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Che cosa sono i nostri amici?

 

Ai nostri amici è un libro da leggere. In parte studiando quello che gli autori dicono, in parte studiando i lettori, reali o potenziali, che lo leggono. A chi si rivolge, infatti? La risposta è contenuta nel titolo, indubbiamente azzeccato: agli amici. Sono gli amici di un “partito” invisibile e disperso, immaginario e privo di organizzazione. Anzi, che rifugge l’organizzazione. È un partito che emerge laddove vi è un’insorgenza, “là dove l’epoca si incendia”, si inabissa laddove vi è apparente calma, quando si torna a registrare lo “scarso entusiasmo della ‘gente’ nel lanciarsi in una battaglia perduta in anticipo”. Il libro parla agli amici concreti e virtuali di questo partito: a quelli che già lo sono, rafforzando le loro convinzioni, a quelli che lo possono diventare, offrendo argomenti affascinanti per diventarlo.

Il linguaggio è adatto allo scopo, a volte colto e altre popolare, con diversi richiami filosofici, espliciti o impliciti, e con numerose citazioni di amici del partito, che prendono parola dal vivo delle lotte in Egitto o in Grecia. Gli obiettivi polemici sono spesso centrati con cura, i principali sono rivolti alla sinistra e agli anarchici, ovvero al senso profondo di sconfitta di cui la prima è portatrice, ai guaiti ideologici dei secondi. Più problematica ci pare, su diversi nodi, la direzione data alla critica, peraltro coerente a un’impostazione di fondo del libro.

Procederemo in modo rapido sui punti di accordo, ci soffermeremo invece sui problemi che riscontriamo. L’obiettivo di questo testo non è infatti una semplice recensione, ma è contribuire a una discussione militante, chiara e produttiva. Anche i nostri amici pensiamo condividano questo proposito.

 

Dentro l’apocalisse duratura

Il testo si muove in modo frenetico attraverso il tempo e lo spazio. Londra, Sidi Bouzid, Atene, Gaza o Clichy-sous-Bois, Argentina, Guadalupa, Québec, Cina o Stati Uniti. Aggancia l’attualità, scivola in mezzo alla cronaca, appare come un lampo il 1871 ed è posto in contraddizione al movimento no global, gli aymara boliviani, i militanti dell’Ira e i black bloc si scambiano indicazioni e consigli. A tratti il mondo si fa piatto, le distanze si accorciano e si annullano: il rischio è di finire nella centrifuga della storia 2.0, in cui le conoscenze diventano liquide e i processi politici sono ridotti all’astrazione del tweet.

E tuttavia, quando focalizza la critica del presente i nostri amici ci propongo spunti e piste di riflessioni significative. Ci dicono, per esempio, due cose rilevanti sul rapporto tra crisi e movimenti a partire dal 2008. La prima è che la crisi è un modo di governo. Il suo divenire permanente non significa un automatico indebolimento del nostro nemico: al contrario, l’uso capitalistico della crisi odierna consiste nel trasformare l’impossibilità di una via di uscita futura in stabile elemento di comando sul presente. Chi si attende il crollo del capitalismo ha quindi sbagliato film. E, aggiungiamo, rimarrà deluso dalla visione anche chi sogna un rapporto lineare tra sviluppo della crisi e sviluppo delle lotte, feticizzando una rabbia spontanea che, in sé, è un dato sociologico aperto a qualsiasi direzione politica. La seconda affermazione su cui ragionare è che in questi anni ci sono state insurrezioni senza rivoluzione. Non corrisponde al vero il quadro dipinto dall’informazione ufficiale, fatto di una solida pacificazione punteggiata da rivolte erratiche tra di loro incomunicanti. E tuttavia, non è sufficiente. A essere sconfitta, infatti, non è stata la democrazia, etichetta appiccicata dall’esterno a ogni insorgenza di movimento. Per ora, a essere sconfitta dalla democrazia è stata la rivoluzione. Chi continua a invocare la prima, impedisce la prospettiva della seconda.

