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Gli anarchici e noi

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La sera del 23 marzo 1921, all’esterno del teatro Diana di Milano, nell’intervallo tra il secondo e terzo atto della rappresentazione in corso, una valigia contenete 160 cartucce di gelatina esplodeva provocando la morte di una ventina di persone ed il ferimento di moltissime altre. L’esplosione investì le prime quattro file di poltrone e la buca dell’orchestra. La bomba, scoppiata fuori dal teatro, nelle intenzioni degli autori dell’attentato era destinata al questore Gasti che, secondo le loro approssimative e non verificate informazioni, avrebbe occupato un appartamento del vicino hotel Diana. Gli attentatori volevano colpire un rappresentante dell’apparato repressivo dello Stato come risposta alla ingiustificata detenzione, da oltre 4 mesi, dei dirigenti anarchici Malatesta, Borghi e Quaglino.

Immediata fu la reazione fascista: poco dopo le ore 11 della sera assaltavano e distruggevano la sede e la tipografia di “Umanità Nova”, la sede dell’U.S.I. e il Circolo Socialista di Porta Venezia. Poi andarono ad incendiare la nuova e non ancora non ultimata redazione dell’”Avanti!”.

Il verbale ufficiale di polizia, trasmesso al procuratore del Re, fissava alle ore 22 lo scoppio della bomba al Diana, mentre l’“Ordine Nuovo” del 25 marzo notava che «il grande orologio sul frontale del palcoscenico del teatro Diana, si era fermato alle 23 meno due minuti a causa dello spostamento d’aria provocato dall’esplosione».

L’anticipazione di un’ora dello scoppio della bomba, se ci fu, sarebbe servita a giustificare la reazione violenta dei fascisti, mentre la concomitanza dell’esplosione e degli assalti avrebbe sollevato molti sospetti sul coinvolgimento dei fascisti nell’attentato: questo spiegherebbe l’interesse ad alterare gli orari. Non è infatti affatto escluso, e questo dubbio sorse immediatamente, che l’attentato fosse stato ideato ed organizzato ad opera di provocatori infiltrati nei gruppi degli anarchici individualisti, cosa facilissima in quegli ambienti. Ma questo è un argomento che a noi poco interessa.

La polizia provvide all’arresto indiscriminato di anarchici, comunisti, socialisti ed altri mal capitati. Vennero fatte vere retate in massa, l’”Avanti!” parlò di circa 800 arrestati; tra di essi c’erano effettivamente gli esecutori materiali dell’attentato. Al processo che seguì Giuseppe Mariani e Giuseppe Boldrini vennero condannati all’ergastolo, Ettore Aguggini a 30 anni. Numerosi altri anarchici, pur estranei all’attentato, subirono pesanti condanne varianti dai 5 ai 18 anni.

Chiaramente le morti del teatro Diana, tra queste quella di una bimba di 5 anni, servirono egregiamente a scatenare l’odio della borghesia nei confronti di tutte le organizzazioni proletarie. Da tutti gli ambienti si chiese “giustizia” e “vendetta”. Tutti, compresi socialisti ed anarchici, vollero aderire all’indignazione interclassista contro l’”inutile” violenza.

Durante i grandiosi funerali tributati alle vittime, fascisti e socialisti presero parte al commosso corteo, tanto che Mussolini scrisse: «Quella di ieri è stata la prima giornata di tregua dopo la turbinosa lotta di due anni. Tutto il popolo ha voluto, nel suo dolore, consacrare questa tregua […] Le due schiere nemiche si raccoglievano contemporaneamente attorno alle bare degli uccisi […] Noi ci siamo persuasi che quel ch’è stato possibile oggi davanti alla morte, può essere, qualora lo si voglia, davanti a tutte le manifestazioni della vita […] Noi siamo pronti a modificare la nostra linea di condotta […] Abbiamo dinanzi a noi un Partito Socialista che sembra deciso a liberarsi dalla massacrante zavorra russa e rientrare nelle vecchie strade. Se questo orientamento nuovo è veramente sincero […] è chiaro che il nostro atteggiamento dovrà cambiare ed adattarsi alla nuova realtà […] La nazione vuol chiudere il capitolo della guerra civile. Questo monito saliva dalla moltitudine, stranamente silenziosa di stamani. Noi lo raccogliamo» (“Il Popolo d’Italia”, 29 marzo 1921).

