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Il devastante costo ecologico e umano dei metalli rari, indispensabili per la cosiddetta “rivoluzione verde”

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Sia gli Stati Uniti che l’UE hanno dichiarato “strategici” per le proprie economie, ed in particolare per la realizzazione della cd. “green revolution”, i “metalli rari” – il che significa che considerano strategiche, cioè loro legittimo bersaglio, tutte le aree del mondo ricche di questi minerali, a cominciare dalla Cina e una serie di paesi africani, asiatici e sud-americani. Il libro di Pitron che qui sotto abbiamo recensito dà un’idea piuttosto approssimativa, ma sufficiente, della devastazione ambientale e umana che la ricerca e l’estrazione di questi minerali determina. Anche ammesso che l’auto elettrica possa essere un po’ meno inquinante dell’auto a benzina, a gpl o a metano, la sua produzione ha effetti drammatici nei paesi del Sud del mondo. Un’uscita capitalistica dall’inquinamento ambientale prodotto dal capitale, da qualsiasi lato la si guardi, è del tutto impossibile. L’ecologismo o è anti-capitalistico (in senso rivoluzionario), o non è: bisogna risalire dalla lotta contro gli effetti della catastrofe ambientale in corso (di cui l’attuale pandemia è solo una delle conseguenze) alla lotta contro le sue cause.

Il libro di G. Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale (Luiss, 2019) fornisce un’ampia documentazione sullo sventramento dei territori che si sta attuando in Cina e in molte altre aree del Sud del mondo per la ricerca frenetica dei metalli rari e delle terre rare – gli ingredienti essenziali al cosiddetto “Green New Deal”. Tale sventramento ha molto a che vedere con quell’attacco ai “substrati micro-biologici della vita sulla terra” alla base, tra l’altro, dell’attuale epidemia Covid-19, di cui parlano i redattori di Chuang in Contagio sociale (per approfondire riguardo al nesso tra devastazione ambientale da un lato, sia a livello macro che nella dimensione micro-biologica, e dall’altro lato diffusione di agenti virali e in genere insorgere di nuove malattie, rinviamo anche a Alle origini del Covid-19: Agrindustria ed epidemie, Intervista a R. Wallace, e all’articolo di taglio prettamente scientifico di Laura Scillitani, Aids, Hendra, Nipah, Ebola, Lyme, Sars, Mers, Covid…,comparso sul portale Scienza in rete).

* * * *

Il libro ha due facce. Una ideologico-politica, l’altra analitica. La prima mostra un feroce sentimento anti-cinese, e ci interessa meno anche se dà utili notizie. L’altra, particolarmente interessante, mette in luce gli enormi costi umani ed ecologici della transizione energetica appena avviata che va sotto il nome di “green revolution” o “capitalismo verde”.

L’Occidente è sotto un embargo permanente da parte della Cina – è questa la tesi del Pitron (P.) sciovinista, motivata dal fatto che la Cina ha oggi il quasi-monopolio (p. 27) dei metalli rari e delle “terre rare” che sono indispensabili per il passaggio a un’economia de-carbonizzata. Il passaggio che oggi viene presentato come la via della salvezza dalla catastrofe ecologica sempre più incombente (quanto questa economia sarebbe green, amichevole verso la natura, lo vediamo dopo). Riferendo le stime dello statunitense Mineral Commodity Summaries, P. sostiene che Pechino produce il 44% dell’indio consumato nel mondo, il 55% del vanadio, quasi il 65% della fluorite e della grafite naturale, il 71% del germanio e il 77% dell’antimonio. Secondo uno studio dell’UE, poi, la Cina produce il 61% del silicio, l’84% del tungsteno, il 95% delle “terre rare” (sia pesanti che leggere), per cui “è il paese più influente nel rifornimento mondiale in materie prime essenziali” (pp. 79-80). Ulteriori percentuali sostengono questa affermazione per l’antimonio (87%), la barite (44%), il bismuto (82%), la fluorite (64%), la fosforite (44%), il fosforo (58%), il gallio (73%), l’indio (57%), il magnesio (87%), lo scandio (66%).

metalli rari sono sostanze rocciose “dotati di proprietà favolose”, “agglomerati di atomi superpotenti” che si trovano in natura in piccolissime quantità (a differenza dei metalli usati finora in modo prevalente: ferro, oro, argento, rame, piombo, alluminio, etc.): per produrre un solo chilo di vanadio servono otto tonnellate e mezzo di roccia, ne servono cinquanta per un chilo di gallio, fino a duecento per un chilo di lutezio… Questi metalli sono essenziali in particolare per la produzione delle energie “rinnovabili”, e sono di fondamentale importanza per la microelettronica, le nanotecnologie, i cellulari, i computer, l’industria aerospaziale, le telecomunicazioni, il nucleare, etc.

