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Ferguson – Dentro e contro l’America di Obama

Intervista a SAM ANDERSON – di LENORA HANSON e GIGI ROGGERO (Commonware)

 

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Per approfondire la nostra analisi su Ferguson abbiamo intervistato Sam Anderson, tra i fondatori della sezione di New York del Black Panther Party, da anni impegnato sul terreno della formazione radicale e attivo nel gruppo Black Left Unity Network. L’intervista, come gli altri materiali che stiamo pubblicando, ci permette di inquadrare la sollevazione di Ferguson all’interno di una genealogia lunga, identificandone potenzialità e problemi, per discutere dei compiti militanti di inchiesta e di organizzazione.

Cominciamo da un’analisi complessiva di quello che sta succedendo a Ferguson. Ovviamente questo caso di brutalità della polizia non è affatto isolato, simili atti di violenza contro neri e poveri si ripetono quotidianamente da parte degli apparti di potere. Ciò che è fuori dall’ordinario è il livello della grande resistenza e la rivolta della comunità nera. Quali sono allora le differenze e le peculiarità di questa sollevazione?

Ci sono molti fattori da considerare nelle sollevazioni spontanee. A Staten Island Eric Garner è stato filmato mentre veniva soffocato e ucciso, è successo un paio di settimane prima dell’assassinio di Michael Brown nel Missouri. Tutti nel mondo l’hanno visto, compresi i giovani di Ferguson. Le condizioni a Ferguson sono però molto ancora peggiori di New York. Sì, è vero che a New York c’è una polizia in grande maggioranza bianca e brutale, ma a Ferguson, una piccola comunità, ci sono solo tre poliziotti neri e gli sbirri bianchi hanno una storia di inequivocabile terrorismo e brutalità nella comunità, soprattutto tra i giovani. Quando è avvenuta l’uccisione di Michael Brown era pieno giorno, la gente ha visto il poliziotto compiere l’esecuzione, poi è rimasto là per tre o quattro ore. Tutti quei giovani sono diventati sempre più arrabbiati, non potranno mai toglierselo dalla mente. E così è iniziata questa ribellione spontanea. A esacerbare ancor di più la rabbia è il fatto che i poliziotti hanno risposto con la militarizzazione, con le unità speciali anti-terrorismo, i tank e tutto il resto. Dunque, i giovani erano già alienati a diversi livelli e quando i “leader neri” sono arrivati non potevano entrare in relazione con loro, quando si sono incontrati nella chiesa non li hanno nemmeno invitati a entrare. Le cose si erano già divise da due o tre giorni, i giovani erano arrabbiati e pronti a fare qualcosa. Sono questi alcuni dei fattori esplosi in questa ribellione di massa che non si sta affatto placando, a meno che da una parte, quella dei giovani, ci sia più mobilitazione e organizzazione, superando la spontaneità; oppure che, dall’altra parte, lo Stato aspetti che i giovani si fiacchino e la ribellione si esaurisca. Quindi, al momento sono queste le due alternative. Ma sembra che l’apparato statale voglia continuare a provocare per cercare di contenere, con mezzi militari, la ribellione e l’indignazione. Non funzionerà, ci sarà un’escalation. E porterà più morti e probabilmente più ribellioni spontanee in altre città quando vedranno come stanno le cose.

Hai detto che uno dei risultati di questa sollevazione spontanea a Ferguson potrebbe essere una forma di organizzazione o comunque di risposta organizzata. Hai in mente degli esempi recenti o storici che potrebbero costituire un precedente per ciò che sembra emergere, oppure pensi che ci sarà un nuovo tipo di organizzazione rispetto a quelle degli ultimi due decenni? Fin dagli anni ’70 e ’80 molti lamentano la perdita di un’organizzazione militante radicale nera…

