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Appunti per una riflessione collettiva su apparati educativi e sistema scolastico

Lo ripubblichiamo permettendoci di segnalare alcuni altri contributi dei mesi e delle settimane recenti utili a un dibattito aperto su scuole e università e alla costruzione di un lavoro di elaborazione collettiva rispetto al quale, il testo in oggetto, ci sembra un valido inizio.

Su scuole

Tre mesi di Buona Scuola senza tregua – da StudAut

Buona Scuola? Se il badge elettronico is the new sessantotto – da InfoAut

 

Su università 

Eppur si muove… – di Collettivo Universitario Autonomo Torino

La primavera fredda delle Università – di Collettivo Universitario Autonomo Pisa

 

Su università e ricerca

Quello che il Ministro e la ricercatrice hanno Cancellato – da InfoAut

 

 


«“Il Partito operaio tedesco chiede come base spirituale e morale dello Stato educazione popolare generale ed uguale per tutti per opera dello Stato. Istruzione generale obbligatoria, insegnamento gratuito”. Educazione popolare uguale per tutti? Che cosa ci si immagina con queste parole? Si crede forse che nella societa odierna (e solo di essa si tratta) l’educazione possa essere uguale per tutte le classi?»

Karl Marx, Critica del Programma di Gotha, 1875

 

 

Partiamo da un cambiamento importante dell’istruzione scolastica che ci riguarda da vicino: “la buona scuola” (legge 107/2015).

1) La legge 107 è una tappa significativa verso la ridefinizione della scuola pubblica italiana. Non si tratta di un semplice smantellamento della dimensione pubblica in favore del privato, come troppo frettolosamente si sostiene da più parti (parti troppo spesso interessate a difendere “il buon tempo antico”), ma di una sostanziale ristrutturazione in termini neoliberali delle istituzioni educative, nelle quali la dimensione pubblica (statale) continua a svolgere una funzione essenziale.

2) La legge “La buona scuola” adegua la scuola italiana al modello di razionalità funzionale al Capitale nel campo delle istituzioni educative, già funzionante in altri Paesi, e mette in atto indicazioni sulla politica scolastica, che hanno avuto un punto di riferimento importante nel cosiddetto Processo di Bologna del 1999, cioè la costruzione di uno spazio comune e condiviso dell’istruzione di molti paesi europei.

3) “La buona scuola” rappresenta in qualche modo la fine di alcune anomalie – anomaliefelici dal punto di vista che è il nostro – che il sistema di istruzione italiano ha avuto, almeno nel lungo periodo che separa gli anni Settanta dall’avvento della cosiddetta “autonomia scolastica”: insegnanti poco propensi a subire trasformazioni dall’alto, alto tasso di conflittualità, pratiche pedagogiche che mantenevano una certa autonomia rispetto allo “spirito mercantile dei tempi”. [Breve inciso sulle polisemie: salta agli occhi l’ambiguità ricercata della definizione, dall’alto, di “autonomia scolastica”, corporativa e decisamente padronale, con i suoi “Dirigenti” come tipici esemplari di “servopadronalità”. Specie di ossimoro e saccheggio culturale e linguistico. Un po’ come è stato per l’uso dello stesso termine, autonomia, per designare movimenti indipendenti e i famigerati sindacati, corporativi e padronali.] In un certo senso “La buona scuola” mette termine ad un’epoca e adegua la scuola a parametri più consoni alle politiche europee: inclusione differenziata nel sistema formativo, attività didattico-educativa piegata alle esigenze del mercato del lavoro, digitalizzazione e automazione del sistema educativo, introduzione generalizzata di sistemi valutativi in grado di fornire misurazioni e valutazioni “oggettive” delle perfomances di studenti e docenti.

4) Tale legge porta a conclusione un processo, iniziato in Italia con la Riforma Berlinguer e con la “scuola dell’autonomia”: creazione della figura del dirigente scolastico e diretta applicazione della logica di mercato, senza più complessi e pudiche velature. L’introduzione dei POF in ogni scuola – forme elementari di marketing che inaugurano una neolingua e mettono in moto comportamenti di tipo aziendalistico – ha l’obiettivo di generare la concorrenza tra istituti e la divisione dei docenti con premi monetari differenziati. Non conta più il lavoro svolto con le classi, perlopiù in collaborazione, non competitivo e comunque libero da vincoli esterni, che viene anzi svalorizzato a fronte d’una premialità offerta all’acquiescenza verso i nuovi “dirigenti” e l’idea stessa di competizione. In questo senso avanza un uso politico del fondo di istituto.

