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Padre Pio se ne va

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23 settembre 1968 moriva Francesco Forgione, noto con il nome di “Padre Pio”. In questo post distruggiamo pezzo per pezzo tutta la leggenda su uno dei più grandi truffatori del ventesimo secolo.

“Da vivo la Chiesa lo definì ufficialmente un impostore. Da morto è stato subito beatificato e a tempo di record santificato. Un altro miracolo postumo di padre Pio? No: è il fiume di miliardi originato dalla leggenda del frate miracoloso, un enorme business che ha lavato l’impostura e ha fatto assurgere il frate di Pietrelcina alla santità. La Chiesa di Roma, ridotta a una vera e propria “industria di anime”, è ormai votata al Dio denaro. E dunque, il business le ha consentito di trasformare un impostore in un santo. Del resto, il solo vero miracolo del frate con le stigmate-fantasma è stato ed è quello affaristico: un giro di denaro enorme, con le diramazioni più impensabili, il cui epicentro è a San Giovani Rotondo e la regia in Vaticano. Tutt’intorno un corollario di intrighi, maneggi e scandali”

(Mario Guarino, da “Santo Impostore”)

Chi è Padre Pio, al secolo Francesco Forgione (Pietrelcina, 25 maggio 1887 – San Giovanni Rotondo, 23 settembre 1968)? Quasi chiunque ha una vaga idea di chi sia e delle controversie che l’hanno interessato, esposte in pamphlet polemici come “Santo impostore” di Mario Guarino. Il lavoro di Mario Guarino si basa soprattutto su fonti cattoliche: libri agiografici, entusiasti oltre ogni limite, e documenti ecclesiastici: quasi sempre, invece, dai contenuti particolarmente negativi nei confronti di padre Pio.

Guarino accumula così un’impressionante mole di notizie che rendono il frate delle stimmate un personaggio terreno, assolutamente terreno nei suoi comportamenti, tale da rendere veramente discutibile la sua beatificazione anche da un punto di vista fideista: dalle finte malattie per evitare il trasferimento in un convento sgradito alle raccomandazioni per evitare il servizio militare.

Nella sconfinata mole di libri prodotti sul frate cappuccino—dalle agiografie ai testi in cui la critica sfocia nel complottismo, ce n’è uno che aiuta a farsi un’idea abbastanza obiettiva: si tratta di “Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento”, un libro critico ma ricercato e senza eccessi polemici, del già citato Sergio Luzzatto, uscito nel 2007 per Einaudi. Oltre alle stigmate, su cui Luzzatto non si esprime, le principali controversie intorno alla figura di padre Pio riguardano i rapporti con il clerico-fascismo, il culto della personalità sconfinato presto in affarismo e la lotta pluridecennale con le gerarchie vaticane—tutti elementi toccati nell’analisi dello storico, che da diversi anni non rilascia più interviste sul tema. Attraverso i due testi si possono segnalare i seguenti punti critici.

Il punto di partenza è la leggenda delle stigmate sul corpo del frate, che sarebbero apparse nella cella del convento cappuccino di San Giovanni Rotondo nell’autunno del 1918. La voce dell’inaudito dono si sparse e il convento entrò ben presto in subbuglio per l’enorme affluenza di fedeli. Dopotutto, scrive Luzzatto, quel particolare periodo storico era “enormemente bisognoso di sacro”, e padre Pio “ricevette le stigmate quando la morte andava bussando a tutte le case di San Giovanni, del Gargano, della Puglia, dell’Italia, dell’Europa.” Ai primi problemi di ordine pubblico — che in una relazione del 1919 il prefetto di Foggia addita al “fanatismo dei credenti,” i quali “fanno ressa enorme attorno al monaco, affetto da grave tubercolosi polmonare, e raccattano gli sputi sanguinolenti che questo emette” — si affiancarono anche le prime avvisaglie del “prolungato, spesso drammatico confronto” tra il Vaticano e padre Pio, che rischierà di trascinare in una faida l’intera istituzione religiosa e si concluderà solo negli anni Sessanta. Dalla primavera del 1919, infatti, i dubbi sull’attendibilità del frate si fecero insistenti. In un articolo uscito su Il Mattino e scritto dal professore Enrico Morrica, andato in visita al convento, si sosteneva che le ferite di padre Pio presentavano un alone del “colore caratteristico della tintura di iodio passata sopra epidermide fisiologica,” e che nella cella del cappuccino era stata trovata una bottiglia di “acido fenico commerciale nero (ricorda colore stigmate).”

