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Pensare (e agire) il conflitto

Un contributo alla discussione per l’assemblea del 31 maggio a Torino (verso l’#11L)

 

Natura globale ed europea della governance: ne abbiamo consapevolezza, ma siamo consci dell’esistenza di livelli nell’organizzazione sociale e politica capitalistica. C’è una soggettività capitalistica che si organizza, pianifica, dirige, si mobilita su un livello alto, che è quello del potere transazionale e dei capi di stato e dei fondi d’investimento, della finanza globale e delle imprese multinazionali. Il punto che a noi interessa sviluppare, impostando in una dimensione compiutamente generale e continentale il nostro sguardo, parte dall’assunto dall’esistenza di livelli gerarchicamente strutturati: c’è una verticalità da risalire. E’ quindi la saturazione e la distruzione di questi livelli in senso inverso, dal basso verso l’alto, ciò su cui ci preme ragionare.

Il fatto centrale oggi, qui e ora, è interrogarsi da un punto di vista militante sul processo di maturazione di una soggettività collettiva antagonista, che abbia la forza di contrapporsi socialmente e politicamente. Il “nostro” blocco sociale esiste sulla carta e basta, oggi. Portare a sintesi le mobilitazioni… significa intanto produrre momenti d’incontro, verificare linguaggi comuni, socializzare le proprie inimicizie.

 

La governance

Il successo del Voto “di paura” al governo Renzi di pochi giorni fa evidenzia la fiducia del sistema finanza nel nuovo front-man italiano… le possibilità di crescita e di “uscita dalla crisi” sono vincolate alla velocità di applicazione dei piani di aggiustamento strutturale predefiniti in Europa.

L’uso politico del debito ha promosso Renzi come artefice della tendenza alla nuova stagione di privatizzazioni di welfare e di valorizzazione dei territori. L’obiettivo è la costituzione di una società a fasce di garanzie (di solvibilità), capace di mistificare le sempre più profonde differenze di classe e la polarizzazione sociale conseguente. Dietro il ventaglio d’identità del non-meritevole, del fannullone, del perdente, dello sfigato si occultano i rapporti di sfruttamento e la disuguaglianza sociale spinta di questo modello iper-liberista. Renzi, provocatoriamente, è il tentativo di far nascere la lotta di classe anche in Italia… Non solo per l’acuirsi dello scontro a seguito della già manifesta intenzionalità “repressiva” del PD renziano contro i militanti e le forze sociali organizzate sul terreno dell’incompatibilità. L’altro aspetto, quello su cui dovremo misurarci più complessivamente e a medio termine, è davvero il tentativo di spingere la ristrutturazione capitalistica su dei livelli di finanziarizzazione atti a trasformare i territori nell’ottica di puri flussi di valore metropolitani, capaci di competere sul mercato globale dentro rapporti geopolitici in via di definizione. Realizzare questo processo significa rompere tutte quelle rigidità che ancora persistono nel corpo sociale, sostituendole non con l’autoritarismo (sistema troppo ossificato per permettere attuale valorizzazione) bensì un disciplinamento sociale di massa che contempla la contrattazione individuale o corporativa, scaricando verso il basso i costi di questa mediazione. Superare definitivamente queste “resistenze”, frantumando abitudini e stratificando garanzie, erige la precarietà a norma su cui misurare, valutare e premiare quelle eccedenze che accettano la sfida della mobilità sociale sul terreno della valorizzazione capitalistica: del proprio mettersi in gioco investendo forzatamente su se stessi come capitale umano.

«E’ la figlia di due impiegati statali che si iscrive ad economia. La stessa dopo 4 anni che si trova disoccupata ed indebitata per accedere al master che deve ripagare facendo la promoter di assicurazioni».

Renzi omogeneizza questa condizione, la norma e ne contempla nuove doti e funzioni nel tentativo di innovare un registro comunicativo fondato sulla “speranza”, che si discosti un poco dalla retorica dei sacrifici. Un poco, dato che il concetto di speranza ha la duplice funzione di delega in bianco sulla decisionalità complessiva sull’orizzonte della propria vita (assoggettamento), dall’altra di stimolo alla condizione (soggettiva) emotiva e psicofisica necessaria per continuare ad accettare i sacrifici. Che saranno ripagati, un euro l’ora!

