Immagini e percorsi soggettivi e collettivi di una ricerca
di Luigi Berzano
Partecipo con interesse a questa giornata significativa non solo per il ricordo di Alquati, ma anche per capire come possiamo ancora servirci del suo universo teorico, politico ed esistenziale. Le “damnatio memoriae” non sono sempre effetto della volontà di cancellare; a volte susseguono al non sapere più come interagire e utilizzare un autore. Ho letto di recente saggi interessanti e “alquatiani” sui nuovi lavoratori della conoscenza, senza veder citata l’opera di Alquati. Mi chiedo se questa dimenticanza non dipenda anche dalla difficoltà di citare il suo universo teorico, politico ed esistenziale. Come se citando Alquati irrompesse un elemento incontrollabile nel nostro universo. Significativa questa giornata e il lavoro di chi l’ha proposta e organizzata.
Romano Alquati ha sempre considerato fastidiose tre cose nel mondo degli intellettuali, così come in quello dell’Università. Attorno a queste tre idiosincrasie si è costruita, in parte, la sua biografia di studioso, di docente universitario e di militante. Molte vicende possono essere interpretate sulla base di queste sue forti “dissonanze cognitive”. Ma tutto ciò è avvenuto in forma così radicale che anche chi ha convissuto con lui per anni all’Università non ha sempre capito il suo stile di studioso e di collega.
Il primo fastidio Alquati l’ha provato per gli individui in carriera. E tra questi, soprattutto gli intellettuali e i colleghi in perenne rincorsa degli avanzamenti economici, sociali e istituzionali. Era il fastidio per chi voleva diventare quello che lui, in passato, era già stato per famiglia. Lo status di una famiglia borghese – «forse un po’ aristocratica» come diceva Romano – era quello della famiglia in cui era nato e cresciuto nei primi anni. La famiglia Alquati di ricchi agrari cremonesi e di molti generali nell’esercito italiano, compreso il padre. A quello status e a quella condizione economica Alquati non aspirava più. E non sopportava tutti gli arrivisti che si davano da fare per arrivarci. Alquati disprezzava chi voleva salire dove lui era nato. E’ dopo le vicende del dopoguerra e il seguente crollo economico e sociale che la sua famiglia venne espulsa dal suo ceto d’origine. Romano iniziò a legarsi ad «amici di condizione proletaria contadina, per la loro schiettezza, lealtà e generosità e capacità di cavarsela da sé e di fare molte cose» (Intervista dicembre 2000 – I.d. 2000).
Il secondo fastidio era per quanti andavano scoprendo ambiti disciplinari, autori e teorie nelle scienze sociali, utilizzandoli per imbonire, mascherare, negare trasformazioni in atto e conflitti in crescita. Si considerino i nuovi interessi che negli anni ’70 si stavano sviluppando per le scienze politiche, antropologiche e della cultura. «Fin dagli anni Sessanta cominciai a studiare le religioni misteriche, a leggere molta letteratura messa all’indice, storia dell’arte. Attraverso Pavese approdai a Frazer, ed attraverso il Ramo d’oro alla storia delle religioni antiche e all’etnografia ed antropologia culturale, al mondo dei primitivi e dell’animismo, alla religiosità agraria mediterranea e ai primi interessi per la storia degli eretici. (…) Intorno al ‘52/’53 incontrai il mondo dei pittori di professione, a Milano, in Francia… Alla fine del ’55 decisi di non dipingere più. Si concluse la mia vita di intellettuale umanista (I.d. 2000). Nel campo delle scienze sociali Alquati fece analoghe esperienze in Francia conoscendo Castoriadis, Morin, Léfort, Goldmann, Lyotard. «Nel ’59 ero andato in montagna con Fenomenologia della percezione di Merlau-Ponty». (I.d. 2000). Quando Alquati arrivò a Scienze Politiche a Torino aveva già alle spalle molte esperienze in gruppi di ricerca, in riviste e in progetti politici e culturali di rilievo nazionale.
