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Bologna – Un festival come pretesto per una riflessione sulla Zona Universitaria

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Riprendiamo alcune considerazioni del Collettivo Universitario Autonomo di Bologna intorno ai processi diristrutturazione e rigenerazione urbana che si stanno dando in merito alla zona universitaria della città, anch’essa sempre più toccata dalle dinamiche che stanno trasformando in senso complessivo Bologna intorno ai nodi del turismo, della socialità, dell’innovazione nei rapporti tra capitale e lavoro. Nel testo si sottolinea l’importanza di tanti micro e macro conflitti agiti negli scorsi anni nel determinare la situazione attuale, e si prova a analizzare il campo di battaglia nella sua nuova forma indicando un metodo per l’azione politica futura nel campo dei saperi e della dimensione giovanile. Buona lettura.

La nona edizione di Batti il Tuo Tempo festival è giunta al termine, tuttavia le riflessioni attorno ad una zona universitaria in continuo divenire, teatro di scontro e di tentativi di rigenerazione urbana, non possono chiaramente concludersi; anzi, la costruzione, l’organizzazione e la sperimentazione, più che affermata e comprovata, di un festival completamente autogestito da studenti e studentesse pensiamo sia non solo un presupposto ma anche uno strumento idoneo per poterci districare nel dibattito che ruota attorno a Piazza Verdi. E’ con lo sguardo dell’autogestione e dell’organizzazione autonoma che vogliamo provare ad intravedere fratture nella solamente apparente linearità dei processi che stanno mutando la nostra città.

Quest’anno, per la prima volta dopo molte estati “deserto e polizia”, sulla zona universitaria si è tentato più articolatamente di fare i conti con il forte e diffuso bisogno studentesco di attraversare e vivere lo spazio per aggregarsi, divertirsi, confrontarsi e prendere parola sulla città. Non un calendario posticcio, non agende “in extremis” dirottate su Piazza Verdi, non solo “qualche appuntamento” dal respiro vagamente urban per solleticare l’appetito dei giovani che da anni partecipano e contribuiscono a sviluppare un discorso critico (cioè pratica politica conflittuale) sui processi che stanno trasformando Bologna. Non dunque “una pezza”, ma qualcosa di più articolato e prospettico, sul medio periodo.

A cosa risponde? Se da 5 anni nel nostro piccolo comune si discute così tanto approfonditamente di “città”, se è tanto “all’ordine del giorno” al punto da impregnare il programma di ogni appuntamento organizzato o discorso pronunciato da chicchessia, la ragione – si dirà – è prima di tutto da ricercare nel turismo, nel trend, nel “è come nel resto d’Europa da 20 anni a questa parte”, nella gentrificazione, questo “asso piglia tutto” che ormai svolge il noto ruolo del prezzemolo.

Prima provocazione: anzi che fuori da noi quella ragione va rintracciata proprio qui, dentro e oltre i viali, nel recente, più o meno eclatante, più o meno strisciante piccolo sconvolgimento geografico costato alla nostra città qualche vecchio confine in cambio di nuovi. Ribaltiamo dunque la questione: quello che c’è è stato determinato dai rapporti di forza espressi dalle e nelle lotte. Affermazione ancor più vera laddove assumiamo che queste lotte hanno avuto quasi sempre la capacità di non presentarsi in forma resistenziale, ma sempre hanno tentato (e a volte esattamente riuscendoci) di accelerare ed esasperare le contraddizioni in campo. La ragione del quanto mai dirimente “proprio così” – buttiamo giù questa seconda provocazione – di questo “stato dell’arte” è cioè allora nella lunga stagione di lotte specificatamente urbane che hanno assunto la città non come teatro ma posta in palio e che si sono sviluppate a partire dagli spazi politici aperti dai collettivi autonomi, dai centri sociali e dai sindacati conflittuali. Non in maniera posticcia, ma essenziale. Dalla cacciata della polizia da Piazza Verdi nel 2013, alla lotta per la casa, alle lotte nella logistica, alle vertenze studentesche conflittuali, la battaglia contro i tornelli, le autoriduzioni, le tante occupazioni universitarie che hanno politicizzato la creatività e rivendicato libertà di espressione, ponevano – dal basso e nel silenzio assordante – tutte una stessa domanda: di chi è la città? Quello che vediamo dispiegarsi oggi a Bologna-centro soprattutto, diciamo, questa differenziata condizione bolognese odierna, non è assolutamente ciò che quelle lotte immaginavano e continuano ad immaginare, ma è lo sviluppo di una tensione in una – ora sì – fase in cui lo spazio urbano è attraversato da ulteriori nuovi interessi, traiettorie di sviluppo e processi a differenti velocità (e tutti presi per intero, come ipotetica operazione piana applicabile alla nostra città, completamente nemici).