Il centro rivoluzionario nell’America nera, di comprensione dei bisogni di organizzazione e analisi rivoluzionaria, non è più tra i giovani. È tra coloro che hanno 60 e più anni, che erano giovani negli anni ’60 e ’70. La sua ricostruzione va inquadrata in un processo complesso, che richiede tempo e che può essere accelerato da questo tipo di eventi. L’uccisione di Trayvon Martin ha contribuito a mettere insieme gruppi di giovani, formando un gruppo di protesta che però non ha ancora raggiunto basi rivoluzionarie e militanti. È solo un gruppo di protesta. Ovviamente questo gruppo, il Dream Defenders, ha ora dei rappresentanti a Ferguson. Per i giovani è un gruppo che ha il senso della militanza e che può interagire con le persone di Ferguson. Sul piano locale c’è la Organization of Black Struggle, che probabilmente cercherà di sviluppare qualche forma di organizzazione e base militante radicale. Lo svantaggio è che nel 2014, al contrario del 1974 o del 1964, abbiamo un’ampia maggioranza di giovani neri che sono analfabeti e non sono interessati ad alfabetizzarsi. Non era così 40-50 anni fa: c’era analfabetismo, ma c’erano anche persone che erano disposte e desiderose di imparare i fondamenti. È questa la sfida che ci troviamo di fronte, trasformare i giovani dal guardare e capire le cose solo sul livello dei caratteri di Twitter a un’analisi un po’ più estesa che li aiuti a costruire un movimento. Ma l’altro fattore è che i giovani adesso si percepiscono e comprendono di essere non diversi dai giovani di Gaza, e ciò potrebbe essere un elemento su cui lavorare e costruire.

Qual è la composizione di classe nella rivolta di Ferguson? Possiamo dire che la rivolta di Ferguson è davvero lotta di classe?

Non è un riot. La polizia fa riot, il popolo si ribella. La composizione di Ferguson è parte del più ampio contesto di St. Louis, che è in primo luogo una comunità di classe operaia, fatta di case private mescolate a complessi di edilizia pubblica. Rispetto alla comunità nera in termini di classe, si può dire che vive una situazione di depressione economica o di comunità depressa. Il tasso di disoccupazione giovanile è intorno al 60-65% per coloro che hanno tra i 18 e i 25 anni. Dunque, 10-12 anni fa c’era una comunità nera e di classe operaia in ascesa, che tentava di diventare ceto medio; quando la situazione economica ha iniziato a precipitare, tra il 2008 e il 2010, si sono persi posti di lavoro e case, è stata chiaramente devastata. È questa la realtà di quella comunità.

Possiamo anche dire che la ribellione di Ferguson è la fine definitiva dell’illusione di Obama?

Sì, suppongo di sì. Come ho detto prima, i giovani erano e sono alienati, quindi può esserci stato entusiasmo per Obama nel 2008-2009, in quanto primo presidente nero. Ma quando è entrato in carica e non hanno visto assolutamente nulla eccetto miseria, disoccupazione e ancor più brutalità poliziesca, allora hanno ignorato tutto ciò che avveniva con il presidente. Qualsiasi cosa abbia fatto non li ha in alcun modo aiutati. Anche prima dell’annuncio di Obama della campagna “My Brother’s Keeper”[1], si presentava ai neri solo per rimproverarli. Ogni volta che parla e fa direttamente riferimento a loro, è sempre per dare la colpa ai giovani neri. Quando è stato formato “My Brother’s Keeper” il nucleo centrale invitato a comporlo non era fatto di organizzazioni di base delle comunità che negli Stati Uniti lavorano realmente con i giovani, con uomini e donne nere. Erano invece i tipi educati e aziendali affiliati ai gruppi privati, la Urban League, la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) e i gruppi più sicuri. Gli altri non sono stati invitati a far parte del programma. Va detta anche un’altra cosa riguardo alla crisi della formazione nelle comunità urbane di neri e latinos: la tendenza è aziendalizzare e privatizzare l’istruzione pubblica e ignorare il fatto che gli insegnanti neri stanno scomparendo, ci sono sempre meno programmi che trattano la storia e la cultura di neri e latinos nel sistema scolastico. C’è quindi il livello dell’alienazione politica per quello che Obama sta facendo sul piano nazionale, e il livello dell’alienazione sul piano educativo.

Prima dicevi che c’è una mancanza di alfabetizzazione o autoformazione tra i giovani negli Stati Uniti oggi; qualche giorno fa è uscito un interessante articolo di Dianne Ravitch che analizza il fallimento sistemico della formazione a Ferguson. Descrive come in una comunità povera ci fossero solo due vestiti per il diploma che gli studenti dovevano passarsi per le foto, e uno di questi studenti era Michael Brown. Come dicevi, innanzitutto vi è una diffusa privatizzazione di quella che era la formazione pubblica negli Stati Uniti. Dall’altra parte, c’è forse un basso livello di autoformazione politica o formazione militante. In questo contesto, come possiamo pensare il rapporto tra sapere e ribellione, o tra sapere e formazione di una soggettività radicale negli Stati Uniti?