Il terzo fastidio è stato interno alla sociologia e ai suoi metodi di ricerca. L’apporto più originale di Alquati è stata la conricerca. Ma prima di elaborare e praticare la conricerca, Romano aveva fatto ricerca qualitativa con Danilo Montaldi. Nel ’71 a Trento, con lo stimolo di Massimo Egidi, aveva fatto parte del laboratorio di Vittorio Capecchi. Del resto la tesi di laurea nell’indirizzo economico con Egidi fu nel campo della econometria. «Nonostante che sia stato uno dei primi in Italia a conoscere Lazarfeld e ad aver fatto ricerche multivariate alla Hymann, analisi fattoriale e altro, per il semplice fatto di parlare e usare metodi qualitativi, non sono mai stato creduto un vero scienziato sociale» (I.d. 2000). Molti, non conoscendo questo sorprendente retroterra culturale di Alquati, hanno ritenuto la sua formazione scientifica inadeguata. Ma non pensò così Filippo Barbano, quando gli affidò l’incarico di Sociologia Industriale presso la nascente Facoltà di Scienze Politiche di Torino, prima ancora che Alquati si fosse laureato. Barbano aveva conosciuto Alquati negli anni in cui tenne l’insegnamento di Sociologia alla Facoltà di Sociologia di Trento.
Alquati arriva dunque, alla conricerca, negli anni ’70, dopo aver praticato la ricerca sociologica quantitativa in anni precedenti, quando pochi altri lo facevano. La conricerca alquatiana è insieme inchiesta, processo di conoscenza e trasformazione reciproca del ricercatore e di chi rappresenta la soggettività operaia. «Pratica d’intervento che ponendo il ricercatore militante sullo stesso piano del soggetto indagato annulla la figura la figura separata della “avanguardia” tanto cara alla logica della sinistra e consente di riformulare orizzontalmente e circolarmente teoria-prassi-organizzazione. Una pratica che permette di leggere, anche nei periodi di passività, i segnali della conflittualità a venire, l’organizzazione informale e le ambivalenze costitutive che si collocano nello scarto tra composizione tecnica (articolazione oggettiva della forza-lavoro) e composizione politica della classe» (E. Armano, R. Sciortino).
Filippo Barbano definirebbe la conricerca di Alquati effetto di una “rottura” epistemologica, con riferimento ai nuovi rapporti tra determinazione di un oggetto scientifico e modo di esposizione dei risultati della ricerca e della relativa scienza. La forte intenzionalità di intervento politico intendeva dire che la ricerca avesse effetti per il fatto stesso che la si facesse, sia per la socializzazione con l’oggetto sia per la sua esposizione pubblica dei risultati. Oltre ai limiti che lo stesso Barbano intravede nello spirito delle ricerche sociali, quali quelle dei Quaderni rossi, questa fase è significativa per la rinascente sociologia di quegli anni. Per aver posto il problema dei rapporti tra osservatore e osservante, tra studioso e partecipante, tra ricerca empirica e attività di decisione politica.
Per capire la conricerca alquatiana, che ha rappresentato una vera e propria istituzione nella metodologia sociologica, è necessario introdurre – a mio avviso – due parole/concetti ricorrenti nel pensiero di Alquati: formazione e iper (iperindustrialità, iperproletariato, ipercapitalismo).
La centralità del concetto di formazione in Alquati discende dall’interesse teorico e politico di capire se la formazione, quale processo del sistema, possa anche diventare fonte di conseguente per il sistema, non tanto nel senso dell’integrazione nel sistema, quanto del mutamento del sistema. Il passaggio dalle conseguenze del sistema nei processi e nei risultati di sfruttamento ed emarginazione, alle conseguenze dello sfruttamento e dell’emarginazione per il sistema rappresenta un nodo interpretativo decisivo. L’alternatività di queste due dimensioni (effetti del sistema e conseguenze sul sistema) ricompare negli scritti di Alquati nella forma di formazione, potere, sapere, produzione, consumo e di contro-formazione, contro-potere, contro-sapere, contro-produzione, contro consumo.
La formazione è quindi incremento di capacità, di saperi e di conoscenze; e quindi riproduzione allargata di capacità-attiva, vivente-umana, singolare-collettiva. Si tratta di definizione complessa come tutte quelle del modello generale alquatiano. Il dato sostanziale è la risorsa di mutamento del sistema che la formazione può rappresentare. In ciò, un concetto classico quale quello di formazione – di derivazione etica, ascetica, religiosa – si differenza sia dal concetto di socializzazione (come inteso anche dalla tradizione del marxismo strutturalista classico) sia da quello comune di formazione quale processo solo discendente dal sistema. E’ innegabile che tale modello andasse contro a certe rigidità dell’analisi marxista che potevano avere conseguenze teoriche, e anche politiche, simili a quelle del funzionalismo.
