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La resa di Tsipras: una tragedia (greca) annunciata

 

Il Parlamento greco finisce de facto per approvare – una volta arrivato un preliminare sì della Troika al piano proposto – una manovra da 13,5 miliardi complessivi per quest’anno (e 74 complessivi nei prossimi tre anni). E’ innegabile che la struttura di questo accordo porti a contrarre un nuovo debito per finanziare il vecchio debito: si rimane sulla scia dei memorandum degli ultimi anni, come descritto da tanti esponenti di Syriza e da commentatori della politica greca.

 

Non solo: le proposte votate nella notte dal parlamento di Atene si rifanno all’ultimo diktat della Troika dello scorso 26 giugno, prima del referendum, con implicazioni in alcuni casi peggiorative.

 

Alle voci su bilancio e tasse l’impegno è per conseguire un avanzo primario (differenza tra tasse e spesa pubblica) dell’1% nel 2015, del 2% nel 2016, del 3% nel 2017 e del 3,5% nel 2018. Da settembre verrà fissata un’imposta IVA unica al 23%; al 13% su cibo, energia, acqua, settore alberghiero; al 6% su farmaci, libri e teatro. Imposte anche alle isole finora esenti, eccetto quelle più remote. Aumentano di due punti percentuali, dal 26 al 28%, le tasse alle grandi aziende (ad una parte delle quali viene però risparmiata un’una tantum per il 2015 del 12%), mentre gli agricoltori perdono di sussidi ed agevolazioni. Si delinea l’istituzione di un ente di riscossione delle tasse autonomo e nuove imposte sulla pubblicità televisiva, sul tonnellaggio navale e il rincaro di quelle sulle imbarcazioni di lusso. Su queste voci vengono accolte le richieste della Troika pressoché integralmente.

 

Ma anche il capitolo sulla spesa pubblica non è da meno. Ad eccezione della spesa militare (con tagli di 100 milioni di € nel 2015 e 200 milioni di € nel 2016, 100 milioni in meno di quanto richiesto dalla Troika: una mossa per attenuare i contraccolpi nella coalizione con ANEL e verso l’esercito?) si registrano altri adeguamenti agli standard dell’euro-austerity. Viene innalzata l’età pensionabile a 67 anni entro il 2022 (eccetto che per lavori usuranti e madri con figli disabili e disincentivi al prepensionamento) e vengono livellati verso il basso i salari del pubblico impiego con l’obiettivo di introdurre entro il 2019 più discrezionalità in termini di mobilità e merito e risparmiare su ferie e previdenza.

 

Vengono introdotti elementi di liberalizzazione delle professioni e delle licenze (tra cui quelle del settore ingegneristico, legale e del piccolo commercio); nonché la privatizzazione irreversibile della rete elettrica (nonostante non fosse richiesto dalla Troika; da notare come l’attuale ministro dell’energia sia esponente della “piattaforma di sinistra” di Syriza) e delle ferrovie nazionali. Messi all’asta anche gli aeroporti regionali (tra cui il vecchio Elliniko, occupato dai movimenti durante le proteste contro i primi memorandum) e i porti del Pireo e di Salonicco (una condizione de facto imposta dalla Cina, con la possibile promessa di investimenti futuri) entro settembre.

 

Le retoriche delle istituzioni mettono già le mani avanti per strappare altri metri a Tsipras, parlando della necessità di verificare con continuità la realizzazione materiale di queste proposte (leggi ulteriore commissariamento e controllo delle politiche del governo greco), di dover effettuare misure aggiuntive a quelle già previste, di eliminare alcuna prospettiva di rinegoziazione del debito che sembra il nuovo tema sul quale Syriza voglia puntare le sue carte. In molti parlano di una battaglia interna alla Germania tra Merkel e Schauble sulla questione del debito, ma la realtà al di là delle sfumature è di una sostanziale vittoria della Troika-istituzioni nel braccio di ferro con Atene.