Due testimonianze raccolte dal vescovo di Foggia — il farmacista Valentino Vista, titolare di una farmacia del centro, e della cugina Maria De Vito — gettarono un’ulteriore ombra su padre Pio. Vista, infatti, raccontava che De Vito “mi portò i saluti di Padre Pio e mi chiese a nome di lui e in stretto segreto dell’acido fenico puro.” La circostanza è confermata da un foglietto autografo di Padre Pio indirizzato alla donna e ritrovato da Luzzatto, in cui il frate scrive: “Vengo a chiederti un favore. Ho bisogno di aver da duecento a trecento grammi di acido fenico puro per sterilizzare.” Tutto ciò azionò, nel 1921, la prima inchiesta vaticana, vista dall’agiografia come l’inizio della “grande persecuzione”, su padre Pio: il Sant’Uffizio (l’attuale Congregazione per la Dottrina della Fede) mandò un inviato apostolico a San Giovanni Rotondo e nel 1922 furono applicate pesanti restrizioni sacerdotali al frate. Visto che però queste misure non erano servite a nulla — la devozione popolare continuò indisturbata, così come il vorticoso giro di offerte dei fedeli — l’anno seguente il Sant’Uffizio decise di rendere pubbliche le durissime risultanze dell’istruttoria, in cui si sosteneva che “il carattere soprannaturale di tali fatti [le stigmate] non è stato constatato,” e si esortavano “i fedeli a conformare i loro atti alla presente dichiarazione.” La minaccia di un trasferimento compattò “un po’ tutti coloro per i quali la quotidiana presenza del frate stigmatizzato rappresentava una ragione di vita,” che scesero in piazza in sua difesa. Tra questi c’erano anche molti reduci della prima guerra mondiale e i fascisti della zona. Il rapporto tra Padre Pio e fascisti era d’altronde in via di consolidamento.

Il 14 ottobre 1920, nel pieno del cosiddetto biennio rosso, avvenne una strage a San Giovanni Rotondo: la polizia sparò sui socialisti e causò addirittura 14 morti e un centinaio di feriti. Le violenze furono causate da un gruppo di “Arditi di Cristo” dell’entourage del frate per protestare contro la legittima vittoria nelle elezioni comunali del partito socialista. Nel corso della manifestazione in piazza dei Martiri, i socialisti furono provocati dal Fascio d’ordine, una coalizione composta da popolari cattolici, reduci ed ex combattenti. Poco prima, il 15 agosto, padre Pio aveva benedetto le bandiere delle associazioni combattentistiche — un gesto che di fatto suggellò “una dinamica di interesse nazionale e di portata epocale, la lotta senza quartiere fra reducismo e socialismo.” Dopo il massacro, inoltre, nell’entourage di padre Pio entrò il “capo dello squadrismo foggiano” Giuseppe Caradonna, in quello che fu “l’abbozzo provinciale di quello che il clerico-fascismo sarebbe poi divenuto su scala nazionale.”

Nel 1924, il prete-scienziato Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e deciso detrattore di padre Pio, scrisse un durissimo documento in cui il cappuccino era descritto come una persona affetta da “deficienza mentale di grado notevole,” e le cui piaghe erano “dovute all’erosione mediante caustici.” Nella primavera del 1931, poi, si giunse al culmine della “persecuzione”: su proposta del Sant’Uffizio, papa Pio XI dispose per padre Pio la sospensione a divinis. A poco più di dieci anni dal suo inizio, anche a causa le misure dell’autorità vaticana, il culto intorno al frate era dunque in estrema difficoltà. Ma è proprio a questo punto che, nella storia ufficiosa di padre Pio, diventa decisivo un personaggio su cui l’agiografia ufficiale tende a glissare: Emmanuele Brunatto. Lo storico lo definisce il “Pietro” dell’alter Christus di Pietrelcina, “l’apostolo primo e maggiore,” nonché il “fondatore del culto organizzato.” È a lui, per esempio, che si deve una delle prime agiografie del futuro santo — un libro uscito nel 1926, per una casa editrice fascista, che diventerà il modello di tutte le agiografie di padre Pio. Ed è sempre a lui che si deve lo strabiliante sviluppo postbellico del culto di padre Pio, grazie soprattutto “all’investimento sul contenuto politico di un fenomeno religioso, attraverso il coinvolgimento dell’intellighenzia fascista nella diffusione della vox populi su padre Pio.”