Ciò nonostante, la fase iniziale dell’“autonomia scolastica” ha avuto difficoltà ad attuarsi per la prolungata opposizione di molti lavoratori della scuola.

Non va invece trascurato il fatto che tra i più solerti sostenitori della “scuola dell’autonomia” si trovassero sindacati e partiti di sinistra. Da qui forse l’attuale debolezza nel contrasto a “La buona scuola” da parte di chi in sostanza ne aveva abbracciato ormai la logica di fondo.

5) “La buona scuola” si fa carico di rispondere alle modifiche che hanno trasformato il mercato del lavoro, alle sue nuove esigenze, ai processi di precarizzazione generalizzata e quindi alla necessità di addestrare gli studenti ad un rapporto diverso con il lavoro e le sue intermittenze.

Del resto allo stesso personale scolastico era già stato inviato, da questo punto di vista e molto tempo prima, un messaggio ben sintetizzato dal passaggio dallo status di personale “di ruolo” a quello di personale “a tempo indeterminato”. Ciò mentre si manteneva nel limbo del “tempo determinato” la gran massa di precariato che faceva funzionare gli istituti.

È bene, a questo punto, fermarci un attimo e partire da cosa significa per noi opporsi alla “buona scuola” renziana.

Noi non siamo osservatori passivi di ciò che ci accade intorno, siamo immersi nelle trasformazioni, le subiamo, in parte le abbiamo prodotte. Assumere, come molti fanno, un punto di vista statalista senza pensarsi come “di parte”, equivale a non vedere ciò che realmente sta accadendo.

Attestarsi sulla “difesa della scuola pubblica”, per contrasto alla privata o alla scuola confessionale, considerarla acriticamente un bene comuneassoluto, significa trascurare l’altra faccia del ruolo che essa svolge, quella di funzione del Capitale. Significa non vedere che i processi in corso non sono tanto di privatizzazione, bensì di ristrutturazione d’una funzione che resta essenziale allo Stato e allo “stato di cose presenti”. Il Capitale, nella sua forma divinizzata, detta oggi le sue nuove necessità. Se non si vuol essere subalterni a questo, non si può essere tout court “difensori della scuola pubblica”, né si può considerarla “bene comune”: il comune, concetto fortemente critico dell’esistente e, dunque, particolarmente avvincente e stimolante, resta ancora oggi cosa tutta da scoprire, sperimentare, reinventare, e ciò non può che trovar sede in lotte che si diano una prospettiva decisamente antigerarchica e antimeritocratica. I numerosi cicli di lotta che hanno combattuto l’istituzione scolastica, lo hanno fatto proprio perché riproduceva le differenze sociali, la cultura dominante e la funzione d’integrazione e controllo sociale. Da lì occorrerebbe ripartire, dal piacere di mettersi in mare aperto per scorgere possibili radicali approdi alla crisi dei tempi che vengono.

 

Brevi note sull’istituzione scolastica

6) La scuola, per dirla con Foucault, è un dispositivo cioè una tecnologia di governo degli uomini, la cui funzione è gestire e orientare comportamenti, pensieri e desideri al fine di produrre soggettività adeguate ad una determinata organizzazione sociale.

L’istituzione scolastica, in età moderna, si è sviluppata, parallelamente alla costruzione dello Stato e allo sviluppo della società del Capitale, come terreno di disciplinamento dei corpi e delle menti.

I relativi miglioramenti sul piano sociale derivati dall’integrazione, dal disciplinamento, dalla costruzione della figura del “buon cittadino”, non cancellano il fatto che la scolarizzazione di massa sia stata un terreno di lotta contro i poveri e i loro saperi, che il processo abbia voluto essere innanzitutto di “fidelizzazione” alla società del Capitale.

Si può pensare che le nuove generazioni migranti, quelle scampate alle tombe liquide o ai muri, possano trovarsi catturati in processi analoghi? O, al contrario, possano coniugarsi con forme di vita di chi ha sviluppato anticorpi rispetto a quei processi?