 

Che succede allora ad Atene? Partiamo da un tema che è oggettivamente impossibile da mettere in discussione: sin dall’inizio della sua traiettoria di governo, il governo di Syriza è stato assolutamente netto sulle sue volontà di rimanere all’interno dell’Unione Europea e dell’Eurozona. Per ottenere questo risultato non c’è altra soluzione alternativa che accettare, in un modo o nell’altro, le condizioni imposte da quei soggetti e da quelle istituzioni.

 

Il referendum di domenica scorsa è quindi una mossa puramente opportunista? Sembrerebbe facile liquidarla in questo modo, soprattutto prendendo spunto dal fatto che lo stesso Tsipras fosse già pronto ad un accordo non certo benevolo prima della consultazione. Dure le critiche che arrivano soprattutto dalla minoranza interna di Syriza, con alcuni elementi di spicco del governo come Constantopolou (presidente del Parlamento) e Lafazanis (ministro dell’Energia) che non hanno partecipato al voto, tanto che si parla della possibilità di elezioni anticipate e di un possibile mancato appoggio in Parlamento della minoranza del partito una volta che il piano tornerà in discussione dopo la discussione nelle sedi internazionali.

 

A pesare su quanto successo sono indubbiamente anche gli interessi delle potenze internazionali: la volontà americana di non regalare un alleato ad est alla Russia in un momento così delicato per le relazioni internazionali, quella di una Cina colpita da un processo, non liscio, di trasformazione delle sue istituzioni finanziare e che necessita di un’Europa forte, per non parlare della necessità della Germania di evitare un precedente  che rendesse attaccabile il suo governo dell’istituzione UE avviato da Maastricht in poi.

 

Tsipras dichiara di non aver potuto fare di più: è vero, se si intende il proprio margine di manovra politica solo all’interno di un quadro di compatibilità con l’Unione Europea e che vedesse la variabile sociale completamente espunta: il processo di attacco alle diseguaglianze sociali (rendite degli armatori, obblighi e spese militari) avrebbero forse potuto permettere a Tsipras di arrivare senza pistola puntata in questi giorni e fino a quel 20 luglio in cui si aggiungerà una nuova tranche di debito da ripagare. Un processo del genere sarebbe stato possibile solo attraverso una mobilitazione popolare decisa e convinta, non controllata nei suoi movimenti e nella sua agibilità politica.

 

Le parole usate da AK Tessalonica nei giorni precedenti al referendum sembrano essere a questo punto più che oracolari:

 

“..il governo Syriza si è deciso per l’indizione di un referendum inteso “come modo di continuare il negoziato attraverso altri mezzi”. Di fatto ciò consiste nell’abbandono della prospettiva di un “onorevole compromesso” che era stata sbandierata in maniera forte come l’obiettivo possibile. [..] Il “realismo” del continuo impoverimento, della disoccupazione, dell’assenza di speranza, dell’abbandono finale di ogni possibilità di raggiungere la felicità, della guerra e della repressioneè qualcosa di molto lontano dalle nostre logiche. La società ha bisogno di vedere non solo cosa sta dietro le porte chiuse delle stanze dei decisori politico-economici, ma anche di attivarsi per distruggerle.”

 

La realtà è che giocare una battaglia di questo tipo senza una reale capacità di incidere sui rapporti di forza inanzitutto interni al paese porta ad arrivare stremati, novelli Dorando Petri, a poche centinaia di metri dal traguardo. Il tentativo di Tsipras di provare a portare al logoramento i creditori internazionali si è scontrato con una volontà politica della Troika-istituzioni che era determinata a non cedere di un millimetro sulle sue condizioni. Non per questo sarebbe giusto definire Tsipras un cialtrone, o un infame traditore del popolo greco: non sarebbe meglio descriverlo, semplicemente, come il portatore di una scommessa politica persa, probabilmente in partenza, su un calcolo sbagliato dei rapporti di forza?

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