È il compito delle forze radicali intervenire in modo sistemico e sistematico. Penso che sia un lavoro già cominciato, in particolare a St. Louis da quello che vedo, ma è ancora in potenza. Inoltre, necessita di essere costruito sul piano nazionale e non restare isolato a Ferguson; a New York stiamo provando a fare la stessa cosa, per rivitalizzare il movimento radicale della comunità nera attraverso al formazione dei giovani. Comunque, il pezzo di Ravitch centra il punto. Come ho detto, adesso l’obiettivo del Dipartimento dell’Educazione degli Stati Uniti e della maggior parte dei dipartimenti locali è quello di privatizzare la formazione e permettere alle forme aziendali di rendere tutto “charter”[2], portando al contempo insegnanti, prevalentemente bianchi, da Teach for America, totalmente alienati dai giovani che pretendono di educare. Abbiamo quindi a che fare con una lotta su molteplici livelli. L’altra componente che per fortuna non sta funzionando a Ferguson è quella più conservatrice, la leale opposizione della gente nera espressa attraverso NAACP, Urban League, Al Sharpton; non possono contenere la ribellione spontanea e non possono ottenere che i giovani li ascoltino e si ritirino. Si pensava che il coprifuoco funzionasse, ma hanno sottovalutato il livello di indignazione e così hanno abbandonato l’idea. Tutte le forze conservatrici, le chiese e così via dicevano alle persone di rispettare il coprifuoco, ma non ha funzionato.

Prima hai parlato della condizione comune che i giovani neri percepiscono rispetto ad altri giovani nel mondo, per esempio quelli di Gaza. A tuo parere, qual è la relazione tra la ribellione di Ferguson e quello che negli anni scorsi è stato il movimento Occupy?

Beh, non è semplice perché il movimento Occupy è cominciato come principalmente bianco, con giovani diplomati e dei college a New York. C’è stata una lotta per renderlo più inclusivo e la diffusione di questa lotta in tutto il paese ha fatto sì che ci fossero movimenti affiliati composti da persone di colore, come Occupy the Hood. Questo si è sviluppato a Chicago, Baltimora, Pittsburgh, Boston, New York, e ciò è avvenuto per un paio di motivi. In primo luogo, i giovani sentivano che il movimento Occupy era una “cosa bianca” e non si rivolgeva ad alcune delle questioni importanti per le comunità nere e latinos. In secondo luogo, l’idea che non ci fosse leadership non è vera: era una parvenza di leadership bianca. Perciò era un gruppo che non permetteva ai neri e ai latinos di partecipare allo stesso modo delle persone bianche. Questi due fattori hanno creato differenze ed è stata una delle ragioni principali per cui Occupy è morto. Non c’è stato uno sforzo concertato nel paese per unire nel tempo i due movimenti. C’era un bisogno di organizzazione e di struttura perché le forze contro il movimento erano strutturate. C’era questa tensione all’interno di Occupy, ma le forze nel movimento che cercavano maggiore strutturazione organizzativa non hanno prevalso. Così il fronte unitario dei movimenti Occuppy the Hood e Occupy non si è concretizzato in quei mesi.


Dal tuo punto di vista, qual è il futuro della ribellione? Che cosa bisognerebbe fare in termini di organizzazione e pratiche di lotta? E quali sono le possibilità di generalizzazione del conflitto in altre parti del paese e di ricomposizione con altri settori di classe?