Lungi dall’essere momento decisivo dell’azione rivoluzionaria, allora, la crisi, è stato d’eccezione permanente, apocalisse duratura. Al posto delle lenti dell’economia politica, affiorano spesso nel libro gli strumenti e i messaggi della teologia politica. L’apocalisse va però intesa come già avvenuta, perché il suo continuo annuncio serve solo per normalizzare i mezzi repressivi atti a combatterla, cioè a combattere chi tenta di sovvertire l’esistente. Alla crisi come opportunità andrebbe quindi sostituita la catastrofe come opportunità. Perché nella catastrofe c’è vita, dicono i nostri amici. Anzi, la catastrofe è lo spazio in cui si liberano l’autorganizzazione e le comunità solidali. Non è una cosa particolarmente nuova, c’è un filone che lo sostiene da tempo, molto libertario e molto americano, fino ad arrivare a Katrina e Sandy. Però, osservazione importante, non dobbiamo cadere nella retorica dell’“essere del bisogno”, figura della mancanza che si rivolge a chi può riempire il vuoto. Da qui deriva una critica puntuale alle ideologie mutualiste e cooperativiste, esplicite o implicite all’interno dei movimenti nella crisi. Finiscono per riprodurre la separatezza tra l’essere del bisogno e chi presume di rappresentarne la rivendicazione, riducendo il primo ad attore passivo e il secondo a funzione di servizio. Non sono un’alternativa al capitalismo, sostengono i nostri amici, bensì un’alternativa alla lotta. È questo un nodo contraddittorio e ambivalente, da cui è difficile sfuggire nella sola critica all’ideologia: non lo si può eludere, non vi si può restare intrappolati. Va allora distinta la pratica che crea nuovo legame sociale potenzialmente antagonista dalla ricetta burocratica, che riproduce settorializzazione e separatezza dell’essere del bisogno. Quello che rischia di diventare un fine politico, la realizzazione dei bisogni e dunque la neutralizzazione della loro portata sovversiva, va invece trasformato in un mezzo di socializzazione delle possibilità di lotta. In questo passaggio, aggiungiamo, l’essere de bisogno diviene soggetto del conflitto, e i poveri divengono classe.

 

Noi e loro

“Non è la debolezza delle lotte che spiega l’evaporare di ogni prospettiva rivoluzionaria; è l’assenza di prospettiva rivoluzionaria credibile che spiega la debolezza delle lotte”. Riecheggia qui Lenin, senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Vediamo allora come si costruisce la prospettiva.

Hanno ragione, i nostri amici, a rimarcare che non si misura la radicalità di una manifestazione dal numero di vetrine rotte; e hanno altrettanta e scontata ragione a deridere gli appelli alla non-violenza assoluta. Ancora una volta, anarchici e sinistra – come format politici e della mente – sono i principali obiettivi polemici. “La vera questione per i rivoluzionari – continuano – è quella di far crescere le potenze vive alle quali partecipano, di organizzare i divenire-rivoluzionari per arrivare infine ad una situazione rivoluzionaria”. È perciò rivoluzionario ciò che causa effettivamente delle rivoluzioni. Bene. Ma dove cercare gli embrioni delle potenze vive, le condizioni di possibilità dei divenire rivoluzionari? Qui le cose si semplificano per i nostri amici, si complicano per noi.

Nel testo, e nell’impostazione politica che lo anima, ritorna continuamente il “noi” e il “loro”, l’amico e il nemico: è assolutamente corretto come punto di vista e come obiettivo, è estremamente problematico per cosa significa se questo noi e questo loro vengono immaginati come appartenenze spontanee o semplice frutto di scelte individuali. Cosa motiva infatti il noi a essere tale? Sulla base della lettura potremmo rispondere: il desiderio di insurrezione. Nulla o poco ci viene però detto su come e dove si forma questo desiderio.

Dunque: da una parte ci sono le comuni dei rivoluzionari, dall’altra c’è l’opera della contro-insurrezione. È come se in mezzo non ci fosse nulla. “There is no such thing as society”, sosteneva la Thatcher; non esiste più una “società” da distruggere né da convincere, ripetono i nostri amici. Il problema è che con essa scompaiono le composizioni sociali e di classe, i rapporti di produzione e di sfruttamento, la specificità dei tempi, dei luoghi e delle contraddizioni. È come se gli spazi tra insurrezione e contro-insurrezione fossero popolari da sterminate distese di zombi, come avviene nella Hollywood del capitale. Il mondo viene ridotto alla lotta tra le guardie e i ladri, i giustizialisti tifano per le prime, i rivoluzionari si immedesimano nei secondi. Le soggettività sono allo stesso tempo esaltate e svuotate. Ci sono sempre, e così non ci sono mai. Rischiano di essere trasformate in significanti vuoti, che i rivoluzionari devono semplicemente riempire, attraendole dalla propria parte rivelando loro la gioia della comune (che nella sua connotazione oggettivamente positiva diventa l’equivalente di ciò che per i marxisti era la coscienza di classe).