Come si vede tono del tutto conciliante con gli addomesticati socialisti, addomesticati anche grazie all’incendio di tre giorni prima! Mussolini però sapeva che vi era un altro nemico che non avrebbe mai potuto diventare “ex”: infatti nel citato articolo scriveva: «Abbiamo di fronte il neo-Partito Comunista, il quale ha il coraggio ribaldo e criminale di assumersi la responsabilità morale cogli assassini del Diana: Bisognerà combatterlo senza quartiere. Altrettanto dicasi degli anarchici».

Comunisti ed anarchici, la questione della violenza, il suo uso, i suoi scopi. Questo è l’argomento trattato negli articoli che seguono e che dimostrano l’enorme distanza tra la concezione comunista e quella anarchica sulla questione violenza, e anche su ogni altra questione.

Mentre i dirigenti anarchici, imprigionati e liberi, si affrettarono a prendere le distanze ed a condannare l’attentato del Diana, il partito comunista si astenne da qualsiasi valutazione etica o moralista, inquadrando l’episodio, con stringente dialettica, nel violento scontro in atto, di vera guerra civile, tra le contrapposte classi sociali.

Il manifesto lanciato in occasione dei funerali delle vittime del Diana si rivolgeva al proletariato in questi termini.

«Lavoratori milanesi!

«Sugli avvenimenti di questi ultimi giorni i partiti della classe borghese impostano un’evidente speculazione, alla quale dobbiamo prepararci a rispondere………….. «Sulle vittime dell’altra notte si vuol ripetere la speculazione cinica e turpe per colpire la compattezza della massa operaia. La borghesia non si commuove sul serio per i morti e i feriti del Diana – chiude per l’imposizione fascista le sue botteghe, ma per continuare sotto le saracinesche semialzate la caccia al profitto in cui sta tutta la sua morale di classe. Ma intanto la montatura si va completando. Ma intanto da taluni vostri dirigenti vengono parole, che l’avversario attende per non tenerne altro conto che quello di vantarle come vittoria del suo intervento punitore e rintuzzatore delle idealità rivoluzionarie.

«Proletari comunisti!

«Ben altra sia la nostra, la vostra parola. L’incanata avversaria non c’impegna a dire un nostro giudizio su atti, che essa sceglie ad argomento gradito delle sue manovre. Il nostro programma è noto; non va rabberciato o scusato per dare spiegazioni all’insolenza della stampa antiproletaria e della propaganda controrivoluzionaria.

«L’accendersi di una lotta che dà luogo a tragici episodi non si giudica da noi col dare sanzioni o rifiutarne. Le nostre responsabilità risultano chiare dalle nostre dichiarazioni programmatiche. Pel resto, noi vediamo riconfermata la grande verità storica proclamata dal comunismo, che alla situazione non v’è altra uscita che la vittoria rivoluzionaria dei lavoratori in un nuovo ordine veramente civile, o l’infrangersi di ogni forma di convivenza sociale in un ritorno alla barbarie più tetra.

«La borghesia piuttosto che scomparire dalla storia, vuole la generale rovina della società umana. Le bande bianche, che si formano per spezzare l’avanzata emancipatrice dei lavoratori, lavorano per questa seconda tenebrosa soluzione. Noi speriamo e crediamo che saranno spezzate dalla forza cosciente del proletariato, ma anche se ciò non fosse, in nessun caso esse salveranno dalla rovina finale il fradicio ordinamento borghese.

«Il proletariato milanese non deve dunque in questi momenti lasciarsi impressionare dall’abile messa in scena di un simulato cordoglio da volgere in odio contro i lavoratori ed in sopraffazioni del suo movimento. L’avversario non deve avere la soddisfazione di vederlo associarsi alle sue attitudini di ipocrisia, il che sarebbe la prima tappa della via di prepotenze che si propone.

«Si facciano dunque i funebri delle vittime. Noi saremo estranei ad una manifestazione, cui si dà artatamente un carattere antiproletario, e colla quale si vuole ancora una volta realizzare una solidarietà di classe che cela l’agguato e la libidine di dominio della classe privilegiata. Ma se la manifestazione farà un passo solo sulla via dell’aggressione al proletariato e ai suoi istituti, dell’oltraggio alle nostre, e vostre idealità rivoluzionarie, allora, lavoratori milanesi, risponderemo con tutta la nostra e la vostra energia. Il piano dei controrivoluzionari non dovrà riuscire. Il proletariato milanese, non dimentico del suo passato, sarà al suo posto per difendersi, per difendere l’onore della sua rossa bandiera, le sorti dell’offensiva di domani, con cui prenderà il suo posto tra i compagni d’Italia e del mondo nella vittoria della rivoluzione sociale» (“Il Comunista”, 30 marzo 1921)

Note polemiche

Quel desso

(“Il Comunista”, 22 maggio 1921)

Quel desso che ha postillato sul “Libertario” di Spezia una nostra nota polemica di molti giorni addietro, intitolata “Anarchici”, mostra di non intendere il valore degli appunti che noi credemmo di muovere ad alcuni libertari i quali – poco dopo l’attentato al teatro Diana di Milano – si erano affrettati a dimostrare, con la testimonianza dei maestri dell’anarchismo, che l’anarchismo è contro la violenza.