Come ho detto in precedenza, non abbiamo un centro radicale nero tra i giovani, dobbiamo svilupparlo. Penso che Ferguson possa essere un punto di partenza per contribuire alla sviluppo di un movimento radicale tra i giovani. Come dicevo, i Dreamers sono lì rappresentati e sono certo che stiano discutendo dell’organizzazione delle lotte dei neri a St. Louis, dunque ci saranno molti incontri, forum e conferenze che in modo cosciente cercheranno di unire i giovani in una formazione più radicale. Serve tempo e avverrà su una scala nazionale. Il gruppo di cui faccio parte, il Black Left Unity Network, sta discutendo di organizzare qualcosa nel 2015 sul piano nazionale e ovviamente le forze motrici giovanili di Ferguson e i Dreamers saranno invitati a partecipare a questo tentativo. Ma dobbiamo costruire e ricostruire, per molti aspetti dobbiamo cominciare da zero. Un movimento, infatti, non si costruisce in un attimo. Come dicevo, c’è molto lavoro di formazione da fare. Ferguson è un’apertura di questo tipo di risveglio e ripesa di sviluppo radicale, le forze in campo devono portarlo al livello successivo; una cosa simile deve avvenire a New York e a Los Angeles dove c’è stato un altro omicidio, e dobbiamo sviluppare questo sforzo ovunque ci siano casi analoghi che possono essere tragici ma mobilitano ed educano la costruzione. Le forze che si collegano alla politica elettorale sono un’altra cosa. Sembra che molte persone siano state neutralizzate dalla presidenza Obama nel suo primo mandato, mentre ora si stanno risvegliando alla realtà del fatto che Obama è là per salvare e servire il capitalismo. Queste persone stanno quindi lavorando per provare ad andare oltre la politica del Partito Democratico e cercano qualcosa di più radicale, e ciò avrà un impatto nel giro di uno o due anni su come i giovani si stanno organizzando. Dobbiamo quindi lavorare anche a questo livello.


Hai parlato dell’importanza di organizzare un nuovo spazio radicale di giovani negli Stati Uniti. Negli ultimi anni l’attività su questo fronte sembra essersi sviluppata soprattutto nell’università, per esempio in California. Pensi che sia importante che questo evento non sia avvenuto nello spazio dell’istruzione superiore? Quale può essere l’importanza di un’organizzazione radicale di giovani fuori da quello spazio?

È una domanda importante. Penso due cose. La prima è che la grande maggioranza dei giovani non sono all’università, fanno parte della working classe e sono alienati da quasi ogni aspetto della società. Sto parlando di neri, bianchi, latinos, asiatici, la grande maggioranza. Penso che l’errore fatto dalle forze radicali negli ultimi anni rispetto ai giovani negli Stati Uniti sia stato di organizzarli in gruppi ma senza integrarli nella leadership delle organizzazioni stesse. Negli anni ’60, per esempio, non ci vedevamo come giovani che lottano per i giovani, stavamo combattendo per la fine della segregazione, per il diritto di voto e così via, cioè come neri che non avevano una specificità di età. La formazione del Black Panther Party non è stata la formazione di un gruppo giovanile, sebbene fossimo principalmente giovani, tra i 14-15 e i 25 o 30 anni al massimo. Non era un gruppo giovanile, ma un gruppo di giovani che si vedevano come parte del movimento di liberazione nero. È quella mentalità che dobbiamo ravvivare, la mentalità di organizzare i giovani per essere una forza trainante all’interno del movimento di liberazione nero e non solo un gruppo di studenti o giovanile, come è successo 15-20 anni fa con il Black Radical Congress. Quello è stato il tentativo di avere un gruppo giovanile e non i giovani come parte della leadership complessiva, ma si tratta di tutta un’altra storia. Capite cosa intendo?


Stai sottolineando il bisogno di un carattere più generale, se non universale, degli obiettivi di una lotta, che non siano specifici per i giovani o per un ambito come quello dell’istruzione superiore…

Esatto. Ci può essere un’organizzazione di giovani, è importante, ma deve essere trainante rispetto all’organizzazione della liberazione nera nel suo complesso. Si può essere in questa organizzazione di giovani, ma la sua leadership è centrale anche per la leadership del movimento più ampio; non dev’essere un’appendice o un’aggiunta, ma una parte integrante di quella leadership globale.


Prima abbiamo parlato di organizzazione in termini politici generali. Ma è importante anche parlare dell’organizzazione nelle strade e nel confronto con il potente apparato militare dispiegato in queste settimane a Ferguson. Durante gli anni ’60, per esempio, in una precedente intervista che ti avevamo fatto avevi sottolineato l’importanza avuta – proprio in termini di pratiche – dai militanti provenienti dai movimenti anti-coloniali, così come di un significativo processo di politicizzazione delle gang. Nella sollevazione di Ferguson, quali sono secondo te le forme della concreta organizzazione di piazza e cosa è necessario anche da questo punto di vista?