“Ovunque c’è della cospirazione: negli atri dei condomini, alla macchina del caffè, nel retro dei kebab, nelle serate, negli amori, nelle prigioni”. Può essere vero dal punto di vista fenomenologico, poco utile dal punto di vista politico. Permette cioè di commentare le insurrezioni che avvengono, ben poco di anticipare quelle che possono avvenire. E invece proprio qui, nell’anticipazione di quello che non c’è, si colloca l’azione del militante rivoluzionario. Per cercare di afferrare la tendenza e piegarla in una direzione differente. “Noi non ce l’aspettavamo, ma l’abbiamo organizzata” diceva Alquati a chi gli chiedeva se si aspettassero l’esplosione delle lotte operaie negli anni ’60. Per quanto sia ovunque, infatti, la “cospirazione” non si muove su uno spazio liscio e omogeneo: esistono dei differenziali di potenziale, che non sono determinati meramente dalla gerarchia capitalistica, ma innanzitutto dalle possibilità delle lotte di far male al nemico. Esistono luoghi e tempi storicamente determinati, in cui si costruiscono processi di conflitto ed eventi di rottura.

Proprio Alquati, facendo conricerca alla Fiat, parlava di un’“organizzazione invisibile” attraverso cui gli operai comunicano, preparano le lotte, ne scandiscono i tempi, bloccano la fabbrica. Da lì nasceva il “gatto selvaggio”, che era imprevedibile, quindi non controllabile per una mediazione riformista. Si attuava attraverso una rotazione continua delle tattiche, dei metodi, dei tempi e dei luoghi, e non rivendicava nulla. Era il punto più avanzato della non collaborazione operaia. Il compito di un’organizzazione politica, diceva Alquati all’epoca, non è pianificare in modo predeterminato il gatto selvaggio, perché correrebbe il rischio di renderlo assorbibile al padrone addomesticandoglielo: essa deve invece contribuire ad intensificarlo. Quell’organizzazione invisibile, quella “spontaneità organizzata”, si costituiva attraverso un processo materiale, in un luogo e in un tempo determinati, fatta da specifici operai, con comportamenti peculiari. Troviamo altri esempi comuni, in condizioni altrettanto particolari, con forme di espressione diverse. Non era, cioè, un dato astorico, non è un atto di fede. In molti luoghi e in molti tempi non si è data, o si è data in tutt’altre forme.

Ecco, qui abbiamo invece l’impressione che, dandone per scontata l’esistenza, si rinunci a ricercarne concretamente le tracce e le condizioni di possibilità. Essendo ovunque, rischia di essere in nessun luogo. Ci sembra, in altri termini, che manchi non solo la conricerca, che a dire il vero manca o è insufficiente un po’ dovunque: a mancare è innanzitutto il problema della conricerca, cioè il problema di come la soggettività si trasforma in controsoggettività. Senza questo processo, che è un processo di anticipazione, scommessa politica e tentativo di rovesciare la tendenza, la soggettività finisce per essere un significante vuoto. Cospira sempre, ma non compare mai in carne e ossa, nelle sue specificità spaziali e temporali, nelle sue forme di accettazione e rifiuto, nelle sue differenti forme di potenza concreta e virtuale. Assomiglia più allo spirito santo che a un soggetto rivoluzionario. Si combatte nel nome di quel vuoto, rischiando di immaginarsi come suo rappresentante invisibile.

 

Demercificare il desiderio

Se Marx abbandonato a se stesso corre il pericolo di restare intrappolato nel circolo chiuso della logica del capitale, Lenin separato da Marx diventa volontà priva di materialismo, rottura senza processo. La prospettiva si incarna nelle lotte, oppure resta pura annunciazione. Se ci sono state insurrezioni senza rivoluzione, come correttamente dicono i nostri amici, è autoconsolatorio attribuirne la colpa esclusivamente ai corrotti e ai traditori. Sia chiaro, i sedicenti “manager di movimento” esistono eccome, proliferano e sono dannosi, e fanno bene i nostri amici a scagliarvisi contro. Però pensare che l’unico problema siano loro significa peccare di autoreferenzialità, immaginare appunto un mondo in cui vi sono esclusivamente rivoluzionari e controrivoluzionari. Il punto è invece che i rivoluzionari faticano a comprendere ciò che sta in mezzo: a cogliere le forme di rifiuto, a rompere i livelli di accettazione, a tentare di anticipare le esplosioni, a essere adeguati quando avvengono, a capire cosa resta dopo. A trasformare dunque ciò che sta in mezzo in una “situazione rivoluzionaria”.

