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Anziani e coronavirus: alcune considerazioni

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In questi giorni di epidemia, uno degli aspetti che viene più rimarcato è la particolare pericolosità che sembra caratterizzare l’infezione da Coronavirus nella popolazione anziana.

All’interno delle dinamiche confusionarie di panico e contropanico che si sono scatenate a livello mediatico, questo discorso assume indubbiamente una valenza strumentale. “Se il virus colpisce solo gli anziani con malattie pregresse vuol dire che, in fondo in fondo, l’epidemia colpisce marginalmente la società”. E quindi non è qualcosa di cui preoccuparsi più di tanto.

Ma innanzitutto, a livello demografico, che peso ha la componente degli over 65 in Italia? Se andiamo a vedere gli ultimi dati pubblicati sul sito dell’ISTAT, su un totale di 60 milioni, questa fascia di popolazione rappresenta il 22,3 %. 13783580 persone. Già solo questo dato secco parla per sé.

E’ una tendenza diffusa quella di considerare con sufficienza e fastidio la figura dell’anziano, e sono molte le cause che sono ipotizzabili per spiegare questo comportamento. Si potrebbe sostenere, che tra le generazioni più giovani e quelle più vecchie ci sia una grande differenza, in termini di riferimenti culturali e stili di vita. Per fare un esempio: le zone delle città con una vivace vita notturna vedono spesso la presenza di gruppi di residenti con una forte componente di anziani, che protestano per il rumore e per i comportamenti di chi va in giro fuori a bere.

E’ un fenomeno quest’ultimo molto comune, che viene spesso utilizzato strumentalmente dai quotidiani locali, che sono ben contenti di poter dedicare ampie prime pagine al sempreverde (e redditizio) tema della dissoluzione dei costumi e della necessità di politiche per la sicurezza. La  questione comunque riguarda in senso più ampio il tema della vivibilità delle città, che sono sempre più stritolate tra socialità consumistica e mancanza di spazi. Dall’altra parte i discorsi tipici dei residenti portano anche a riflettere, su come in larga parte della società ci sia una concezione quasi proprietaria dello spazio pubblico, che viene inteso come una semplice estensione di quello domestico, dove la gente che passa per strada debba quindi essere beneducata e stare al suo posto.

Sempre sui motivi della scarsa considerazione dell’anziano nella società, un altro aspetto potrebbe essere lo sviluppo tecnologico repentino degli ultimi anni, con la comparsa nel mercato dei beni di consumo di computer e smartphone, con funzioni sempre più avanzate e a prezzi sempre più accessibili alla grande maggioranza della popolazione. Quest’ultimo è un elemento non secondario da un punto di vista sociale e culturale. Le nuove tecnologie hanno portato, infatti, a valori d’uso radicalmente differenti nelle diverse fasce di età. Ad esempio, se i social network costituiscono il nuovo modo di comunicare e stare assieme, è evidente che gli anziani “social” li utilizzano in maniera assai diversa dai giovani “social”. Questo, da un punto di vista culturale e comunicativo, sostanzia una differenza marcata a livello generazionale, di cui, tra l’altro, c’è una consapevolezza diffusa nella società. Anche qui si può trovare un esempio molto chiaro: le pagine facebook in cui i “giovani” sfottono allegramente il modo di usare i social dei “Cinquantenni sul web”.

Di riflessioni di questo tipo se ne potrebbero fare molte, un elemento per inquadrare materialmente la condizione senile è però sicuramente la questione sanitaria. Nei paesi occidentali, le politiche in campo di salute pubblica hanno comportato dei cambiamenti significativi: primo, un aumento della aspettativa di vita, secondo, la sempre maggiore rilevanza delle malattie che hanno un decorso cronico rispetto a quelle che hanno un decorso acuto, come quelle infettive. Quest’ultimo aspetto caratterizza in maniera distintiva la popolazione over65, con un aumento progressivo dell’incidenza di queste patologie mano a mano che si va avanti con l’età.

Tutto ciò cosa comporta nei fatti? Che gli anziani sono sempre di più e hanno bisogni di salute sempre più complessi, con la necessità di una assistenza costante e multidisciplinare. In questi tempi di tagli al welfare, questo costituisce un problema sempre più rilevante per i sistemi sanitari. Un recente documento prodotto dalla Fondazione Gimbe, che analizza a livello economico il definanziamento del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), fa vedere come il finanziamento pubblico dell’SSN sia aumentato di 8,8 miliardi nel periodo 2010-2019, con una crescita annua dello 0.9 %. Il problema è che dal 2010 al 2019 il tasso medio di inflazione annua è stato dell’ 1,07%. L’inflazione è un indice che fondamentalmente registra l’aumento del livello medio dei prezzi.

Quindi, per ricapitolare, un aumento annuo dello 0,9 % della spesa per l’SSN, a fronte di una inflazione all’1,07 %, non basta neanche per coprire la diminuzione del potere d’acquisto della moneta. In aggiunta a questa vergogna, il documento fa vedere come nello stesso periodo, se si prendono in considerazione le previsioni di adeguamento spesa, e quindi sostanzialmente gli stanziamenti in potenza per la sanità, c’è stato un taglio complessivo di 37 miliardi perché, al di là delle chiacchiere nebulose dei governi, la sanità è stata considerata, molto materialmente, come il portafoglio a cui attingere per risolvere le crisi di bilancio.