I nostri appunti muovevano da ragioni dottrinarie… e politiche. Siamo in grado – modestia a parte – di poter dare qualche lezione d’anarchismo agli anarchici, ma ben ci guarderemo dal farlo. Sapevamo assai bene che l’anarchismo accetta il metodo violento da usare contro lo Stato borghese per abbatterlo e instaurare il nuovo ordine sociale; ed il citare – come fece il Fabbri – alcune opere sul regime anarchico per dimostrare che l’anarchismo, come regime sociale, è la negazione della violenza ci parve cosa, per lo meno, superflua e, politicamente, inopportuna.

Quando noi e gli anarchici siamo tacciati dagli avversari di violenti e di delinquenti, nonostante siamo a conoscenza della grande ignoranza che gli avversari hanno delle nostre dottrine, pensiamo che essi ci definiscono e ci odiano non tanto per quel che saremo domani ma per quello che siamo oggi.

Di fronte allo Stato borghese noi siamo partiti fuori legge: se un atto di violenza proletaria viene colpito dallo Stato, non valgono le nostre belle ragioni intorno alla fraternità dei rapporti sociali nei nostri regimi futuri a deviarlo dalla applicazione di sanzioni punitive.

D’altro canto non possiamo noi e gli anarchici, come organizzazioni, assumerci la responsabilità di atti che sono spontanea eruzione della esasperata condizione di schiavitù morale ed economica delle masse lavoratrici. Ma noi comunisti sappiamo interpretare tutti i fatti storici e gli episodi sociali che si svolgono quotidianamente. E, certamente, perdendo non poca popolarità, mentre i socialisti facevano aperta opera di delazione contro i partiti sovversivi e mentre alcuni anarchici facevano delle dichiarazioni… per lo meno inopportune, o scrivevano meno opportuni articoli sul pacifismo del regime anarchico o pubblicavano dichiarazioni ufficiali con carattere deplorativo del doloroso episodio di Milano, i comunisti lanciavano quel manifesto che a molti stupidi parve una confessione di complicità in omicidio, mentre voleva essere la chiara interpretazione di un fatto doloroso il quale non poteva essere considerato fuori del quadro generale della situazione sociale, la quale, sempre più aggravandosi, ci farà assistere a ben più tristi episodi.

Noi deploravamo e deploriamo l’intera situazione nella quale spasima il proletariato e non possiamo soffermarci a considerare i sanguinosi incidenti che tale situazione provoca a migliaia, da una parte e dall’altra degli eserciti in contesa.

Noi comprendiamo benissimo che la reazione scatenatasi in modo particolare contro gli anarchici, dopo l’attentato del marzo, mise costoro nella necessità di doversi difendere da ingiuste persecuzioni; ma certi documenti ufficiali o di singoli, in determinate occasioni, hanno importanza storica e divengono “precedenti” per l’azione avvenire. In queste occasioni, ove non si possa – per motivi di opportunità – dire una parola fredda e rigida che potrebbe – come a noi toccò – essere interpretata quale cinica confessione di colpevolezza, ci pare sia meglio tacere.

Noi e gli anarchici

(“Il Comunista”, 22 maggio 1921)

Pubblichiamo volentieri questa lettera dell’amico Fabbri, confermando naturalmente quanto abbiamo scritto nei numeri del 14 aprile e dell’ 8 maggio, circa l’attitudine degli anarchici dinanzi al problema dell’impiego della violenza.

Non intendiamo né intendemmo dare dell’ignorante al Fabbri, che ignorante non è, e nemmeno ad altri anarchici. Il Fabbri cita tutta una letteratura anarchica a noi così poco ignota che scriviamo questo commento dopo che era già stesa la replica al “Libertario”.

I testi su cui si basavano i nostri rilievi, erano altri: un ordine del giorno della Commissione di corrispondenza della U.A.I., una lettera dello stesso Fabbri all’“Avanti!”; una intervista di Malatesta col suo avvocato Buffoni.

Questi testi giustificano in modo caratteristico le nostre critiche.