7) Frutto della lotta e dei rapporti di potere il sapere trasmesso dalle istituzioni educative, non è mai stato un sapere neutrale, oggettivo. Esso è sempre attraversato da flussi di potere, piegato a interessi di parte e di parte nemica alle genti, alla potentia multitudinis, e sua persistenza, dunque anche a noi: ciò anche al di là della nostra “buona volontà di bravi docenti”, magari pure “di sinistra”, perché sempre e comunque l’istituzione, con le sue regole e le sue imposizioni meritocratiche, agisce, se non dentro, almeno su e tramite noi, trasmettendo il messaggio più essenziale: i rapporti di gerarchia e di “potere su”.

8) Proprio per lo stretto legame tra forme del sapere e forme del potere le istituzioni educative vivono all’interno delle relazioni presenti nel corpo sociale e subiscono, interagendovi, i mutamenti che lo attraversano. Non c’è un piano esterno avulso dal contesto oltre il quale soggetti sociali vivono e confliggono. Le trasformazioni del sistema educativo attuale sono tutte interne e connesse alla ristrutturazione globale del mondo e dei suoi rapporti.

9) L’istituzione scolastica si è sviluppata in età moderna in parallelo con altri apparati di disciplinamento e/o messa al lavoro del sociale (ospedali, carceri, caserme, manicomi) che hanno accompagnato lo sviluppo dello Stato moderno e la riorganizzazione del sociale nei termini di pubblico/privato.

10) Lo Stato moderno ha utilizzato le strutture disciplinari per distruggere i saperi comuni, per imporre modi conoscitivi adeguati alle forme di esproprio e di sfruttamento, per favorire l’appropriazione privata, utilitaristica, delle terre, delle forme di attività e di scambio del lavoro, e da ultimo, sempre più, dei corpi e della vita stessa. Fidelizzare, adeguare, “riformattare”, estirpando saperi comuni, è stato uno dei suoi principali obiettivi (per esempio la lotta contro i dialetti e l’imposizione – non accanto, ma in sostituzione – di una lingua nazionale, oppure oggi, in numerose parti del mondo, il tentativo di annientare le culture indigene e favorire la cultura dominante eccetera).

Il caso italiano

11) Le trasformazioni della scuola hanno accompagnato le varie fasi della storia italiana a partire dalla formazione dello Stato unitario. L’istituzione scolastica ha svolto un ruolo strategico come strumento di unificazione, di controllo e di disciplinamento delle moltitudini a partire dall’unità d’Italia.

Fare gli italiani ”, nazionalizzare le masse, è stato un compito che la scuola si è assunta come elemento essenziale della formazione dello Stato.

Nel secondo dopoguerra la scuola pubblica “della Costituzione”, strutturata sul modello gentiliano meritocratico, selettivo, gerarchizzante, ha svolto tre compiti principali: formare il cittadino integrato nei processi di rappresentanza politica, formare il lavoratore e inserire l’individuo nei processi produttivi attraverso un’integrazione differenziata: l’operaio generico (scuole elementari e medie), l’operaio professionale (Istituti professionali), il tecnico (Istituti tecnici), le élites dirigenziali (i licei e le università).

12) I processi di massificazione dell’istruzione, tuttavia, sono stati anche una forma indiretta di rifiuto del lavoro (“meglio la scuola, piuttosto che la fonderia…”, o, in versione genitoriale, “non voglio che mio figlio faccia la mia stessa vita”, e poi “anche l’operaio vuole il figlio dottore” si diceva a quel tempo) e le lotte degli anni Sessanta e Settanta hanno minato alle fondamenta il modello istituzionalmente prefigurato. La scolarizzazione di massa da processo di inclusione nelle strutture produttive è stata arrovesciata, ben presto, in una messa in discussione delle gerarchie e in pratiche indirette di rifiuto del lavoro.

13) Come le lotte operaie hanno messo in crisi il modello taylorista nella produzione e fordista nella regolazione sociale e le lotte proletarie l’organizzazione degli spazi urbani, così le lotte nelle istituzioni scolastiche hanno aperto una crisi del modello gentiliano con la sua struttura gerarchica, le sue divisioni classiste, la figura del docente quale “vestale della classe media”. Dentro la “rivoluzione” degli anni Settanta c’è la prefigurazione della distruzione della scuola e la formazione di saperi, corpi, menti finalmente liberati: la fuoriuscita dalle gabbie disciplinari costruite dalla modernità. L’eterotopia non si è realizzata ma ha lasciato un’eredità pensante fino ad oggi.