La formazione così intesa, non esaurisce quindi la classica nozione di formazione/socializzazione come processo storico di strutturazione e ristrutturazione della società. Per Alquati, all’opposto, la socializzazione, come formazione di nuovi rapporti sociali e mutamento del sistema, comporta l’esigenza di soggetti storici, portatori di valori di mutamento. L’interesse dato in anni recenti all’analisi dei movimenti è un effetto correlabile alle loro capacità di mutamento del sistema. Non sempre però i movimenti (generazionali, femminili, urbani, ecologici, pacifisti, religiosi, no global e altri) sono iconducibili a soggettività la cui identificazione possa essere univocamente determinata. Non è sempre possibile, cioè, sostituire nuovi soggetti di mutamento sociale a quelli tradizionali quali le classi e i partiti.
La seconda parola/concetto ricorrente nel pensiero di Alquati è l’iperindustrialità, l’iperproletariato, l’ipercapitalismo. E’qui necessario ricordare le differenti proletarietà o operaità che Alquati indicava. Prima gli operai dell’artigianato, poi diventati operai della fabbrica. Poi gli operai-massa della razionalizzazione tayloristica. Infine la fase odierna della iper-industrialità. E’ in questa terza fase – tra gli anni ’70 e ‘ 80 più coi rotocalchi che con le stesse nuove tecnologie – che avviene la trasformazione radicale. Alquati direbbe: qui il padrone ha vinto.
Qui si pongono le domande finali di Alquati e la stessa premessa epistemologica della conricerca. Che cos’è l’operaità oggi? C’è ancora? Quali le soggettività e le soggettività operaie? E’ plausibile oggi un “comunismo post-operaio”, una “iper-proletarietà non più operaia”? Quale la soggettività e la capacità emancipatrice degli iper-proletari socializzati dalle tecnomacchine flessibili della produzione e riproduzione capitalistica?
Termino con il caso di una ricerca sui Centri Sociali Occupati Autogestiti torinesi; ricerca propostami a metà degli anni ’90 dal Centro Giovani del Comune di Torino (Assessorato Artesio). La ricerca venne condotta, terminata e pubblicata in Liberi tutti con la collaborazione determinante del professor Carlo Genova e di un gruppo di giovani ricercatori. Anche in quell’esperienza ho constatato la differenziazione di Romano su quasi tutto. In effetti non era una conricerca Del resto Alquati non si entusiasmava neppure di tutte le iniziative dei movimenti sociali, del movimento La Pantera ,del ’77, e degli stessi Centri Sociali quando vi intravedeva superficialità, secondi fini, strategie.
Così come non sopportava, anche nella sinistra, di trattare gli operai o il movimento operaio come dei monumenti storici da studiare, senza capirne la quotidianità, i valori, le memorie, le sofferenze, gli immaginari, i desideri, i piaceri e le gratificazioni materiali o spirituali, così avvenne anche per i centri sociali, e con la ricerca Liberi tutti. «Trasformare i rapporti in relazioni, aspirando ad un’altra maniera di comunicare e ad una socialità quasi sempre impossibile».
Ho incontrato l’ultima volta Romano in via degli Artisti, vicino al Dipartimento di Scienze Sociali, quando era già in pensione. Sempre più difficile parlare con lui delle faccende inutili delle quali noi comunemente parliamo. Aveva la sincerità di dire che a lui non gli importavano nulla. Poi mi disse che gli capitava di ascoltare Uomini e profeti al sabato mattina su Rai Tre; la trasmissione che tratta di storia, di figure, di esegesi di testi religiosi e di altre cose. Forse mi sono stupito e mi lui disse: «Ma che … credi, che siano solo i preti che si occupano di queste cose»? E in questo non c’era tanto la battuta ironica, sapendo che stava parlando con un prete, quanto il voler dire che di queste questioni lui se ne era occupato in decenni passati, ben prima di me.
Luigi Berzano
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