Quel ribaltamento a cui facevamo riferimento poco sopra è necessario ma assolutamente non sufficiente, serve però a più accuratamente visualizzare ciò che c’è, a cogliere l’istanza, il volume sociale cui i meccanismi cui siamo di fronte rispondono cercando di costruire le condizioni, l’ambiente del disciplinamento, della formazione, alla ricerca di quelle punte di incompatibilità che neanche l’Università riesce a minare. Quello che vediamo è ancora ieri, ma già si pensa cartolina dal futuro: leggiamo in questi giorni del prossimo utilizzo in Zona Universitaria del Daspo Urbano, notiamo rocambolesche ordinanze per non far sedere sul gradino del comunale.

Il 38 di Via Zamboni è notoriamente un luogo simbolo di questo conteso quadrato di mondo. Pregnanza politica non certo caduta dal cielo o esito del “caso”, ma frutto di lunghi anni (più di un decennio) di organizzazione, iniziativa e contesa politica. Chiunque, colto ovunque nei paraggi e a prescindere dalla sua opinione in merito, del 38 direbbe “quello delle occupazioni, dei murales”, i più con rispetto e delizia, qualcuno con disprezzo. Per quanto, passando da lì, verrebbe da credere che sia ormai scontato così, noi ben sappiamo che la realtà è tutt’altro, che niente è per sempre. Perciò il Bitt18 ha trovato quest’anno più del solito spazio al suo interno con iniziative differenti, tra le altre la bella serata musicale con alcune delle crew underground di Bologna più attenzionate, durante la quale un nuovo murales è stato dipinto e che ha permesso a chi precedentemente era in Piazza Verdi di continuare ad incontrarsi, nel rispetto di un quartiere differenziato e del giusto diritto a divertirsi. Perciò, qualora si dessero, non accetteremo l’ennesima riproposizione del discorsino legalitario e successivi attacchi repressivi. Ogni anno a Bologna giungono, soltanto per studiare (quindi escludendo i vari turismi)non centinaia, non migliaia, ma decine di migliaia di studenti e studentesse da altre città d’Italia, d’Europa e del mondo. Ci deve essere spazio e tempo per tutt.

Essere all’altezza, alla molteplicità di questa situazione oggi è necessario e assolutamente fuor di retorica. Intorno a noi non c’è più lo stesso deserto di 5 anni fa. Fino a che punto tutto ciò può funzionare? Quanto si possono ridurre i processi all’immagine di città che la sommatoria di brand compone, quanto cioè sono sovrapponibili per movimento rigido alla vita vissuta della zona universitaria? La realtà non è la proiezione dei desiderata della governance, la riproduzione sociale come riproduzione di contraddizioni e ambivalenze non è sostituibile da una operazione di marketing turistico, cioè: al di qua del brand che tempi, che comportamenti si mantengono, per quali è necessario autorganizzarsi per riprodurli? Ed al di là ci sono veramente solo nemici? La contesa insomma è ancora tutta aperta, si è soltanto ricollocata e differenziata. Si è forse complicata, sicuramente sta a noi il compito di situarci in questo, e non in un altro tempo.