Vista da questa prospettiva, la polemica tra potere costituente e potere destituente perde consistenza, perché entrambi i termini presi nella loro separatezza non ci dicono nulla. Quella contrapposizione escludente ci è stata infatti consegnata dal pensiero della controrivoluzione, cioè il postmoderno. Il nostro compito è romperla, non prendere posizione al suo interno, pena legittimare quel campo discorsivo. Dunque, se la critica all’abuso retorico del “costituente” ci sembra convincente, abbiamo però l’impressione che opporvi semplicemente il suo calco rovesciato, cioè il “destituente”, ci faccia restare all’interno del problema. In una prospettiva rivoluzionaria non esiste per senza contro, così come il contro contiene necessariamente un per.

Scardinare questa falsa dicotomia ci permette di focalizzare il vortice ciclotimico imposto dal capitalismo contemporaneo, o “cibernetico” come viene definito nel libro, in una condivisibile polemica con la tecnofobia anarchica e con la tecnofilia marxista. Nella crisi i soggetti ondeggiano continuamente tra euforia e depressione, sui mercati finanziari così come nei movimenti. Ciò vale soprattutto per le nuove generazioni, principale campo di sperimentazione della produzione di una soggettività della crisi, continuamente spinta all’alternativa tra accettazione e nichilismo, tra aspettative decrescenti e atteggiamento no future. Una “felicità” e un “desiderio” che non rompano questa dialettica sono merce, anche quando viene rubata nei supermercati o acquistata gratuitamente nelle nostre comunità militanti. Il comunismo è un movimento reale, non un regalo dello sviluppo del capitalismo, né un’oasi che creiamo in mezzo al deserto. Il punto non è rendere desiderabili le forme di vita delle comunità militanti, piccole isole nella rete oppure obtscine del XXI secolo: anzi quando queste si percepiscono come mondi separati, sprofondano in una marginalità interamente funzionale alla governance capitalistica. Il punto è che divenga desiderabile la trasformazione delle proprie condizioni di vita, la conquista collettiva di libertà e autonomia. Perché non c’è gioia senza lotta per la gioia, e non c’è lotta per la gioia senza organizzazione della lotta.

 

Conquistare l’ignoto

Un libro come questo dei nostri amici dialoga con pezzi significativi della composizione giovanile e metropolitana, ne esprime in parte i problemi e la voglia di altrove, le possibilità antagoniste e l’ambivalenza delle passioni. Esprime anche il pensiero dell’immediato, con la sua doppia faccia: da un lato è la riappropriazione del “qui e ora” contro le catene del passato e le utopie del futuro; dall’altro è frutto del collasso della temporalità storica, la sua fagocitazione in un presente senza fine, senza genealogie e senza prospettive. Nell’immediato si perde quello che c’è prima e quello che c’è dopo, ovvero la possibilità di anticipare e la necessità di sedimentare. Il contrario dell’immediato non è la mediazione, bensì il progetto, che si alimenta di continuo del rapporto tra costruzione del processo e balzo in avanti.

Questo ordine del discorso dei nostri amici è tra l’altro messo positivamente in tensione da tante esperienze territoriali e metropolitane che portano avanti. Dentro questi percorsi tentano di sfuggire alla dialettica tra locale e globale, destrutturando entrambi i termini che appartengono alla logistica del capitale e provando a immaginare il legame tra piani di consistenza diversi. Non semplicemente radicandosi nel territorio, ma producendolo. Qui affiorano i problemi materiali, squarciando il velo delle soluzioni retoriche. Qui c’è tanto lavoro politico da fare, per i nostri amici e per tutti.

Vi è comunque un’attitudine di fondo da parte dei nostri amici che condividiamo, a prescindere dalle espressioni concrete che poi assume: è la disponibilità all’ignoto. Ciò che va innanzitutto rifiutato è ciò che già conosciamo, la miseria della condizione presente. La guerra e la barbarie future non possono essere giocate come armi di ricatto, perché la guerra e la barbarie le subiamo ogni giorno. A essere fonte di paura è il noto. Per sconfiggere quella paura dobbiamo predisporci all’ignoto: non per estetizzarlo ideologicamente, ma per conquistarlo concretamente. Servono ancora tanti sforzi e tanta disciplina per respirare insieme, collettivamente, l’aria dell’autonomia.

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