Alcune gang esistono perché la polizia permette loro di esistere. Sono creazioni dei dipartimenti di polizia per fare esattamente ciò che vogliono, cioè per prevenire che i giovani facciano attività politica e si organizzino, perciò dobbiamo essere molto precisi su cosa intendiamo e su quale “organizzazione di strada” sia oggi possibili. In altre parole, non dobbiamo romanticizzare. Come ho detto prima, quando sul campo ci sono persone che si organizzano consapevolmente e hanno imparato alcune delle lezioni del passato, sono in grado di identificare chi è legittimo e chi non lo è. Non si tratta di organizzare le organizzazioni di strada, è un compito più ampio e più grande. Bisogna lavorare con gli individui provenienti dalle organizzazioni di strada che sono genuini, ma le organizzazioni stesse devono essere controllate per vedere chi sono. Ai Bloods e ai Crips si permette di esistere perché sono tra loro antagonisti e spesso alimentati dai dipartimenti di polizia locali con informatori, facile accesso alle armi e così via. Dobbiamo quindi stare attenti.

Concordiamo perfettamente con la necessità di non romanticizzare. Proprio perciò il nostro interesse si riferisce più in generale alle pratiche e risorse di resistenza che in queste settimane sono concretamente utilizzate in una sollevazione come quella di Ferguson. Nello specifico delle gang, di altre forme di organizzazione di strada o di forme di aggregazione giovanile non direttamente politiche negli Stati Uniti, invece, esiste secondo te un’ambivalenza? In altri termini, se da un lato possono essere utilizzate come tu dicevi dalla polizia per dividere la comunità nera, dall’altra parte è immaginabile un loro processo di politicizzazione?

Bisogna affrontare un certo numero di questioni rispetto alla validità delle organizzazioni di strada nel 2014. Dobbiamo chiederci se sono o meno diventate appendici del dipartimento di polizia, e perciò abbiamo bisogno che vengano fuori nuovi tipi di formazioni giovanili in grado di attrarre persone. Sento davvero il bisogno di andare in questa direzione. Bloods, Crips e gruppi simili sono stati così infiltrati che bisognerebbe spendere un’enorme quantità di tempo per neutralizzare l’influenza della polizia, e non è detto che ne valga la pena. Data una situazione come Ferguson, sarebbe meglio avere altri gruppi in campo per iniziare a formare nuove organizzazioni all’interno del quartiere e della comunità. Penso che sia in larga parte successo negli anni ’60 con lo sviluppo di organizzazioni come il Black Panther Party e il Republic of New Afrika, che hanno attratto tanti giovani, molti dei quali provenienti dalle gang. Gli Young Lords sono un altro esempio: in origine era una gang, ma fu attratta dagli sviluppi del Black Panther Party e sentì l’importanza per i portoricani di avere la propria formazione parallela. C’erano però elementi coscienti in quello che stavano facendo e in quegli sviluppi, dobbiamo riuscire a riconoscerli nel 2014, a Ferguson, a Los Angeles, ovunque. Abbiamo bisogno di quei tipi di elementi coscienti per formare gruppi che attirino i giovani oggi coinvolti nei gruppi più sottoproletari e controllati dalla polizia, per attrarli cioè verso formazioni di giovani più indipendenti e radicali.


[1] La campagna “My Brother’s Keeper” è un’iniziativa della Casa Bianca per affrontare la disoccupazione giovanile attraverso la formazione al lavoro e reti di tutorato. È stata lanciata in risposta all’omicidio di Trayvon Martin. Molto simile alla risposta moralizzante di Obama all’omicidio, con la nota dichiarazione “se avessi un figlio, somiglierebbe a Trayvon”, il programma Keeper affronta la violenza razziale sistemica in termini generali, definiti da Obama come “questione morale per il nostro paese”.

[2] Il termine si riferisce sia alla creazione di “charter school”, non pubbliche, sia al crescente uso nelle scuole pubbliche, soprattutto quelle impoverite, di organizzazioni come il Teach for America. Le “charter school” sono finanziate con soldi pubblici ma organizzate come scuole private e gestite in modo manageriale. Alcune, anche se non tutte, sono fatte da istituzioni for-profit. Sebbene ricevano fondi come ogni scuola pubblica, non viene loro richiesto di rispettare le leggi che regolano la sindacalizzazione e hanno condotto a un declino nella sindacalizzazione degli insegnanti. Sono ancora più segregate delle scuole pubbliche; Teach for America e gruppi simili sono organizzazioni no profit che predispongono periodi di insegnamento per universitari soprattutto bianchi e di ceto medio-alto in scuole per la maggior parte afroamericane, nere e nelle aree povere degli Stati Uniti. Per maggiori informazioni si veda l’articolo di “Jacobin” segnalato sopra.

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