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La libertà vigilata della comunicazione

di Benedetto Vecchi per Il Manifesto

Il premier inglese David Cameron li ha subito indicati come strumento usato irresponsabilmente dalla «feccia» che ha impazzato nelle città inglesi, chiamando in aiuto chi li produce affinché vengano prese le giuste misure per regolamentarli. Così, in una manciata di giorni, i social network sono passati dallo status di mezzi mirabili della libertà di espressione a gadget infernali.

È dalla breve stagione delle primavere arabe che i social network sono elevati al settimo cielo per poi essere gettati nella polvere. Incensati quando usati per cacciare un tiranno, osteggiati quando trasformati in canale comunicativo da chi mette in discussione l’ordine sociale nelle democrazie liberali. Se la comunicazione on line procede senza mettere in pericolo di rapporti di potere, e sociali, non costituisce una minaccia. Se invece ha come oggetto la critica all’ordine esistente, rappresenta una fonte di pericolo che va disinnescato, magari oscurandoli, come propone David Cameron. Più interessante, invece, è il rapporto che intercorre tra i social network e quando accade al di fuori dello schermo. Su questo nodo, tanto teorico che politico, la discussione in Rete non è mai cessata da quando cominciarono ad essere messi al centro dell’attenzione l’uso sempre più frequente da parte dei movimenti sociali per comunicare e talvolta organizzare le loro azioni. I case studies sono ormai talmente tanti che serve solo citare, appunto, le primavere arabe., spesso qualificate come Twitter Revolution o Facebook Revolution.

È indubbio che in quelle occasioni i social network sono stati usati da chi occupava Piazza Tahir o da chi, a Tunisi, occupava le pizza, costringendo così Bel Ali ad abbandonare il paese. E tuttavia i social network non sono tecnologie neutrali. Twitter, Facebook, Google sono infatti imprese, mentre la Rete è un sistema di macchine immanente alla produzione di merci. Non sono cioè «zone temporaneamente autonome», ma il contesto in cui di dipana il regime di accumulazione capitalistico. Facebook, Google, Twitter sono imprese al pari di General Motors, Coca Cola, Nike. Le differenze tra di essere riguardano le merci prodotte e quello che viene comunemente chiamato il «modello di business». Nei social network hanno la comunicazione è la materia prima, nonché il prodotto finito. È questa specificità che costituisce un vero rompicapo. In primo luogo i social network devo incentivare e facilitare il loro uso. Per fare questo, investono centinaia e centinaia di milioni di dollari, o euro, per renderli più accattivanti, semplici da usare. Allo stesso tempo, rendono disponibili, gratuitamente, servizi affinché gli utenti diventino sempre più fedeli, al punto che sono connessi in Rete attraverso solo e soltanto attraverso un social network. Ma la fedeltà ha un prezzo da pagare per le imprese: una relativa libertà di espressione e dispositivi di controllo abbastanza «timidi», anche se recentemente sono stati denunciate censure da parte di alcuni social network – in primis Facebook – verso contenuti ritenuti non ortodossi. Per garantire tutto ciò le imprese devono garantire banda larga, software adeguati, i aggregatori di notizie. Il termine tecnico per indicare tutto ciò è cloud computing , l’orizzonte in cui si addensano strategie imprenditoriali e strategie dei movimenti sociali che cercano di condizionare il flusso delle informazioni, riversando nei social network i loro contenuti «ribelli».

Per questi motivi, è un azzardo teorici definire i social network come esempio di libertà assoluta. Più semplicemente, nell’uso di Facebook, Twitter, Google e Yahoo!, senza omettere Microsoft, è presente sia un esercizio della libertà di espressione, ma anche la sua riconduzione a precise strategie di trasformazione di quei contenuti in merce, e contenuto innovativo ceduto gratuitamente alle imprese, che si appropriano di quel lavoro gratuito sviluppato dalla cooperazione sociale presente on line.

È questa ambivalenza che molti governi vorrebbero sciogliere e normalizzare. Non sempre ci riescono, perché incontrano le resistenze degli utenti dei social network, gelosi di quella libertà di espressione e di quei contenuti prodotti in Rete, che difendono anche contro i tentativi di trasformarla, appunto, in proprietà delle imprese. È questo il conflitto più radicale che avviene in rete, assieme a quello contro il regime della proprietà intellettuale. È dunque una libertà vigilata, quella operante in Rete.

Nelle settimane scorse su alcune liste di discussione storiche della Rete c’è chi ha messo in evidenza che Internet tende a restituire una rappresentazione falsata e «addomesticata» della realtà sociale. Qui l’equivoco è massimo. I social network possono essere considerati un rispecchiamento elaborato della realtà, non la sua proiezione virtuale. È questa elaborazione che fa dei social network un potente dispositivo di codificazione dei rapporti di forza e sociali presenti al di fuori dello schermo. Non serve quindi parlare di verità quando si parla di Rete, bensì occorre individuare i meccanismi, le logiche che attengono a quella elaborazione della realtà che avviene nei social network. Ma in questo caso, il discorso si sposta su cosa significa egemonia, consenso e punto di vista. Perché ciò che accade al di fuori dello schermo subisce i condizionamenti di quanto avviene nei social network. Sono cioè momenti distinti di uno stesso movimento: quello che vede un conflitto per stabilire l’egemonia culturale all’interno delle società.

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