È difficilissimo, come rilevava ironicamente Federico Engels, far riconoscere agli anarchici quale sia precisamente il concetto che essi sostengono in una data polemica. Poiché il loro difetto non è di non avere coltura o dottrina, elementi individuali, ma di mancare di una linea storico-critica nel loro pensiero. Ecco perché nei loro testi si trova tutto quello che si vuole: ieri gli argomenti con cui Fabbri dimostrava come Malatesta non avesse detto eresia sconfessando gli attentati, oggi quelli coi quali vorrebbe respingere il concetto semplicista e negativo che noi loro attribuiamo sulla violenza.

Egli è che la concezione anarchica manca di vigore e di rigore dialettico, non compendia come quella marxista il divenire di una forma sociale in un’altra, ma considera il tipo di società perfetta anarchica non come totalmente separata da un’epoca storica, ma come in piccola parte già tra noi realizzata nella comunità ideale dei pochi anarchici, che sarebbero gli eletti, i coscienti, che soggettivamente avrebbero risolto il problema di vivere secondo i rapporti della società futura.

Il comunista è colui che prepara, negli odierni rapporti sociali, l’avvento dei nuovi; l’anarchico al contrario vive già, o pensa di vivere, i rapporti sociali che teoricamente costruisce. Da ciò la enorme diversità nelle valutazioni tattiche. Da ciò, e non da volgare ignoranza, l’incapacità anarchica ad intendere che si giunge alla libertà con l’autorità e al non-stato collo Stato, alla violenza colla violenza, dappoiché coloro che tali mezzi praticassero contraddirebbero la loro fede e la loro norma di vita.

Dall’eclettismo teorico anarchico può sorgere una distinzione tra violenza di ribelli e violenza di governanti. Ma che questa sia insufficiente lo dimostra il fatto che gli anarchici nella polemica attuale pongono limiti anche alla violenza dei ribelli. Limiti non tattici, non elastici, ma fissi, soggettivi, etici.

Noi sappiamo che l’amico Fabbri sciorinerà testi e fatti per contraddirci, con la erudizione di cui non difetta. Ma le conclusioni nostre sorgevano da constatate contraddizioni, attraverso le quali è logicamente possibile e legittimo attribuire agli anarchici quella certa linea che da se stessi o non sanno formulare o sanno formulare troppo, con enunciazioni molteplici e discordi. Cosicché essi, anziché spiegare la violenza ed intenderne il gioco che sfugge ad ogni pietismo idealistico, si preoccupano di classificarla in legittima ed illegittima, non dinanzi ad un potere costituito che non ammettono ma dinanzi ad una costruzione ideale di cui certo non sapranno mai dare i connotati precisi.

Gli anarchici e noi

(“Il Comunista”, 5 giugno 1921)

Ospitiamo di nuovo volentieri la lettera del Fabbri, anche se colpevoli di qualche ironia anti-anarchica, appresa dal nostro maestro Engels, il quale non ci ha però contemporaneamente appreso il “riformismo”.

Dunque, secondo la enunciazione della U.A.I., condivisa dal Fabbri, la distinzione tra violenza accettabile e non accettabile è che vi presieda la ragione, il senso di responsabilità e la coscienza del fine. Ahimè!, ché questa distinzione è quanto mai inconsistente, e sopratutto, come dicevamo nella precedente nostra nota, terribilmente antistorica.

 

È strano che proprio gli anarchici i quali fieramente si oppongono alla funzione ed alla disciplina di un partito, esigano poi dagli attori individuali o collettivi dell’atto rivoluzionario, un senso critico che faccia loro distinguere così sottilmente se l’impiego di certi mezzi di lotta risponda o meno a delle condizioni eticamente astratte.

Questo giudizio dovrebbe sorgere dalla ragione e dalla critica di ciascun rivoluzionario. È chiarissimo che tali condizioni non potranno mai essere raggiunte nella realtà tra le file del proletariato sfruttato, depresso, limitato nel suo sviluppo intellettuale e morale.

Gli anarchici si aggirano sul contrasto tra le condizioni sociali attuali e la illusione di far vivere in mezzo ad esse uomini perfetti e perfettamente coscienti che sarebbero gli antesignani della rinnovazione.

Intanto la definizione che essi cercano dare dei limiti dell’uso della violenza, conduce a porre in evidenza la tesi comunista della necessità di un Partito.

Per i comunisti è fatica sciupata fare disquisizioni sulla opportunità di sanzionare o condannare un atto di violenza.

Ma per far sì che le reazioni rivoluzionarie difensive e offensive della classe oppressa possano essere inspirate a una ragionevole proporzione di mezzo al fine, essi posseggono la soluzione concreta ed efficace dell’inquadramento nel Partito organizzato e disciplinato degli elementi di lotta della classe rivoluzionaria.