14) La contraddittorietà della scuola italiana dalla fine degli anni Settanta in poi, dopo l’assalto al cielo, va letta in questo “corpo a corpo”, potremmo dire tra potere costituito e forme di potenza destituente. Un estenuante tentativo di mediazione tra spinte dal basso che rimettevano ogni volta e ancora rimettono in discussione il ruolo disciplinare e selettivo dell’istituzione scolastica e il tentativo di ricostruzione di un dispositivo funzionale ai processi di ristrutturazione economici e governamentali dentro la costruzione della società postfordista in via di formazione. I decreti delegati del ’74, le sperimentazioni, i tentativi di introdurre metodologie pedagogiche di derivazione anglosassone, i nuovi libri di testo, avventure o, meglio, sventure pedagogiche come la docimologia ecc., vanno tutti letti sotto questa luce.

15) Sul piano dell’insegnamento le lotte degli anni Settanta producono una prolungata tensione all’autodeterminazione dei docenti, che mantengono una loro autonomia sui modi e le forme della didattica, e l’organizzazione gerarchica dell’istituzione tende a presentarsi in forme deboli e concilianti.

La scuola resterà, ancora per molto tempo, un luogo di relativa libertà relazionale e culturale anche negli anni nei quali sul piano sociale le trasformazioni saranno dirompenti.

16) Ma a lungo andare, il passaggio dalla società fordista a quella postfordista non poteva non coinvolgere uno dei nodi fondamentali delle trasformazioni sociali ed economiche: la centralità della conoscenza nelle nuove forme produttive.

La scuola nella prospettiva della cultura neoliberista

17) Uno dei fenomeni più appariscenti delle strategie del potere e delle sue sperimentazioni è il passaggio dalla scuola della disciplina (caratteristica della scuola in epoca fordista) alla scuola della sorveglianza, del controllo, anche nel momento in cui la scuola perdeva la sua centralità come luogo della formazione professionale. L’approccio disciplinare è tendenzialmente valutativo e si dà ex-post, a cose fatte; l’approccio di controllo è processuale e dinamico e non te lo scrolli mai di dosso.

18) La svolta neoliberista delle società capitalistiche ha le istituzioni educative come obiettivo centrale.

È l’istruzione il campo sul quale un nuovo modello sociale si deve imporre: centralità dell’impresa, misurazione quantitativa, formazione di una nuova soggettività devono avere le istituzioni scolastiche come protagoniste.

19) Un’altra ragione dell’importanza che fa dell’istituzione scolastica un perno dell’organizzazione della società è che, nella fase nella quale si afferma il capitalismo cognitivo e tendenzialmente la produzione immateriale diventa prevalente, l’apparato educativo si trasforma in un settore immediatamente produttivo.

20) La svolta di questa nuova configurazione dell’istituzione scolastica avviene a livello europeo con la conferenza di Bologna del 1999, dove viene definito uno spazio continentale dell’istruzione con l’introduzione del sistema dei crediti come tentativo d’imporre la misurazione quantitativa del sapere e, nello stesso tempo, avviare processi di differenziazione nella formazione. In Italia, per quanto riguarda l’istruzione, l’adozione del modello neoliberale avviene, in modo organico, con la “scuola dell’autonomia”, che introduce un modo nuovo di organizzare i singoli istituti per rispondere alla crisi della scuola di massa e delle sue finalità. Muovendosi nella direzione della formazione di un soggetto flessibile, in sintonia con le esigenze del mercato e disponibile ad inserirsi nelle sue pieghe, questo modello garantiva una limitata ma significativa differenziazione e competizione tra gli istituti, che rivolgevano un’offerta formativa appetibile a studenti e famiglie, considerate sempre di più come clienti all’interno del mercato dell’istruzione.

21) Al modello fordista dell’istruzione e ai suoi obiettivi (formare il lavoratore a vita e il cittadino integrato nello Stato) si sostituisce il modello neoliberista con la formazione del lavoratore precario (flessibile, sia nei tempi sia nelle mansioni, intermittente, enormemente ricattabile). Il lavoro si trasforma da “diritto costituzionale”, per stare alla definizione che lo Stato stesso ne dava, a dovere dell’individuo indebitato. Da qui, per un verso la precarizzazione del personale già in opera, per l’altro l’incertezza più assoluta, fino all’emergere del ruolo del “lavoro volontario”.