Le “terre rare” sono un insieme, un gruppo, di 17 elementi chimici con caratteristiche particolari: scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio. Elementi  che è molto difficile trovare in concentrazioni utili (per questo definiti rari), difficili da trattare perché contengono quasi sempre materiali radioattivi come l’uranio e il torio. Sono di vitale importanza sia per le tecnologie di ultima generazione (laser, reattori nucleari, memorie per computer, motori ibridi, reti ottiche, batterie ricaricabili, telefoni cellulari, magneti permanenti, motori ibridi, marnitte catalitiche, luci fluorescenti, raffinazione del petrolio, radiografie, ecc.) sia per la produzione bellica (i missili “intelligenti”, in particolare). Lo sono, inoltre, per alcune leghe metalliche di speciale pregio.

Da qui l’allarme sinofobo: “la Cina sta creando una filiera interamente sovrana e integrata, che ingloba tanto le miniere nauseabonde di poveri minatori [cercatori di metalli rari e terre rare – n.] che le fabbriche ultramoderne popolate da ingegneri ultralaureati” (p. 101). Poiché “chi controlla i minerali, controlla l’industria”, e chi controlla l’industria è anche avvantaggiato sul fronte della guerra, la Cina sta accumulando un potere debordante sull’Occidente, in particolare per l’Europa, che è poverissima di metalli rari e terre rare (o ha cessato di cercarli). E, se questo non bastasse, il suo “nazionalismo minerario” sta ispirando un nugolo di altri “stati minerari nel mondo”, per prima l’Indonesia (ricca di stagno), ma anche altri paesi come la Bolivia di Morales (ricca di litio, fondamentale per le batterie), il Laos, “e anche l’Africa inizia a prenderci gusto” (!!!), e se anche i “negri” ci prendono gusto, allora è finita. Si aggiunga che “la Corea del Nord possiederebbe alcune delle più grandi riserve di terre rare al mondo”, e – data la logica politica di P. – risulta ovvia la sua conclusione: la Cina va fermata in tempo, prima che sia troppo tardi. Prima che il suo “magistero sul ventunesimo secolo” diventi inattaccabile.

Va fermata come? Riprendendo a ritmi serratissimi la ricerca dei metalli rari e delle terre rare che l’Occidente ha sospeso da decenni per delocalizzarne “la produzione e l’inquinamento a essa associato in paesi poveri pronti a sacrificare il loro ambiente per arricchirsi”. E vai con la lagna che la Francia era davanti con la Rhône-Poulenc, ma si è fregata da sola per colpa di quelli che a La Rochelle gridavano, organizzati in comitati, “Rhône-Poulenc è una centrale atomica” o “Scoppierà” (p. 67). In questo modo la Francia ha perso la sua “sovranità mineraria”. Stesso “suicidio” avrebbero compiuto gli Stati Uniti seguendo nel 1991 un suggerimento di Summers, a quel tempo capo-economista della Banca mondiale, che proponeva ai paesi occidentali di esportare le proprie industrie inquinanti nei paesi poveri, in particolare “nei paesi sotto-popolati dell’Africa, che sono fortemente sotto-inquinati” (p. 69). Dopo aver sparso qualche lacrimuccia qua e là sui poveri minatori del Sud del mondo, P. viene al “delitto” che più gli brucia: “abbiamo consegnato a dei potenziali rivali un prezioso monopolio” (p. 77). Il suo rimedio, per sfuggire al castigo, è riprendere il prima possibile la ricerca dei metalli rari anche in territorio occidentale, in Francia in particolare (che la Francia “si impegni sul serio nella battaglia delle miniere” – p. 143), per quel ritorno alla “sovranità” che è l’ossessione di tutti quei fanatici sciovinisti che vorrebbero far girare all’indietro la ruota della storia.

Se questo libro fosse tutto qui, non varrebbe più di tanto la pena di occuparcene. Ed invece contiene una parte analitica che è per noi, e per chiunque si riconosca in una prospettiva coerentemente anti-capitalista, della massima importanza in quanto ci consente – insieme a una montagna di altri studi, beninteso – di spiegare perché è impossibile un capitalismo verde e perché il Green New Deal di cui si preconizza l’avvento più rapido possibile non è che un’altra forma di brutale saccheggio capitalistico della natura e di sfruttamento intensivo del lavoro.

Vediamo quali dati P. fornisce per supportare questa conclusione.