Perciò quella distinzione che non può trovarsi in astratte regole etiche né nella perfezione della coscienza e della valutazione di un individuo, sorge chiarissima e logica dalla condizione che la lotta e le sue fasi vengano dirette da un organismo collettivo che solo può realizzare una linea di azione razionalmente indirizzata al successo.

E questo organismo, il Partito, mentre svolge le sue forme di azione, non condanna ma spiega e cerca di inquadrare le tendenze spontanee che sorgono dalla massa ad azioni isolate e slegate, che si possono criticamente trovare mancanti (a meno che non si condannino in principio in base ad una morale tolstoiana) non di un certo crisma psicologico o etico, ma solo di una condizione reale: la disciplina collettiva.

Sulla valutazione della violenza

La nostra opinione

(“Il Comunista”, 10 luglio 1921)

Abbiamo voluto dar posto a questo scritto dell’amico Fabbri in merito ad una polemichetta tra noi e gli anarchici perché l’argomento è interessante e perché vogliamo così dimostrare che non è esatto che discutiamo le tesi proprie degli anarchici in base ad opinioni che noi stessi arbitrariamente attribuiamo loro.

È fuor di dubbio che mai abbiamo pensato o detto che l’anarchismo ripudi il metodo dell’impiego della violenza; si tratta appunto di intendersi sulla valutazione del limite che si pone a tale impiego, ed e qui che vediamo un lato debole nella posizione assunta dagli anarchici, che ci ha indotto a ricollegarlo alle altre loro tesi non condivise e criticate da noi marxisti.

Ragione, senso di responsabilità e coscienza del fine, ecco le condizioni che gli anarchici, almeno nei casi invocati dal Fabbri, pongono per la “utilità” della violenza, pur non rifuggendo dallo “spiegarsi” con gli stessi nostri argomenti tutti gli altri spontanei atti di violenza che sorgono dai membri della classe sacrificata per effetto delle sue condizioni di sfruttamento e di inferiorità. Questa ammissione è qualche cosa, ma non conduce essa ad una chiara conclusione per la condotta che devono tenere dinanzi a tali atti i rivoluzionari, cioè astenersi da superflue “sconfessioni” che sono indice di debolezza e fanno il gioco di speculazioni avversarie, contentandosi, per la distinzione delle responsabilità della “antecedente” precisa predicazione dei propri metodi di azione?

Ma riandiamo pure più addentro alla cosa. In chi deve essere questa valutazione del mezzo e del fine, questo giudizio critico sulla natura dell’atto da compiere? Nell’individuo o nel gruppo che lo progetta e lo esegue, sia pure influenzato da una chiara propaganda sulla natura di quei mezzi e di quei fini fatta da altri individui e da altri gruppi? Ed allora sarà facile mostrare che ogni atto terroristico si presenta a chi lo compie come mezzo per raggiungere un dato fine, attraverso un giudizio che se sarà molto probabilmente errato, lo sarà per quella tale ragione che menoma la profondità e la capacità critica di ogni sfruttato ribelle. Ogni atto dovrebbe allora essere accettato purché non fosse stato motivato da fini di interesse personale o da materiale irresponsabilità insita nell’individuo, assumendo in tale caso solo il carattere antisociale della “delinquenza”.

Ma se l’individuo e il gruppo in vista di un dato fine (terrorizzare, poniamo, la borghesia che detiene vittime politiche) crede opportuno un dato mezzo, chi si erigerà a giudice della valutazione di rapporti che sarà fatta da quelli? Essi erano soggettivamente convinti della corrispondenza del mezzo al fine, perciò hanno agito. Sconfessarli perché in realtà non era così, alla luce di un discernimento superiore al loro? È opera sterile perché non ha impedito l’“atto” né impedirà atti simili “antieconomici” per la causa rivoluzionaria. È opera vana perché il criterio che guida il vero, il giusto giudizio è imprecisabile, non può essere, come dicemmo, quello del danno ai terzi, e se non vuole essere un criterio di vuota astrazione etica (alla luce del quale c’è una sola soluzione giusta, la condanna di ogni violenza) deve essere un criterio tattico.

E che razza di tattica è quella che sta alla finestra per dire: possiamo condividere questa azione e non quell’altra, e di nessun mezzo oltre la propaganda e una vaga disciplina degli spiriti (assurda per gli “spiriti” di “corpi” sfruttati e tormentati) dispone per far sì che effettivamente gli atti si compiano secondo la utile corrispondenza al fine? Non vi è valutazione soggettiva di fine e mezzo, nel senso che tutte le valutazioni soggettive hanno eguale diritto ad essere riconosciute. L’attentatore ha fatto una cosa atroce e feroce finché volete ma non l’ha fatta per “guadagnarsi” qualche vantaggio personale col danno altrui. Su che cosa baserete una condanna che non sia: o viltà o complicità?