Se i soldi non ci stanno, è chiaro quindi che il problema del welfare che manca viene scaricato sulle spalle delle famiglie e delle persone singole. Ciò rappresenta un tema importante dal punto di vista politico.

La cura e assistenza dell’anziano è un lavoro che ricade tipicamente sulla donna, con anche la presenza di figure professionali specifiche, come le badanti; inevitabilmente, quindi, il problema della condizione senile interessa necessariamente le lotte femministe. Ancora, il sopracitato sfaldamento tra le generazioni ha portato ad una esclusione degli anziani dai contesti familiari, per cui i bisogni di salute, tra cui anche quelli di socializzazione, vengono presi in carico da istituzioni esterne. Le principali di queste ultime sono: i Centri diurni per anziani, che forniscono attività ricreative e di socializzazione, ma che sono chiusi durante la notte, le Case di Riposo, nelle quali gli anziani autosufficienti dormono e vivono durante il giorno e le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), nelle quali invece vivono gli anziani non autosufficienti e con particolari bisogni sanitari.

Per non cadere in una interpretazione scioccamente culturalista, è bene porre l’accento sul fatto che questo fenomeno di “esternalizzazione” della cura è ovviamente legato alle condizioni materiali della vita, che, nella intensità della odierna quotidianità lavorativa, non consentono di avere il tempo materiale di dedicarsi all’assistenza degli anziani; a dire la verità questa è una spiegazione che vale di più per le RSA, che prendono in carico le situazioni più complesse da un punto di vista strettamente sanitario. Per le loro caratteristiche invece, le Case di Riposo servono per un altro aspetto, che è quella della solitudine degli anziani, la cui spiegazione come problema sociale, deve sicuramente ricondursi a problemi di ordine anche culturale (che sicuramente avranno una base anche storica ed economica).

Il problema è ambivalente: da una parte la presa in carico da parte di queste strutture è un servizio che risponde a un bisogno genuino nella moderna condizione proletaria (come possono esserlo allo stesso modo gli asili nido e le scuole), dall’altra questa stessa presa in carico è espressione di un modello problematico di approccio alla marginalità, che vede una sua gestione esterna e separata dalla società.

La questione assume un carattere esplicitamente di classe, se andiamo a considerare quello che è l’aspetto economico: ogni tipologia di struttura assistenziale citata in precedenza, è presente sui territori sia in forma pubblica, sia in forma privata. Senza entrare nei dettagli, una parte della retta mensile nelle strutture pubbliche è pagata dallo stato, mentre la parte restante deve essere pagata dall’utente, secondo un criterio proporzionale che prende in considerazione l’indice ISEE. Nel 2015, la modificazione in senso restrittivo del calcolo di quest’ultimo, è stato un evento che ha compromesso l’accesso di vasti strati della popolazione ai servizi di welfare (vedi la questione dei contributi statali per gli studenti universitari). Per capirci, se non si rientra nelle soglie ISEE, il prezzo mensile della permanenza in una Casa di Riposo pubblica si aggira intorno ai 1500 euro, e, a tutto questo, si aggiunge la carenza cronica di posti letto nel territorio. La questione assume caratteri di iniquità ancora più marcati, se si considera il semplice fatto che, chi ha i soldi, può andare in strutture decisamente più vivibili di chi non ce li ha, essendo disponibile una ampia rete di strutture private.

E’ chiaro quindi il carattere classista dell’organizzazione dell’assistenza agli anziani, e l’enorme peso economico e sociale relativo ad esso, che viene scaricato sulle famiglie e ovviamente anche sulle persone singole. Una rivendicazione politica coerente però, non si può fermare esclusivamente alla richiesta di un aumento del finanziamento statale, destinato all’accesso alle strutture di assistenza. Chi ha mai fatto l’esperienza di entrare in una casa di riposo pubblica, sa bene le condizioni spesso desolanti in cui ci vivono gli anziani e conosce l’uso estensivo di psicofarmaci di varia natura che viene fatto al loro interno. Senza aprire un capitolo troppo ampio, è sostanzialmente il problema della infantilizzazione degli utenti, nelle istituzioni che prendono in carico la marginalità.

L’anziano vive quindi una situazione complessivamente molto difficile, che assume in molti casi toni drammatici. Chi non ha un compagno o una compagna di vita, chi non ha figli o vive lontano da loro, chi non ha avuto la forza di coltivarsi una rete di amicizie nella quotidianità alienante del lavoro. Tutti questi, e sono tanti nelle periferie, vivono nella solitudine più dolorosa e straziante, aggravata dallo stigma sociale di essere considerati come un peso inutile e improduttivo e dalla condizione esistenziale di vicinanza alla morte. Per ritornare al discorso di partenza: è bene immaginabile il surplus di angoscia generale e il peso psicologico e emotivo delle misure di quarantena, sulla popolazione anziana in relazione alla emergenza Coronavirus.

Da una parte la condizione di isolamento in cui viveva già precedentemente larga parte di queste persone, dall’altra l’utilizzo prevalente ed eccessivo della televisione, da parte degli anziani, come supporto nella solitudine e come mezzo di informazione, con il suo correlato martellante di narrazioni da si salvi chi può. La condizione della popolazione senile in Italia è insomma una questione che riguarda piani multiformi e complessi, e, alla luce di quanto detto, risulta essere un ambito di assoluto interesse per le realtà politiche che affrontano le contraddizioni di classe nel terreno del sociale e che si vogliono misurare oggi sui problemi posti dall’emergenza Coronavirus.

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