo prima, dall’altro lato ti pone pure però su un piano di legittimità con gli strati subalterni e proletari che poi sono quelli con cui puoi costruire la sollevazione e l’assedio al potere. Quando si capisce che il tuo lavoro politico è qualcosa di altro che non vuole semplicemente cambiare amministrazione, ma vuole cambiare lo stato di cose, in quel momento l’inimicizia diventa un sogno e un bisogno collettivo degli strati sociali che si vanno a contrapporre al sistema e al potere. Sono i percorsi stessi che ti portano ad individuare il nemico e a fare in modo che nei paesi nascano quanti più partigiani possibile.

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