1 Per estrarre il principio attivo dei metalli rari e delle terre rare è necessario “uno sfruttamento più intensivo della crosta terrestre” con “un impatto ambientale ancora più forte di quello causato dall’estrazione del petrolio” (p. 27). Nei prossimi 15 anni sarà necessario raddoppiare la produzione di questi metalli con conseguenze negative per l’ambiente incalcolabili (Forse è una boutade, ma P. afferma che, di questo passo, nel periodo di transizione dal “vecchio modello” energetico carbone/petrolio al “nuovo modello” delle rinnovabili, ovvero nei prossimi 30 anni, “sarà necessario estrarre più minerali di quanti l’umanità ne abbia estratti negli ultimi settantamila” (p. 27)).

2 La corsa scatenata ai metalli rari e alle terre rare produrrà l’ulteriore potenziamento dell’industria mineraria che è già oggi la seconda industria più inquinante al mondo. E lo farà in modo esponenziale perché in particolare le terre rare contengono di norma elementi radioattivi come il torio e l’uranio (p. 65). Perciò è scontato che la loro tumultuosa estrazione, già in corso, moltiplicherà le scorie radioattive di grande potenza disseminate nel mondo – un attivista ambientale malese, Tan Ka Kheng, denuncia che la Mitsubishi ha prodotto in una sola miniera nel nord della Malesia una incredibile montagna di rifiuti radioattivi stivati in sacchi di plastica e bidoni arrugginiti che inquineranno l’area per milioni di anni (p. 169).

3 È prevedibile che questa corsa scatenata porterà in un tempo piuttosto rapido ad una penuria di metalli rari e terre rare, che potrebbe peraltro sovrapporsi a quella delle vecchie fonti energetiche, con la conseguenza di impiegare quantità crescenti di energia per dissotterrarli e raffinarli. Già oggi per queste operazioni è richiesta un’immensa quantità di acqua e di solventi chimici, oltre che una massiccia de-forestazione – agghiaccianti le descrizioni delle catastrofi ecologiche già prodotte in Cina, Mongolia, Kazakhstan, Bolivia nelle aree di estrazione di questi metalli. Una estrazione dai costi umani altissimi, sia per i minatori, sia per gli abitanti delle aree minerarie (dove si registrano tassi di cancro altissimi), sia per i paesi dove la ricerca mineraria è concentrata, ed infine per l’intero ecosistema. Scrive nella prefazione S. Liberti: “L’estrazione delle terre rare non è innocua né minimamente pulita: richiede fatica e sudore, veicola malattie, distrugge l’ambiente. Le condizioni di lavoro sono proibitive, gli standard ambientali bassissimi, i costi sanitari elevati” (p. 16).

4 Non è affatto garantito che il passaggio dalle auto a benzina a quelle elettriche produca una riduzione dell’impatto ambientale. È possibile, anzi, ipotizzare anche il contrario. Innanzitutto perché la fabbricazione di un’auto elettrica richiede un consumo di energia molto superiore a quello richiesto dalla fabbricazione di un’auto tradizionale – da tre a quattro volte superiore (p. 46). Ciò si deve in primo luogo alla produzione delle batterie, che essendo costituite all’80% di nichel e poi di cobalto, alluminio, litio, rame, etc., sono pesanti, pesantissime: nel caso della Tesla/S sono il 25% del peso complessivo dell’auto, e pesano la metà del peso di una Clio. Certo, allo stato le macchine elettriche producono una quantità di carbonio che è circa la metà di quella delle auto tradizionali, ma per potenziare l’autonomia delle auto elettriche sarà necessario costruire batterie più potenti di quelle attuali e quindi generatrici di maggiori emissioni. Tutto considerato, perciò, si può prevedere che il risparmio nella emissione di carbonio si ridurrà fino a circa i ¾ delle emissioni attuali medie di un’auto tradizionale. E si ridurrebbe ancora se si prendesse in considerazione il tempo di logoramento delle batterie, di solito piuttosto limitato. Ma non è finita qui perché bisogna mettere in conto l’energia e le materie prime necessarie per costruire le reti e le centraline elettriche indispensabili per questi nuovi veicoli e i costi ecologici della “elettronica e degli oggetti di cui questi veicoli sono pieni” (p . 47). La conclusione, nostra e non di P., è che si tratta di una grande truffa – però molto lucrosa per chi ci investe, se è vero che proprio oggi l’a.d. di Intesa-San Paolo, Messina, ha dichiarato che la sua banca è pronta ad investire 50 miliardi su questa transizione, e – più in grande – la nuova Commissione dell’UE della van der Leyen ha messo questo impegno al primo posto, e così pure la Germania, perfino anticipando i suoi piani di investimento in questa direzione.

