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Cattivi e primitivi: il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione – di Alvise Sbraccia

Buona lettura.

 

Pare non sia elegante riferirlo, ma chi scrive ha seguito il lavoro di ricerca che dà corpo a questo volume e le fasi della sua stesura. A parziale compensazione, questa collaborazione è sempre stata caratterizzata da un certo scetticismo. Non già riferibile all’accusa d’esser nimby, rivolta al movimento NoTav da critici di varia estrazione. Piuttosto relativo al potenziale di estensione delle forme del conflitto in Val di Susa al di là dei suoi confini, alla sua possibilità di configurarsi come modello, alla sua capacità di produrre generalizzazione. Si tratta di un nodo cruciale nelle trame discorsive prodotte dal movimento nelle sue dinamiche di identificazione e legittimazione, ma anche del suo fondamentale orizzonte strategico nel campo dell’azione politica. Si tratta quindi anche di uno snodo fondamentale del lavoro di Alessandro Senaldi, che qui incontriamo nella doppia veste di militante e di ricercatore sociale.

Il profondo coinvolgimento dell’autore nelle pratiche resistenziali che i NoTav hanno realizzato nel periodo 2010-2014 costituisce il presupposto metodologico per la realizzazione di una ricerca di notevole interesse, caratterizzata dall’impiego di tecniche etnografiche e dalla realizzazione di interviste dense e articolate. L’osservazione diretta – propriamente partecipante – delle forme organizzative e relazionali del movimento e l’evidente intimità dei colloqui riportati fedelmente nel testo dipendono infatti dalla costruzione di un legame fiduciario impossibile da realizzare, nel contesto di riferimento, al di fuori della partecipazione alla lotta. Ne risulta un libro naturalmente partigiano, distante anni luce dall’ideologia paritaria secondo la quale un lavoro di sociologia qualitativa dovrebbe tener conto e dare conto del punto di vista di tutti gli attori coinvolti nelle interazioni osservate. Ovviamente quest’ultima è un’opzione del tutto legittima. Altrettanto legittima è una ricerca di parte, sulla parte, nella quale l’autore non cela il suo posizionamento politico.

La questione è controversa, giacché questo tipo di posizionamento è talvolta contestato, in ambito accademico, per via del fatto che renderebbe il ricercatore poco lucido, perfino accecato dal suo personale coinvolgimento. Ma è interessante osservare come questo tipo di critica tenda a prescindere dai contenuti dei testi, inoltrandosi nel territorio della psicologia degli autori. In effetti freddezza e lucidità nell’analisi sono caratteristiche soggettive (o qualità del ricercatore) che non possono essere presunte, così come, comunque, non può essere data per scontata la loro assenza. Quel che conta è, appunto, il contenuto. Descrizione e interpretazione denotano in questo caso un notevole rigore da parte di Senaldi e la molteplicità delle fonti consultate, spesso attraverso meccanismi di triangolazione e riscontri incrociati, emerge chiaramente nelle sezioni metodologiche e riflessive di “Cattivi e Primitivi”.

Questo titolo evocativo rimanda immediatamente alle narrative di stigmatizzazione che sono state impiegate contro il movimento NoTav. Elementi discorsivi che contribuiscono a delineare nel lavoro di Senaldi il dispositivo integrato di criminalizzazione che si regge poi sulle pratiche del controllo poliziale e del comparto giudiziario, definendo un caso di studio di grande interesse sulle linee di politica criminale implementate contro il dissenso nell’Italia di oggi. Il primitivismo è associato, nell’analisi offerta del discorso pubblico, alla figura dell’abitante della valle arroccato sulla difesa del suo “cortile”, impossibilitato a cogliere la complessità del progresso e dell’interesse generale, inadeguato a comprendere le componenti tecniche e strategiche della “grande opera”. Cattivi, invece, sarebbero i (più o meno) giovani riottosi affiliati a gruppi insurrezionalisti variamente nominati (anarchici, black bloc, centri sociali), sempre pronti a fronteggiare lo Stato e ad agire attraverso forme illegittime. Questi “professionisti della violenza” sarebbero perfino in grado di trascinare nelle loro modalità d’azione i valligiani più primitivi. Gli altri, sia pur ingenui e sprovveduti, si distinguerebbero invece per azioni meno aggressive. La veicolazione mediatica di questi contenuti viene qui presentata come massiva e sostanzialmente monolitica, a onta del radicamento ormai storico del movimento NoTav, che solo in anni recenti sviluppa una strategia di controinformazione che filtra parzialmente nelle maglie del controllo mediatico. In ogni caso, gli archetipi negativi appena delineati si sgretolano completamente di fronte alle narrative che Senaldi raccoglie e ci propone, in chiave evidentemente decostruzionista. Il suo contributo è quindi parte di una narrazione oppositiva che arriva a ridicolizzare gli stereotipi prodotti, pur considerando la loro capacità di permanenza nel quadro di un’opinione pubblica frammentata e deprivata di riferimenti dignitosi di informazione.