Di particolare interesse le pagine dedicate alla “Operazione Candelabri” per impedire il trasferimento del frate: il podestà fascista e un Brunatto fecero stampare all’estero un libello diffamatorio nei confronti delle gerarchie vaticane e misero in piedi un intricato ricatto ai danni del Vaticano, minacciando di pubblicare dei libelli sugli scandali, veri o presunti tali, di alti prelati, che qualcuno ha definito il Vatileaks dell’epoca. Il ricatto andò a segno e padre Pio poté tornare alle sue normali attività. Brunatto, che nel frattempo si era stabilito a Parigi, diventò prima della seconda guerra mondiale una spia del regime fascista in suolo francese, e poi assunse le vesti di collaborazionista dei nazisti nella Francia occupata. Tra il 1940 e il 1941 si dedicò all’attività di trafficante sul mercato nero. Dopo aver tirato su una fortuna, Brunatto dimostrò di non essersi dimenticato di padre Pio. Nel giugno del 1941 inviò un versamento di tre milioni e mezzo di franchi al “comitato per la costruzione della Clinica di San Giovanni Rotondo”, ossia l’ospedale che da parecchi anni padre Pio voleva costruire a ridosso del convento e che sarà completato nel 1956 con il nome di Casa Sollievo della Sofferenza. La realtà storica, chiosa Luzzatto, è che “il benemerito ospedale del frate con le stigmate affonda i propri natali finanziari, letteralmente, nell’alcol con cui il collaborazionista Brunatto innaffiò i banchetti parigini di una Wehrmacht trionfante.”

Non manca neanche, nel 1957, una truffa miliardaria rifilata dal solito “buon finanziere cattolico” ai cappuccini di San Giovanni Rotondo. Frati legati al voto di povertà che, abbagliati dalla promessa di lucrosi tassi d’interesse nell’ordine del 70 per cento, vengono raggirati senza che i tanto millantati poteri soprannaturali fossero di alcun aiuto al futuro santo al fine di scongiurare l’imbroglio. L’ospedale “Casa Sollievo della Sofferenza”, fondato dal frate, dopo le sue disavventure finanziarie nel corso degli anni Settanta che costrinsero il Vaticano a intervenire, è ora una struttura di potere politico che incassa, annualmente, diversi miliardi dallo Stato e dalla Regione Puglia, diversi dei quali girati (come provvigione?) al Vaticano stesso. Quanto al convento, si narra degli otto miliardi affidati dai fedeli per costruire una nuova chiesa e svaniti nelle mani dell’ennesimo “buon finanziere cattolico”, delle concessioni edilizie concessegli in deroga al Piano Regolatore, nonché del business legato a souvenir e gadget varî: un mercato, del resto, fiorito molti anni prima, vivo il padre, con il mercimonio – invero “pulp” – delle pezzuole di stoffa usate per tamponare le sue stimmate insanguinate. Nel racconto l’abilità dimostrata nello sfuggire a ogni verifica scientifica delle fantomatiche stimmate riconduce, inoppugnabilmente, la vita di padre Pio a quella di un comune mortale, con i suoi vizî (tanti) e le sue virtù (discutibili).

L’ardore delle masse dovuto ad ignoranza, superstizione e alienazione religiosa ha però fatto sì che il culto di padre Pio decollasse definitivamente nel dopoguerra, sospinto dall’orizzonte di attesa miracolistico degli anni ’50-60 e, sul versante più pop, dai rotocalchi e dalla diffusione dei media di massa. Tra il frate e la gloria eterna, che sembrava ormai assicurata, rimanevano solo due ultimi ostacoli: la residua ostilità dentro il Vaticano e papa Giovanni XXIII, che lo considerava un “idolo di stoppa.” Nel 1960, continua Luzzatto, alcuni avversari del frate piazzarono dei registratori nella cella per “spiare i risvolti più intimi nella vita dell’altro Cristo.” Le bobine, che secondo Giovanni XXIII avevano catturato “rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana,” portarono a un’altra inchiesta vaticana su padre Pio, ormai ultrasettantenne. La relazione finale di monsignor Maccari fu devastante: il “fanatismo” intorno al frate dava sempre più luogo a “fermenti di idolatria e forse anche eresie,” e le dimensioni del fenomeno avevano ormai assunto il carattere di “un’industria” oscillante tra “la superstizione e la magia”. L’atteggiamento ambiguo dello stesso padre Pio, inoltre, non faceva che alimentare tutto ciò: il frate era pienamente inserito nella macchina della propaganda. Ed è stata proprio quest’ultima, a forza di campagne stampa, ad aver annullato l’ultima controffensiva vaticana. Dopo la morte del frate avvenuta nel 1968 (a stigmate scomparse), il Vaticano decise che era arrivato il momento di “appropriarsi” una volta per tutte del brand padre Pio. Del resto, come scrive Luzzatto, “l’importanza di padre Pio nella storia religiosa del Novecento è attestata dal mutare delle sue fortune a ogni morte di papa.” L’apice di questa fortuna arrivò con Giovanni Paolo II, che aveva una grandissima ammirazione per il frate di Pietrelcina. Come spiega Luzzatto la beatificazione del 1999, seguita dalla canonizzazione, da un lato serviva a rilanciare l’immagine di un “cattolicesimo ancora fresco alla vigilia del terzo millennio”; mentre dall’altro a occultare “per sempre il carattere complicato, difficoltoso, lacerante, dell’esperienza di padre Pio in quanto santo vivo.” La trasformazione in santino intoccabile, insomma, era ormai completata.

 

Fonte: I maestri del socialismo

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