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Tav, la fermata è globale

Il concetto dell’alta velocità ferroviaria sembra andare in crisi a livello globale e non a causa delle proteste dei no-Tav in Val di Susa, elemento assai marginale nelle strategie planetarie. E non sono i temi ambientali a rimettere in discussione i progetti per le grandi opere dall’Asia all’America Latina, fino alla vecchia Europa. Piuttosto elementi come sicurezza, investimenti astronomici per la costruzione di nuove linee, scarsa redditività di quelle esistenti, mancato obiettivo di decongestionare le megalopoli. E sempre più spesso i prezzi proibitivi dei biglietti, non accessibili ai più, che fanno viaggiare i costosi treni veloci semi vuoti e non li rendono competitivi con i voli low cost, vanificando l’unico ruolo a vantaggio dell’ambiente dell’alta velocità.

Vantaggi ambientali dell’altà velocità?

Scontato l’impatto su paesaggio ed ecosistema dell’infrastruttura ferroviaria – variabile a seconda della tipologia di territorio, ma in alcuni casi altissimo come in Val di Susa, il treno (a bassa o alta velocità) resta il mezzo di trasporto meno inquinante. Sulla stessa distanza, un passeggero ferroviario emette il 76% di CO2 in meno rispetto a chi usa l’aereo e il 66% in meno rispetto a chi usa l’auto, senza contare i vantaggi ambientali dello spostamento del trasporto merci da gomma a rotaia. L’alta velocità è stata vista, anche in area ambientalista internazionale, come una soluzione all’aumento incontrollato del traffico aereo ( 1000% in Europa tra 1997 e 2007, prima che la crisi lo frenasse, Airbus prevede entro il 2030 il raddoppio dei grandi jet in servizio) e alla domanda di costruire nuovi aeroporti o amplificare gli esistenti. Gli alti costi del servizio Tav e il boom delle compagnie aeree low cost hanno fatto saltare questo teorema: il prezzo del biglietto resta decisivo nella scelta, tanto più in tempo di crisi, così sempre più passeggeri si orientano sui voli low cost.

Sorgono problemi in molti dei sei Paesi coinvolti nell’alta velocità (Giappone, Francia, Germania, Italia, Spagna e Cina). Quelli italiani sono noti a tutti. La Cina ha sospeso i progetti dopo l’incidente dello scorso luglio sulla Pechino Shanghai con il disastroso scontro tra due convogli da 400 kmh. Francia e Giappone, i primi due Paesi a creare queste infrastrutture (Tgv e Shinkansen), forniscono efficaci servizi tra destinazioni di medio raggio (400-800 km) ma non sono riuscite in uno degli obiettivi strategici della Tav: decentrare, grazie a trasporti rapidi, parte della popolazione di Parigi e Tokyo, che invece di decongestionarsi hanno continuato a crescere.

Il problema degli investimenti

E i Paesi con nuovi progetti sulla carta (Australia, Brasile, Indonesia, Gran Bretagna e Portogallo) sono fermi di fronte all’impatto dei costi, resi sempre meno accessibili dalla recessione mondiale. Il Portogallo, sull’orlo della bancarotta, non può permettersi simili investimenti. In Brasile, dove non mancano i capitali, il progetto ad alta velocità tra Rio e São Paulo non trova aziende di costruzione convinte a imbarcarsi nella titanica impresa. In Australia il rapporto tra l’immenso territorio e la scarsa popolazione rende improbabile il ritorno economico dell’investimento. E in Gran Bretagna, il progetto del governo da 32 miliardi di sterline per portare l’alta velocità a nord di Londra (ora collega solo la capitale alla Manica e da lì, via tunnel, alla rete continentale), è contestato da The Economist: il noto magazine liberista afferma che l’investimento non vale il servizio che ne deriverà e rischia di ‘far deragliare le finanze pubbliche’, che conviene spendere meno per migliorare le linee esistenti. Insomma, partendo da analisi e valori completamente diversi, l’organo del capitalismo mondiale è giunto alle stesse conclusioni dei no-Tav della Val di Susa. Merci e persone continuano però a viaggiare, resta quindi aperto il problema di come ridurre l’impatto di questi spostamenti, visto che trasporto aereo e su gomma sono molto più inquinanti della Tav.

Segnalazione dalla rete, fonte: Ecoturism report

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