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Cosa resta del 25 ottobre?

La giornata del 25 ottobre apre comunque ad almeno due quesiti sui quali è opportuno soffermarsi.

 

1 – Si tratta di un’opposizione?

In primo luogo la manifestazione di sabato a Roma parla di una piazza costretta a darsi veste politica. Non è questo un terreno scelto dalla segreteria CGIL, la quale si sarebbe volentieri accontentata di un ruolo di co-gestione della crisi. “Grazie, ma il vostro aiuto non serve più”, afferma Renzi però. La sua dichiarazione di indipendenza dal sindacato quale anello fondante della governamentalità del patto capitale/lavoro – “io tiro dritto su Job Act e Legge di Stabilità” – rivela il tentativo di adeguare una tecnica di governo al progetto capitalistico dentro la crisi. Manca, d’altro canto, un progetto propriamente politico al Presidente del Consiglio. L’incapacità di riconfigurare nuovi blocchi sociali “rampanti” e di modernizzazione post-fordista si accompagna alla frustrata denuncia di un sindacato novecentesco, interessato a garantire settori sociali specifici. Si tratta per Renzi dell’impossibilità di strappare realmente con la struttura produttiva italiana dentro la crisi.

Il suo margine di manovra si limita allo smantellare quel poco che resta di grande industria nazionale, nel completare la svendita via privatizzazioni, nell’offrire forza lavoro a basso costo, nel cementificare (Piano Casa) e nel puntare su infrastrutture inutili (se non per i capitali speculativi stranieri), senza toccare le lobby delle partecipate locali e la grande dirigenza statale.

La costruzione del Partito di Sistema, votato a fagocitare nel quadro istituzionale quel che resta del forzaitalismo degli ultimi vent’anni permettendosi di ignorare qualsiasi scoria a sinistra degli eredi D.C., pur approfondendo la violenza di un’aggressione di classe non si pone il problema di governare la conflittualità sociale, quanto piuttosto di cancellarla ed espellerla. In altre parole, se i margini di integrazione a sinistra dentro la crisi sono ormai esauriti, e se di questo anche il sindacato ne è una vittima, non c’è un discorso sistemico capace di incarnare una promessa. Il partito di tutti è una superficie opaca stesa a coprire una complessità sociale colma di tensioni. Questa complessità chiede rappresentazione politica, avanza l’esigenza di formulare risposte. Per ora, una sua parte, le ha cercate in piazza San Giovanni.

 

2 – Che genere di disponibilità in quella piazza?

Che la piazza di Roma esprimesse un carattere politico è testimoniato anche da un altro dato, soggettivamente significativo. Per la prima volta dalle Europee una fetta ampia del consenso elettorale renziano manifesta una contrarietà all’azione di governo. Che per ora questa sia un’opinione entro la cornice del corteo sindacale non conta molto, resta il dato di una possibilità che chiede di essere indagata e compresa nei termini della disponibilità a farsi resistenza e ad essere effettivamente all’altezza dello scontro politico nel quale è stata trascinata.

Nella piazza di sabato si scorgeva una reale paura dei licenziamenti senza ammortizzatori davanti a un approfondirsi della crisi. L’attacco all’art.18 spiana oggi la strada alla vera posta in palio per Renzi: l’eliminazione dei contratti collettivi. Mentre, per un altro verso, molta della fiducia accordata ancora al sindacato trova la propria ragione in una domanda di tutela sociale oltre la partita sul costo del lavoro come rigidità collettiva.

La piazza di sabato rimette al centro con forza la questione della salarietà: con la crisi il rapporto cercato, sperato, pregato con un salario sembra prendere di nuovo il sopravvento rispetto alle diverse istanze messe avanti negli ultimi anni dal “cognitariato” ma anche dai movimenti (stretti nel “benicomunismo”) e dalle realtà antagoniste. È come se ci fosse un brutale, brutalissimo richiamo alla realtà, per i settori non rappresentati dalla piazza Cgil-Fiom, sia sul terreno materiale del contendere sia sulla consistenza numerica di quella componente che è ancora la maggioranza del lavoro dipendente (se ci mettiamo anche il Pubblico Impiego) e su questo si gioca una partita importante per il Capitale

La polarizzazione del quadro politico sotto la spinta di Renzi contribuisce a definire un’omogeneità di condizione e di interessi nella crisi. Il 17 ottobre a Torino il fumo dei lacrimogeni avvolgeva tutta piazza Castello, anche i manifestanti del corteo FIOM. Quei candelotti erano stati sparati anche per loro, non solo per quei giovani proletari che avevano deciso di riconquistarsi una piazza in cui manifestare. Le condizioni della ricomposizione politica non si danno per somma algebrica, ma per segmenti che si mettono in movimento. Quanto della piazza di Roma, come di quella di Torino il 17, rappresenta una residualità e quanto può essere una resistenza? Cosa è disposto in quel mondo a mettersi in movimento?

A tal riguardo non servono appelli che richiamino a un’assunzione di coscienza, certo, ma alcune certezze già le abbiamo. Ci sentiamo di dire che non sarà da un bisogno di “sinistra” che emergerà uno disponibilità utile alla costruzione di nuove condizioni per la difesa dei nostri interessi di parte come macro classe subalterna. Come detto sopra, le possibilità di integrazione sistemica di una domanda conflittuale del lavoro vivo a sinistra si sono esaurite con la rottura del patto fordista. A volerlo scrivere a caratteri maiuscoli possiamo dire che non è quella oggi una grammatica servibile, che non c’è promessa e politica possibile su quel terreno. Un’autentica residualità è quindi quella rappresentata dalle segreterie confederali, da Landini e dalla cosiddetta minoranza PD che sfilava per Roma, ben lontana anche dal rappresentare una minaccia scissionista all’interno del Partito Democratico.

Eppure, ed è questa un’altra certezza, è proprio di una promessa da costruire ciò di cui abbiamo bisogno: una possibilità collettivamente praticabile di invertire le nostre vite verso un orizzonte di liberazione. Radicare questa promessa nel quotidiano della conflittualità sul salario, sulle garanzie sociali fino al terreno della riproduzione sociale significa, anche per le lotte che già hanno attivato alcuni frammenti di classe nella contrapposizione, guardare a un livello del politico capace di costringere gli interessi a noi antagonisti a fare i conti il nostro costo sociale.

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