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ILVA: (quasi) tutti con ArcelorMittal per la libertà di uccidere

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O siamo liberi di uccidere senza conseguenze, o questo business non ci interessa. E’ questa, in soldoni, la posizione di Arcelor Mittal sul tema del futuro dell’ILVA.

Un affare multimilionario per la multinazione indiana, con un piccolo problema: ILVA è una fabbrica di morte. E quindi, se non sarà possibile uccidere senza complicazioni, ILVA chiuderà. Dal 6 settembre, giorno dal quale in avanti non varrà più l’immunità penale senza la quale Arcelor non ha intenzione di produrre.

Un vero e proprio ricatto che espone in maniera palese la contraddizione sempre più evidente tra salute e lavoro. Per la quale le aziende sanno benissimo di uccidere, e la loro politica è ormai solo orientata a cercare scappatoie per non esserne responsabili.

Una questione non solo tarantina: sia perchè il capitalismo delle nocività è ormai ovunque, sia perchè l’indotto di ILVA dà effettivamente lavoro a migliaia di persone. Ottomila solo nella città dei due mari.

La stessa volontà dell’azienda di usare la cassa integrazione per ricattare i lavoratori ILVA, spingendoli a fare pressione sulle istituzioni affinchè l’azienda rimanga aperta, mostra il livello di bestialità a cui siamo arrivati. E (quasi) tutti sono d’accordo che questo sia accettabile.

Dalle stanze di Confindustria ci si lamenta perchè il governo togliendo l’immunità spaventerebbe gli investitori. Il cui benessere evidentemente è superiore a quello di persone che non possono neanche uscire di casa quando tira vento.

Ovviamente anche per il Capitano bisogna tirare avanti a produrre morte: “per carità la tutela ambientale, ma bisogna difendere gli imprenditori”.

Gli fanno eco i sindacati confederali: per Landini è giusto rispettare gli accordi con Arcelor, e chi se ne frega di chi vive quel territorio. Accaparrarsi tessere è più importante.

L’ormai acclarata difficoltà del reddito di cittadinanza a produrre i benefici sperati emerge ancora con più forza in questa questione. Il problema è rappresentato dai nodi di un modello di sviluppo e di organizzazione di società che ormai sono arrivati al pettine.

Quello in cui viviamo è un modello di capitalismo predatorio. In cui non si può produrre senza ammazzare, ma in cui non si può neanche sopravvivere senza distruggere territorio e ambiente. Urge superarlo, per smettere di morire.

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