Le “poste in gioco” nella lotta – così come definite dalle parole degli autoctoni, i “primitivi” – rimandano a processi di conoscenza e divulgazione consistenti e diversificati, all’acquisizione e condivisione di competenze tecniche e giuridiche, alla costituzione di dinamiche partecipative complesse sul terreno dell’azione politica, alla capacità di collocare il tema specifico all’interno di una lettura – certo discutibile, ma senz’altro sostanziosa – degli assetti attuali della struttura economica e politica.

Per quanto attiene ai “cattivi”, Senaldi sceglie di rinunciare alla loro voce. Anche in questo caso, dunque, decostruzione e demistificazione derivano dalle narrazioni dei valligiani. Dopo essersi liberati dalle etichette che ruotano intorno alla patologia nimby, essi stessi dimostrano un’ulteriore capacità di sottrazione, rifiutando caparbiamente di dar credito alla strategia della distinzione operata dalle agenzie del controllo. I “professionisti della violenza”, dentro questo rovesciamento di senso, tornano ad essere quelli che lo sono in realtà, ovvero i detentori esclusivi del potere coercitivo giuridicamente legittimo: magistrati e poliziotti, supportati da un forte coro mediatico, impegnati in una lunghissima (anche se altalenante nelle tattiche) impresa repressiva.

I livelli di violenza istituzionale descritti nel testo sono impressionanti e pongono seri interrogativi sulla consistenza dell’ordinamento democratico. Al di là della riflessione pregnante sull’opposizione tra forme di democrazia partecipativa e rappresentativa che Senaldi propone, il problema che emerge è legato al fatto che i professionisti della violenza sembrano agire in un quadro dove i riferimenti alla professionalità e alla legalità appaiono davvero incerti. Forse implicitamente negati, dal momento che il conflitto descritto rientra per l’autore all’interno del paradigma della guerra, con battaglie che prendono forma con diversi gradi di intensità sia sul versante militare che su quello giudiziario. Ai picchi repressivi si affiancano sul territorio in modo disorganico (e difficilmente leggibile in termini strategici) periodi di compresenza comunque tesa tra le controparti. Le pratiche, o meglio i tentativi, di sottrazione al dispositivo integrato di criminalizzazione prendono quindi corpo in questo clima, che nelle pagine del libro assume talvolta connotazioni surreali. Ed è in questo stesso clima che il nodo della violenza, come elemento di resistenza all’oppressione istituzionale, viene affrontato da Senaldi, che ci restituisce l’articolazione delle posizioni in merito tra i militanti autoctoni del movimento NoTav, evidenziando ancora una volta l’irriducibilità della sua composizione alle rappresentazioni stereotipiche.

L’immagine di sintesi forse più efficace potrebbe essere così quella della divisione del lavoro di resistenza che caratterizza i NoTav all’interno di un’esperienza di partecipazione che diluisce le differenze senza negarle. Da tale punto di vista, i contenuti sociologici più rilevanti che scaturiscono da questo lavoro sono probabilmente quelli che si riferiscono ai processi situati di socializzazione politica che vengono descritti e interpretati. In essi, nella loro capacità di superare confini generazionali oggi assai rigidi, nello spazio che aprono per la costruzione di prospettive politiche, di immaginari, di forme dense di socialità scorgiamo una declinazione di progresso che, qualora si imponesse, non avrebbe bisogno di essere difesa attraverso la militarizzazione dei corpi di polizia e della magistratura.

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