 

I Movimenti di lotta per la casa e per l’abitare hanno ad oggi espresso una variabile importante a questo processo di omogeneizzazione al ribasso, alla fluidificazione dei rapporti sociali nel senso della loro maggior funzionalità alle sole esigenze del capitale. La resistenza con la sottrazione di spazi alla valorizzazione ha prodotto una soggettività collettiva in conflitto, capace di parlare a tanti, di rallentare questo processo, di costituire un proprio autonomo discorso e progetto senza essere rinchiuso all’angolo della marginalità. Ci sentiamo di dire, realisticamente, meglio un articolo 5 con un Movimento che ha sedimentato conflitto e soggettività, partecipazione e trasformazione; che un piano casa senza articolo 5 (ma nella sostanza lo stesso) ma con un movimento frantumato ed interessato a salvaguardare le proprie singole esperienze.

 

La nuova accumulazione

La Crisi è quindi la possibilità d’apertura di nuova fase d’accumulazione in cui la merce principale – oggetto di leggi e fenomeni sociali – siamo noi. La forma che prende è la Svalorizzazione, ovvero il non contare più, il non valere più molto. I salari si contraggono, le possibilità di contrattazione diminuiscono poiché veniamo rapinati delle risorse e delle capacità di cui un corpo sociale si nutre per aumentare il proprio potere. Il ricatto del debito, le politiche di austerità, il taglio alla spesa pubblica, sono tutti dispositivi di profonda ri-proletarizzazione: catturare tutto il lavoro e la vita sociale con violenti meccanismi di dominio e renderle merce da vendere sul mercato a basso prezzo. Per compere. La tendenza è l’accentuarsi di questo meccanismo e lo scaricamento dei costi sulla forza lavoro collettiva. Quando ci chiedono conto dei prestiti che abbiamo contratto, li ripaghiamo contraendone di nuovi, alienando gratuitamente (vedi jobs act) una gigantesca quantità di tempo, energie, intelligenze e comportamenti, per restituire con gli interessi ciò cui siamo stati costretti a servirci non avendo altra scelta. Qual è il limite di questo mutamento sociale basato sull’espropriazione? Quello che poniamo noi.

 

Riprendersi la ricchezza. La ricchezza, prodotta in forma di merce tramite lo sfruttamento sociale viene accumulata nei livelli alti del potere. La polarizzazione di questa ricchezza nel ventunesimo secolo, tra chi la ha e chi non la ha, ha raggiunto record difficilmente quantificabili. Nelle fase precedente al neoliberismo, re-distribuire la ricchezza ha significato per il capitale fare i conti con i movimenti operai che rivendicavano il potere di produrre e come, aumentando il loro costo sociale. La redistribuzione era effetto di una violenta e massificata conflittualità, di cui lo Stato ne era un attore piegato all’interesse capitalistico.

La ricchezza oggi, si diceva, è nelle mani di pochi. Per portarla nelle mani di molti va ricomposto il senso del produrre e del riprodurre valore e ricchezza sociale. Il conflitto sulla distribuzione della ricchezza prende piede nel momento in cui si formano gli ambiti e i territori sociali che contrattano le modalità di produzione di questa ricchezza. Che possono negarsi collettivamente, che possono impedire e sottrarre la valorizzazione capitalistica. Questi territori sociali oggi sono la fonte di questa ricchezza: il terziario ha da tempo cessato di essere un ambito separato dalla produzione, almeno da quando le trasformazioni metropolitane sono diventate potenti vettori di valorizzazione di flussi di capitale. La logistica, la formazione, la comunicazione, i fenomeni culturali, sportivi e di divertimento, l’assistenza sociale, la sanità, i trasporti, la grande distribuzione rappresentano specifici nodi produttivi del territorio. L’ambito della Riproduzione è investito a pieno dalla logica della produttività e del profitto. Una ri-organizzazione complessiva e dinamica dell’agire umano vivente che impone nel consumo, nello studio, nella produzione di beni e servizi un senso e delle relazioni che impoveriscono chi le porta avanti, nel mentre arricchisce chi ne detiene e ne imposta i codici di funzionamento.