Ragione, responsabilità, perseguimento utile di fini, sono, amici anarchici, ed è qui che vi vogliamo (o ci giungete, o non sconfessate gli eccessi dell’azione individuale, dinanzi ai quali noi stessi abbiamo fieramente taciuto!), funzioni collettive. Ciò vuol dire che finché ogni uomo non sarà economicamente e quindi solo dopo “spiritualmente” redento, quelle condizioni si realizzano solo attraverso una disciplina che non sia una evanescente adesione a concetti più o meno efficacemente e concordemente propagandati da una “minoranza rivoluzionaria”, ma abbia carattere “organizzativo”; ossia corrisponda ad una effettiva “autorità”.

Solo un organismo che controlli, diriga e inquadri l’azione rivoluzionaria potrà “raccogliere le massime probabilità” di agire con mezzi utilmente proporzionati al fine; potrà “avvicinarsi” alla eliminazione delle violenze “inutili”. Perché questo organismo non esiterà a preordinare azioni anche di gravissime conseguenze quando l’insieme delle sue esperienze lo condurranno a ritenerle indispensabili per resistere all’avversario, e sopraffarlo, in base a criteri di freddo realismo che garantiranno gli “innocenti” assai più di una preparazione spirituale ed etica affidata al controllo soggettivo di chi ha “il diritto” di essere anche un esaltato. Perché tale organismo non pronunzierà inutili condanne a cose fatte ma tenderà ad evitare che si agisca da individui e gruppi slegati indipendentemente dalle sue decisioni, non piangerà ma cercherà di prevenire l’uso “irrazionale” della violenza.

Questo organismo avrà il diritto di riconoscere o meno la sua iniziativa in dati atti. Ma deve poter contare su di una disciplina effettiva e severa.

Affidare ad altro il gioco del controllo sulle conseguenze reali della predicazione della azione violenta, contare per questo su distinzioni postume ed inafferrabili, ecco in verità un mezzo che poco si confà al fine della vittoria rivoluzionaria, ecco in realtà – come legittimamente dicemmo e dobbiamo confermare – un indice sicuro di mancanza di reale comprensione del problema della emancipazione degli sfruttati nella sua prospettiva storica, per sostituirvi una imprecisabile concezione della emancipazione delle coscienze ereditata incoscientemente da filosofie borghesi.

Anarchici e comunisti

(“Il Comunista”, 24 luglio 1921)

Il giornale anarchico “Il Libertario” di Spezia, rileva la polemica svoltasi sulle nostre colonne, a proposito della violenza, con Luigi Fabbri, mostrando di condividere la distinzione del Fabbri tra violenza cieca e violenza “guidata dalla ragione, dal senso di responsabilità e dalla coscienza del fine”, senza che questa debba coincidere col concetto di violenza militarmente organizzata (e nemmeno escluderlo).

Questo argomento lo abbiamo abbastanza sviscerato per dovervi ritornare sopra. Vogliamo piuttosto rilevare brevemente un accenno del “Libertario”, laddove questo dice che il dissenso vero tra anarchici e comunisti è un altro: se la violenza debba restare solo e sempre insurrezionale per essere rivoluzionaria, come pensano loro, oppure possa restare rivoluzionaria anche se affidata ad un governo più o meno dittatoriale, come pensiamo noi.

Giustissimo che il vero e maggiore dissenso sta proprio qui.

Ma non è altrettanto giusto quanto subito dopo dice il detto giornale, e cioè tale punto mentre sarebbe stato trattato ampiamente dalla stampa anarchica, non sarebbe stato abbastanza sviluppato da quella comunista.

Per confutare questa affermazione basterebbe ricordare al “Libertario” non diciamo gli scritti fondamentali della Internazionale Comunista ampiamente tradotti negli ultimi tre anni dalla stampa nostra, dalle tesi dei congressi agli articoli e scritti dei migliori compagni esteri e al libro di Lenin sullo “Stato e Rivoluzione”, ma una serie di articoli e polemiche della stampa comunista italiana: ci limitiamo ad accennare quelle del “Soviet” e dell’“Ordine Nuovo” settimanale.

Vogliamo quindi dare solo brevi cenni a proposito, soprattutto per disilludere il nostro contraddittore anarchico e i suoi compagni di fede che noi possiamo mai comunque attenuare quella fondamentale nostra tesi che li trova fieramente avversi.