22) In questo senso il merito diventa strumento fondamentale, all’interno dell’ideologia neoliberista, per formare il soggetto imprenditore di se stesso, in continua concorrenza con gli altri: la valorizzazione del “capitale umano”.

23) Cambiano anche le forme d’integrazione: sostituire sempre di più all’insegnamento soggettivo, partecipato, una strumentazione anonima, standardizzata; generalizzare le forme della valutazione quantitativa, passare dal sapere al saper fare, dal pensiero all’informazione.

24) Per ottenere questi risultati è fra l’altro necessaria la dissoluzione della figura dell’insegnante, della sua specificità, della sua autonomia culturale e la sua sostituzione da un lato con strumentazione tecnologica, dall’altro con la progressiva dequalificazione della sua professionalità (un po’ come il passaggio dal lavoratore professionale al lavoratore generico nella fabbrica fordista) unita a forme di crescente esternalizzazione-appalto di funzioni.

25) Per questo è importante riflettere sulla formazione delle soggettività, che interagiscono con l’apparato educativo, e sulle loro trasformazioni strutturali. Si deve riflettere ad esempio su questioni quali:

il ruolo che assumono i dispositivi tecnologici, che impongono nuove forme di sapere e che rompono lo schema relazionale della trasmissione ed elaborazione delle conoscenze

la crisi della scuola come apparato disciplinare

l’imposizione di strumenti di controllo e il loro rapporto con la messa a valore del tempo di vita

la sostanziale acquiescenza, almeno apparente, rispetto a queste pervasive forme di controllo, che tendono alla coattiva riproduzione di se stesse

liquidità, evanescenza e plasticità delle nuove forme di soggettività e quali potenzialità queste possano nascondere.

Gruppo di discussione per la ripresa di un movimento antagonista nelle scuole e nelle università

Questo testo si intende come work in progress. Milano, marzo 2016. Per contatti: franti@inventati.org

NOTA sul “processo di Bologna”

Il cosiddetto processo di Bologna è l’accordo raggiunto nel 1999 a Bologna da 29 ministri della Pubblica istruzione dell’Unione Europea per la costruzione di un sistema della formazione superiore europea centrato sull’armonizzazione dei titoli di studio; l’adozione dei due cicli; il consolidamento del sistema dei crediti; la promozione della mobilità degli studenti; la valutazione della qualità.

In Italia è preceduto dalla bozza di riforma Berlinguer.

Già nel giugno del ’97 l’allora ministro Berlinguer, nel presentare alle camere la sua proposta di “Riordino dei cicli dell’Istruzione” puntualizzava: “È proprio sulla formazione che nel prossimo futuro si incentrerà la competizione economica internazionale”. La scuola è qui, senza ambiguità, fabbrica di “risorse umane” adatte a sostenere gli interessi economici del Paese, formate in modo permanente e nell’interezza della persona.

Berlinguer si richiama esplicitamente alle tesi della Commissione Europea per l’Istruzione, espresse in uno degli scritti (libro bianco 1996) da essa emanati in quegli anni e che avrebbero dato vita al succitato processo di Bologna.

Più avanti si legge: “la scuola […] dovrà metabolizzare [così nel testo] una nuova cultura del lavoro valorizzando la conoscenza delle nuove forme organizzative, della flessibilità, del lavoro autonomo e aiutando lo sviluppo del senso di responsabilità, di autonomia, le capacità etiche ed intellettuali di collaborazione, pianificazione e attuazione di progetti”.

Il ministro aveva l’ambizione di ristrutturare il sistema scolastico dalle basi. Il primo ciclo di istruzione prevedeva l’eliminazione della scansione elementari e medie, la formazione di un’unica scuola di base divisa in tre periodi di due anni ciascuno, nel terzo periodo venivano introdotte le materie opzionali, determinanti per il percorso scolastico successivo.

La riforma, la prima di una lunga serie giunta fino ai nostri giorni, fu approvata al senato nel 2000, ma non fu mai attuata perché nel 2001 cambiò il governo e il ministro del nuovo governo, Letizia Moratti, ne propose una propria.

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