Oggi, con questa nuova accumulazione la povertà diventa la condizione basilare della nostra messa a lavoro. “Povero” non è chi è escluso dalla produzione. Bensì le condizioni dell’accumulazione oggi sono la svalutazione delle nostre vite, l’espropriazione di risorse utili, di capacità, di bisogni e di tempo da sacrificare sull’altare di cosa si produce e cosa si riproduce.

Perciò chi comanda vuole impedire di possedere i mezzi della nostra riproduzione. Quando parlano di combattere la disoccupazione, creando lavoro, in realtà organizzano la nostra povertà. Lavorare a salari da fame, pagandosi i mezzi di trasporto e gli spostamenti è la nostra povertà. Ma lo è anche lo sviluppo del territorio con il Tav, curarsi oggi in un ospedale pubblico, mangiare cibo comprato al discount, vivere il proprio tempo libero tra Snai, Slot machine, consumo di sostanze e alcolici; studiare indebitandosi, o non riuscendo a comprare i libri, o stando in strutturi fatiscenti. Poiché le merci prodotte devono essere acquistate, esse devono costare meno, per essere competitive. L’intera riproduzione sociale quindi si configura come veicolo d’impoverimento e di svalutazione delle nostre vite.

 

Lottando s’impara

Queste contraddizioni sistemiche si pongono su un livello alto, sono trasformazioni profonde che mettono in gioco la dimensione sociale dell’agire umano vivente. L’immagine è quella di una barca che affonda, in cui noi siamo obbligati a remare sempre più forti per rallentare l’inevitabile momento del naufragio. La posta in palio delle resistenze che iniziano a darsi sui terreni della riproduzione sociale è quella dell’incompatibilità con questo sistema basato sulla distruzione delle nostre capacità.

 

Dal 19 ottobre al 12 aprile il percorso dei movimenti sociali ha costruito, nella pratica della lotta, le basi per progettare uno sviluppo duraturo del conflitto. “Assedio” e “sollevazione” sono state le parole d’ordine fondamentali per ricostruire un piano di alterità e contrapposizione con il sistema politico e istituzionale. Ciò ha permesso un’innovazione nelle pratiche e nei linguaggi ed ha gettato i semi per una rinnovata teoria radicale dell’agire politico. Un accumulo di fiducia e di esperienze, anche organizzate, di autonomia, di una composizione segnata con forza dall’impoverimento e dall’espropriazione a favore della rendita capitalistica, ha iniziato ad impensierire le controparti.

 

Proviamo a mettere “in fila” alcuni elementi utili che ci sembrano nella sperimentazione continua, divenire comuni ai soggetti in marcia verso i prossimi appuntamenti di mobilitazione nazionale, a partire dal vertice europeo dell11 luglio a Torino sulla “disoccupazione giovanile”.

Quello che abbiamo appreso da quest’anno di lotta è innanzitutto dove volgere lo sguardo per valutare. La costruzione dell’agire politico attuale fa fuori l’autoreferenzialità – l’avere come baricentro del proprio pensiero e della propria pratica poltica, la propria identità di gruppo e la propria ideologia – e problematizza il rapporto tra lotte territoriali e momenti nazionali a partire dalle soggettività collettive in movimento in relazione ai propri obiettivi. La crescita del movimento in termini di qualità, numero e determinazione, discorso e piazza è l’obiettivo. Il conflitto sociale non basta evocarlo da dietro un computer. L’impegno collettivo, la militanza sociale capace in alcuni frangenti di connettere più livelli, più segmenti e più ambiti è sicuramente uno dei parametri fndamentali, nell’analisi delle forme della produzione di lotte. I numeri del 19 ottobre e la rottura mediatica dello “spauracchio” costruito dai media; la consistente riproduzione territoriale di comitati di lotta contro gli sfratti dalle provincie alle metropoli, la sfida al neo governo Renzi del 12 aprile e le cariche in salita; gli arresti di Paolo, Luca e altri compagni, il faro del movimento no tav; i segnali di incompatibilità delle occupazioni di case dei picchetti; le assemblee nazionali a Roma e quelle locali nei quartieri di periferia: frammenti di percorsi comuni che attivano nel conflitto nuove energie disponibili a situare i propri bisogni dentro un movimento collettivo. L’aggregazione e la sua qualità sta nella genuinità di nuove biografie politiche e della sperimentazioni di campi del conflitto che per decenni sono stati ossidati dallo scambio (a perdere) tra consenso e mediazione sociale. Campi sociali in cui si riconoscono gli elementi dell’organizzazione politica e sociale propria di un territorio: gerarchie, privilegi, potere retti su disperazione, individualismo, paura competizione. La potenzialità del proprio agire produttivo ridotto a mera esecuzione ed attivazione e stimolo di procedure pre-definite, in ci il valore si dà in ciò che ti concede chi sta sopra di te.