Se la distinzione sull’impiego della violenza del Fabbri non regge ad una critica attenta, quella generale degli anarchici tra violenza contro lo Stato e violenza di Stato (nel senso di negare la seconda come mezzo di azione della classe proletaria nella rivoluzione) è semplicemente la negazione della storia, e, per stretta conseguenza, della rivoluzione.

Deve essere tra noi e gli anarchici cosa pacifica che tutte le rivoluzioni che finora si sono svolte, sono consistite in un trasferimento del potere statale da una classe ad un’altra, da un gruppo all’altro, e che il gruppo protagonista della rivoluzione, appena vincitore, ha dovuto ricorrere alla dittatura ed al terrore contro il gruppo sconfitto, ma tuttora lottante per una restaurazione del suo potere, per una rivincita sulla rivoluzione.

Ma, dicono trionfalmente gli anarchici, è appunto per questo che tutte le rivoluzioni non hanno segnato la definitiva emancipazione degli oppressi e degli sfruttati, in quanto, dando nascita a nuove forme di potere statale, hanno costituiti nuovi rapporti di dominazione e di sfruttamento. Se la rivoluzione proletaria deve segnare la fine di ogni sfruttamento, essa non deve dar vita ad una nuova forma di Stato, ma sopprimere lo Stato…………

Anche noi marxisti diciamo che la rivoluzione proletaria deve sopprimere lo Stato, e che questo ne sarà il risultato finale. Ma dire che lo Stato sarà soppresso, non è la stessa cosa che dire: si potrà fare a meno della forza statale per gli scopi della rivoluzione.

Perché la rivoluzione proletaria sopprimerà lo Stato? Non già perché, secondo (speriamo di non sollevare la solita indignazione con questa frase) la mentalità antistorica degli anarchici, essa sia la “vera” rivoluzione che finalmente eviterà l’errore delle rivoluzioni precedenti e realizzerà la formula bakuniana di non far sorgere né costituenti né dittature, abbattendo lo Stato, lo Stato in sé, e non una data forma di Stato.

La rivoluzione proletaria giungerà a sopprimere lo Stato per ben altre condizioni reali, che nelle passate rivoluzioni non esistevano, e che le danno la possibilità di “sopprimere la divisione della società in classi sociali”. Questa prospettiva era impossibile per quelle rivoluzioni che non avevano il loro punto di partenza nella situazione oggi rappresentata dallo sviluppo del capitalismo.

Ciò che metterà in grado il proletariato rivoluzionario vincitore di pervenire alla soppressione delle classi e dello Stato non sarà la sua avvedutezza di non permettere la costituzione di un potere rivoluzionario, ma una condizione di ordine reale economico, ossia la esistenza di un tale ingranaggio produttivo da poter essere amministrato da una società che non presenti sfruttamento del lavoro.

È pacifico tra anarchici e noi che questa società non può sorgere dai rapporti attuali di produzione, se non si abbatte il potere dello Stato capitalistico. Ma il loro errore è di vedere contemporanea la morte del capitalismo con quella dello Stato capitalistico. Se lo Stato attuale è la conseguenza e non la causa del sistema economico capitalistico e della divisione attuale della società in classi, è evidente che, se è vero che quando avremo soppresso la economia capitalistica e la suddivisione della società in classi, lo Stato sarà morto, non è invece affatto da aspettarsi che, abbattuto lo Stato borghese, sia risolto il problema della soppressione della economia capitalistica e della esistenza di classi sociali contrastanti.

La soluzione di questo problema non può essere istantanea come il rovesciamento del potere borghese. Essa è il risultato di un lungo processo storico di trasformazione, operata dalla energia del proletariato. Durante questo processo, e specialmente nella prima fase di esso, quando la borghesia ha maggiori possibilità di risollevarsi, esso è garantito solo da una organizzazione di forza proletaria che è lo Stato, la dittatura di classe.

Lo Stato non muore in una rivoluzione. In tutte le rivoluzioni lo Stato “si capovolge”. Lo Stato muore per lento esaurimento delle sue funzioni. La rivoluzione proletaria è la sola, la prima, che inizia questo “esaurimento”, dopo avere, come le altre, cominciato da una pura utilizzazione della forza statale.

Non è certo il caso di insistere sulla dimostrazione di tutto ciò. Val la pena però di ricostruire il curioso modo di ragionare degli anarchici. Essi concepiscono che la violenza rivoluzionaria insurrezionale è oggi indispensabile in una lotta tra borghesia e proletariato.

Che cosa vuol dire che la violenza dopo il rovesciamento dello Stato borghese non resta rivoluzionaria “se affidata ad un governo”?