Un lungo Batti il Tuo Tempo Festival è stato un modo – estremamente parziale – per abitare un siffatto contesto. Alcune cose sono chiare, gli intenti ed i progetti della governance che si “occupa” della zona universitaria come metonimia della città di Bologna per intero: da parte di chi vorrebbe questa zona un luogo decorso, uniforme, radical ma chic, impegnato ma non troppo che poi salta il banco, dove gli spazi per rivendicare desideri e bisogni debbano essere forzatamente confinati e delimitati, presentabili e turisticamente funzionanti (un po’ Berlin un po’ Paris), c’è un chiaro e dimostrato interesse a prendere spazio collettivo e a trasformarlo. Mercificare la socialità e renderla istantanea, take away, privatizzare per sostituire i ritmi, i tempi e i modi di vita di un quartiere che nei diversi anni e sotto diverse amministrazioni comunali ha pur sempre conservato una sua peculiarità, sia in termini di composizione che di comportamenti ed organizzazione. Qual è la gittata del progetto di lor signori? Non è forse immediatamente questione di tempo, di reddito – la soglia della contraddizione non si raggiunge forse aggiungendo subito un “bene, e ora i soldi”?

Ecco perché là fuori c’è un ulteriore elemento di novità, a sua volta ambivalente, a sua volta in parte prodotto di 10 anni di opposizione ad alcune elite politico-economiche del nostro paese, che la nostra generazione ha prima contestato duramente nelle piazze, poi attraverso un referendum, quindi nell’ultima tornata elettorale: un governo politico, salito con programma politico, accozzaglia di spregevoli signori e novelli tribuni della plebe. Non per un attimo avremo la spocchia dei social democratici, tutti incantati sui congiuntivi, sugli errori di battitura, mentre 5 milioni di nostri coetanei hanno votato reddito di cittadinanza. Come si territorializza tutto ciò nella nostra città, come accelerare quell’istanza di welfare-oltre-il-lavoro espressa politicamente alle elezioni?

Al di sotto del piano dell’immagine, nella vita quotidiana (per certi aspetti autoriproducentesi) della zona uni molte cose non sono cambiate, non sono state rimosse: di fatti l’estrema urgenza e necessità di esprimere dal basso contenuti e di impegnarsi concretamente in espressioni culturali e artistiche di riappropriazione non si sono fatte silenziare dagli artigli della rigenerazione urbana. La zona è tutto men che vuota, le iniziative di autogestione si sono moltiplicate e continueranno a farlo prendendo spazio, situandosi nelle facoltà e nelle strade. La ricerca, il bisogno di reddito diretto ed indiretto è forse addirittura accelerato dalla Vetrina, ed è a sua volta motore del fenomeno turistico di breve periodo, ulteriore fattore di difficoltà abitativa per gli studenti dell’Alma Mater. Ma veramente è questione di turisti VS studenti? Siamo sicuri, anche in questo caso, che siano le categorie giuste, che si possa tracciare una linea così netta? Non vanno a farsi benedire ogni qual volta uno studente, con 15 euro e meno di due ore, vola qualche giorno in una città europea prendendo una stanza su Airbnb? E badate bene, non c’è bisogno della carta di credito del papà banchiere per farlo, ce la fa anche lo studente che lavora come cameriere nel ristorante turistico o, guarda un po’, quello che fitta la stanza libera proprio su Airbnb. È proprio qui la contraddizione principale di un capitale totalizzante, dove non esiste un “fuori” possibile, dove il consumo è tutto, inferno e paradiso. Diciamo questo perché non vogliamo confondere chi inaugura un processo e chi lo subisce, chi tenta, in maniera anche schizofrenica, di trasformare spazi chiudendone altri con chi quelli spazi, seppur contraddittoriamente, li vive.

Si tratta allora di assumere una rinnovata sfida, tutt’altro che banale, di perpetuare le pratiche di riappropriazione degli spazi e contemporaneamente alzare la posta in palio, consci che la strada è sì tortuosa ma che il sapiente sviluppo di prassi politica autonoma è anche l’unica e concreta possibilità per intraprendere processi di liberazione oggi.

 

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