Modelli sociali vecchi e parassitari che la stessa controparte necessita di snellire, semplificare e ri-disciplinare, appropriandosi della ricchezza prodotta e imponendo lo stesso segno di sottomissione delle vite per i più. Una transizione questa non scontata né omogenea, che si scontra con resistenze su più livelli, destinate ad affogare ed essere travolte in assenza di una scommessa più ampia, che abbia quindi le qualità di coraggio e la determinazione nel saper dove andare e nel non accontentarsi. Tematizzare il rischio, inteso come fiducia nelle proprie ragioni ed istinto che si fa progetto, è la base di un qualsiasi accenno a programmi e parole d’ordine che non vogliano rimanere mera testimonianza mai messa alla prova dei fatti.

 

Soggettività…

Cercare le parole d’ordine nelle pieghe delle odierne forme dello sfruttamento è affare impegnativo ma non partiamo da zero. C’è una globalità di comportamenti che si vanno omogeneizzando, tuttavia ciò non si traduce in un loro arricchimento conflittuale. Non abbiamo bisogno di scambiare le nostre identità ed i nostri percorsi con quello che ambiamo a far emergere a livello sociale: indicare delle strade e conoscerle sull’asfalto, questo il nostro programma. Rivincita e riscatto, promesse e speranze, rabbia e disagio. Una nuova educazione sentimentale alla lotta emerge, a tratti, dentro i comportamenti ed i segni dell’incompatibilità. La questione, è trovare gli spazi di organizzazione di questo rifiuto, scommettere sui tempi nostri, senza attendere di giocare di rimessa. Non si tratta di aspettare, ma di studiare ed attivare le intelligenze politiche e le capacità organizzative per fondere lotte e programma. Mettersi in moto ed accorgersi di fare i conti con quanti siamo in cammino.

 

Picchetti e radicamento

L’odierna fase di accumulazione ha come cifra la separazione tra riproduzione del capitale e riproduzione della vita. Nel territorio, sui servizi, si promuovono in modo diffuso quanto molecolare le forme della resistenza a questa espropriazione. I picchetti, le occupazioni, le assemblee ma anche i momenti di socialità (cene, sport, festa, aggregazione giovanile e ludica per bambini) iniziano, nell’antagonismo, a ripensare concretamente il valore delle delle proprie capacità collettive: nei luoghi si dispiega una dimensione sociale di militanza che ha come perno il controllo del territorio e la ri-valorizzazione. Il radicamento è dunque un’attività cui dedicare passioni e sapere politico utile al riconoscimento di nuove attiviste ed attivisti della funzione sociale della lotta.

 

Contro il lavoro di merda e contro la povertà

Torino è la nostra indicazione di conflitto dei non garantiti. Le manifestazioni torinesi di luglio sarà’ degli studenti, dei centri sociali, dei sindacati di base, dei movimenti di lotta per la casa, dei precari. E’ di quelli che non hanno preso gli 80 euro e di quelli che li hanno presi ma spariscono inghiottiti da mutui e finanziarie… A cosa ambisce l’11 luglio? Ad affrontare a livello di massa il piano discorsivo del nemico, ad appropriarsi degli spazi di transizione acuendo le crepe, ad imparare nuove forme del conflitto. Vogliamo decostruire e confliggere contro la categoria della disoccupazione giovanile prodotta dal mainstream, fondando un discorso autonomo su delle pratiche sociali di riappropriazione di servizi, di spazi, di risorse. Significa anche prefigurare scioperi e blocchi contro il lavoro gratuito. Lottare per tutto questo, scendere in piazza per tutto questo significa trasmettere al proprio agire ed alla dimensione sociale cui il nostro agire si riferisce il senso della radicalità, la percezione del cambiamento, la sicurezza dei nostri passi. Un’idea-forza da scoprire.

 

#civediamolundici

 

(thanx to Bluto_Selecter_@csoaGabrio_ x le grafiche)

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