5 C’è poi da considerare l’enorme costo dello smaltimento dei rifiuti dell’elettrico e dell’elettronico. Il recupero/riciclaggio dei metalli rari è cosa difficilissima e molto dispensiosa perché si tratta di slegarli dalle altre materie prime (ad esempio ferro o rame) a cui sono stati legati. Per questo, al momento, sebbene la produzione di auto elettriche non sia più all’anno zero, nessun capitalista ha ritenuto profittevole occuparsi di questo. Sicché si può prevedere che andranno a formarsi altre decine di migliaia di gigantesche montagne di rifiuti dotati di radioattività – con quali grandi benefici per i territori interessati e la loro aria è facile immaginare.

6 P. dà per scontato che la transizione energetica in corso si accompagnerà ad un ulteriore sviluppo di quella digitale, e qui ridicolizza la insopportabile fuffa di tutti i (falsi) profeti del digitale come immateriale parlando opportunamente della “materialità dell’invisibile”. E ricorda che la produzione di una sola email equivale all’utilizzo di una lampadina a basso consumo di forte potenza per un’ora, e che una sola banca dati consuma ogni giorno la stessa quantità di elettricità di una città di 30.000 abitanti. Per cui “la sedicente marcia felice verso l’era della dematerializzazione non è altro che un grande inganno, poiché in realtà genera un impatto fisico sempre più considerevole. Per questo Leviatano digitale avremo bisogno di centrali a carbone, a petrolio, a gas e nucleari, di campi eolici, di fattorie solari e di reti intelligenti, tutte infrastrutture per cui ci serviranno metalli rari” (p. 51).

7 In sostanza, come nota il Pitron “ecologista”, le fonti di energia “rinnovabili” (raggi del sole, forza del vento o delle maree, energia idraulica, biomasse, etc.) e tutta “la transizione energetica e digitale” in corso sono basate sullo sfruttamento di materie prime non rinnovabili e su attività estrattive, produttive e di manutenzione che generano grandi quantità di “gas a effetto serra” (p. 57). Per cui non è da escludere, anzi, che ci siamo infilati (siamo stati infilati) nell’“assurdo” di una “trasformazione ecologica che potrebbe avvelenarci tutti con i metalli pesanti prima ancora di averla portata a termine” (p. 159). Né è da escludere che, rimpiazzando la dipendenza dal petrolio con quella dai metalli rari, ci comportiamo “come un tossicomane che per interrompere la propria dipendenza da cocaina cade in quella da eroina” – invece di risolvere il problema, lo spostiamo. Non è da escludere che il fervore “con cui dominiamo i pericoli ambientali presenti potrebbe condurci di fronte a gravi crisi ecologiche” (p. 51). E queste crisi, è evidente, hanno molto a che vedere con la produzione di nuove malattie. Viene irresistibilmente alla mente la frase del Manifesto sulla specifica maniera tipica del capitalismo di risolvere le proprie crisi mediante la “preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi” atti a prevenirle.

Si prospettano, quindi, non solo ulteriori crisi ecologiche, bensì ulteriori guerre per i mari e per lo spazio, dal momento che il P.  sciovinista accenna (con malcelato entusiasmo) alla corsa francese alla esplorazione degli oceani, in particolare nel Pacifico delle isole polinesiane di Wallis e Futuna, all’“economia blu” che “racchiude un favoloso potenziale di arricchimento” (p. 152), e all’esplorazione dello spazio, sul quale nel 2015 Obama ha “tolto il lucchetto” con l’US Commercial Space Launch Competitiveness Act scatenando nella corsa all’accaparramento delle rocce celesti parecchie società della Silicon Valley autodenominatesi “cercatori d’oro spaziali” (p. 154). In questo modo, nota P. ridiventato “ecologista”, ha preso corpo “la più grande impresa di appropriazione degli elementi terrestri mai conosciuta prima” (p. 155), ed una “stretta sulla biodiversità” ancora più ferrea. Ed anche in questo caso tornano fuori (involontariamente) le categorie marxiane di appropriazione/espropriazione.

Insomma, non c’è nessuna possibilità di una auto-riforma ecologica del capitale e del capitalismo. Carbone, petrolio, metalli rari, terre rare sono per il capitale altrettante fonti di profitto, e niente altro. Cambiano le fonti di energia e le tecnologie, non le leggi di funzionamento del capitalismo. Solo una (la) rivoluzione può salvarci, questa formula felice della Naomi Klein è stata poi da lei stessa affogata nell’accreditamento del Green New Deal. Ma il tema è quello.

Da Si Cobas

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