Forse che sarà rivoluzionario lasciar risorgere lo Stato borghese senza opporvisi? Questo certo no. Ma il concepire questa lotta, tra una classe che vincendo non esiterà a costituire la sua dittatura più terroristica, assetata di vendetta (la borghesia) ed una classe opposta, che in omaggio al principio anarchico rinunzi vincendo alla dittatura statale che immobilizza l’avversario, è forse rivoluzionario, quando equivale evidentemente a lasciare all’avversario della rivoluzione un incalcolabile vantaggio nella lotta?

Come risulta dalle stesse parole del “Libertario”, una organizzazione militare, ossia disciplinata e gerarchica, è indubbiamente una condizione di maggiore successo nella lotta contro una organizzazione analoga avversaria, che non l’azione slegata ed informe. Ora se gli anarchici cominciano ad arrivare a questo concetto: “organizzare militarmente la violenza insurrezionale” vuol dire che essi stanno per darci totalmente ragione.

Questa organizzazione militare si dovrà liquefare appena l’avversario, lo Stato borghese, avrà piegato? Ed allora i controrivoluzionari non si daranno subito ad organizzare una “violenza militarmente organizzata” che tanto più facilmente vincerà, in quanto non avrà di contro una organizzazione stabile? Converrà, rivoluzionariamente parlando, che il proletariato non renda permanente la sua organizzazione militare, in modo da reprimere ogni indizio di organizzazione avversaria, con difficoltà, sforzi e vittime assai minori?

Ora, amici anarchici – quando mancasse ogni altra ragione dipendente dai complessi rapporti tra l’avanguardia rivoluzionaria delle masse e gli innumeri residui di antisocialisti lasciati come lunghissimo retaggio dal capitalismo, per dimostrare indispensabile lo Stato proletario – basterebbe avervi condotto a questo. Una organizzazione militare permanente anche nei momenti in cui la lotta tace, e per impedire che l’avversario la ridesti utilmente; ecco in verità, lo Stato, nella sua interezza. È vano fare gli scongiuri…

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Conflitti Globali

Appello alla mobilitazione in sostegno alla popolazione di Gaza ed alla resistenza palestinese

Ci appelliamo a tutt3 coloro che vogliono sostenere la resistenza del popolo palestinese per difendere una prospettiva universale di autodeterminazione, uguaglianza, equità e diritti.

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Sfruttamento

Lavoro: maxi-sequestro a GS (Gruppo Carrefour). Quale futuro attende lavoratori e lavoratrici?

Si arricchisce di ulteriori dettagli il maxisequestro della Procura di Milano (65 milioni di euro) a Gs spa, il gruppo di 1.500 supermercati italiani di proprietà del colosso francese Carrefour.

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Conflitti Globali

Attacco iraniano a Israele: quali conseguenze per il Libano?

Lo Stato ebraico potrebbe intensificare la lotta contro Hezbollah, ma secondo gli esperti una guerra aperta sul territorio libanese è improbabile.

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Formazione

Sapienza: un racconto della giornata di ieri (17 aprile)

Il 17 aprile in Sapienza è stata una giornata di lotta e smascheramento dei rapporti che l’università coltiva (e non vuole interrompere) con la guerra e Israele.

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Editoriali

Cosa vuol dire un’università libera?

In TV e sui giornali si è scatenata la canea mediatica nei confronti degli studenti e delle studentesse universitarie che richiedono la fine degli accordi di ricerca militari o di dual use con le università israeliane.

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Culture

Altri Mondi / Altri Modi – Conclusa la seconda edizione. Video e Podcast degli incontri

La seconda edizione del Festival Altri Mondi/Altri Modi si è chiusa. E’ stata un’edizione intensa e ricca di spunti: sei giorni di dibattiti, musica, spettacoli, socialità ed arte all’insegna di un interrogativo comune, come trovare nuove strade per uscire dal sistema di oppressione, guerra e violenza che condiziona quotidianamente le nostre vite?

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Conflitti Globali

Paese Mapuche: il popolo mapuche convoca una marcia a Temuco contro un megaprogetto elettrico

Viene convocata anche per chiedere la fine della promulgazione e dell’applicazione di leggi che cercano di fronteggiare i genuini processi di rivendicazione territoriale che comunità e Pu lof portano avanti in attesa della ricostruzione e liberazione nazionale mapuche.

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Crisi Climatica

Gavio e ndrangheta. Le mani dei boss del cemento su TAV ed autostrada

Facciamo il punto su quanto emerso finora dall’indagine Echidna che ha scoperchiato il vaso di pandora dei rapporti tra politica, criminalità organizzata e imprenditori in Piemonte nel segno del cemento.