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Chi non danza non sa cosa succede 2 – Voci dal Weekend ad Alta Felicità

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  • Parte prima
  • Corre l’anno 2021, ormai il tempo è cambiato insieme alla percezione del mondo e delle nostre esistenze. Poco dopo l’esplosione dell’emergenza Coronavirus, a inizio 2020, già sapevamo che non sarebbe bastato un lockdown, non sarebbe bastata la pazienza – aka the new resilienza – e non sarebbero bastate le misure gestionali attuate dalle istituzioni globali a proteggere la salute e la vita delle persone. Scrivevamo così a febbraio 2020:

    «Siamo ancora in tempo per pretendere risposte per tutti, per costruire un discorso capace di evidenziare come il cambiamento climatico sia strettamente legato al rischio di pandemie e come gli studi su di esso possano portare anche a una prevenzione di queste, per costruire possibilità di solidarietà di fronte a misure che costringono a un adeguamento all’anormalità senza dare alternative valide: chi pagherà i giorni di lavoro persi, chi sosterrà madri che in assenza di servizi all’infanzia e scuole si sobbarcano le conseguenze, come non accettare di essere sottoposti a rischi mortali e come riprenderci il diritto alla salute, quali sono le condizioni lavorative del personale sanitario in una situazione di emergenza ma soprattutto nella quotidianità ?»[1] 

    La percezione del tempo è dilatata tra l’epoca Pre e Post Covid e questo rende tutto di più difficile interpretazione. Le scale di priorità si mescolano, le volontà si indeboliscono, le capacità di organizzarsi insieme evidenziano più i nostri limiti che la nostra forza. Ci sono esperimenti però che fan sorgere l’idea che non tutto sia schiacciato in una dimensione individualistica e che praticare l’obiettivo sia possibile. Si è da poco conclusa l’estate di lotta NoTav e le occasioni per confrontarsi, parlare con molte persone diverse, stare insieme, non sono affatto mancate. Così, annotando stralci di conversazione, intervistando chi ha partecipato alle iniziative e volendo comprendere le spinte che muovono questa partecipazione, è nato questo contributo, parziale e poco ponderato, ma con l’intenzione di restituire uno spunto per andare avanti, per essere ancora dentro al tempo. In particolare, l’esperienza dell’Alta Felicità ha sollevato curiosità e generato conversazioni interessanti: da qui partiremo. Con la speranza che questo contributo possa aiutare a tracciare nuove traiettorie, per immaginarsi un autunno che verrà, che sarà certamente intriso di contraddizioni e momenti di crisi, ma da attraversare con un’unica certezza: la voglia di lottare insieme.

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    Il Festival mancava all’appello da un anno. Nel corso della pandemia, molti sono stati i discorsi e i tentativi fatti per l’autogestione della propria salute, l’organizzazione di una tutela dal basso, la riappropriazione della cura collettiva. Nonostante le difficoltà estreme incontrate nell’immaginare e poi nel mettere in pratica questi propositi, numerose esperienze che sono andate e continuano ad andare in questa direzione si sono realizzate in tutta Italia. In Val Susa, a fronte di una controparte che ha colto la palla al balzo per avanzare con i cantieri e l’apertura di nuovi fronti, il movimento No Tav non si è mai fermato e, una volta giunta l’estate, ha lanciato la sfida: organizzare l’appuntamento che da anni costituisce un modo diverso di fare socialità, nonché l’occasione per tutti e tutte coloro che i territori della valle non li hanno mai attraversati, di vivere un’esperienza di lotta e di festa.

    Le critiche non si sono fatte attendere, i titoli sui giornali pure, istanze di sfiducia generale nemmeno. Eppure, ciò che di fatto si è sperimentato nella piana di Venaus è stato un tentativo di collettiva autotutela sanitaria, un esperimento di fiducia reciproca; per proteggere chi nel contagio è più a rischio e contemporaneamente tornare alla bellezza del danzare, e chi non canta a squarciagola non sa cosa si perde. E’ significativo il fatto che la maggior parte dei e delle giovani intervistate abbiano avuto un’opinione positiva di come è stato organizzato il Festival, giudicandolo un esperimento inedito. Riportando le parole di una giovane musicista:

    «[…] alla fine, con il fatto che praticamente tutti erano vaccinati o tamponati si poteva stare tranquilli, ritrovarsi più vicini e godersela. Mi son sentita molto sicura e questa tutela della salute è una cosa bellissima. Perché poi è un peccato quando vai a vedere dei concerti e devi stare tutti distanziati senza potertela godere, anche solo con un abbraccio.. […]»

    Il fatto di poter praticare un’alternativa valida perché sicura per la salute collettiva, senza applicare misure coercitive col pretesto che sono le uniche che funzionano, viene riconosciuto, percepito come possibilità reale, e anche posto in netto confronto con la gestione istituzionale dell’emergenza sanitaria. Eloquente la testimonianza di un ragazzo di Novara:

    «[…] il discorso dei tamponi per esempio.. dovrebbe essere applicato più su larga scala, l’approccio del tampone per permettere alla gente di partecipare, facendolo a basso prezzo perché permette a tutti di farlo, non costringe la gente a vaccinarsi, permette di tracciare.. questo dovrebbe essere fatto su larga scala. Se lo stato vuole fare un’operazione sanitaria allora dovrebbe fare pagare al prezzo di costo, invece ti costringe a fare un tampone a 25 euro che ti vale 48 ore, ti costringe a vaccinarti.. anche mettere obbligatorio il green pass: se diventasse obbligatorio il vaccino allora qualsiasi conseguenza sarebbe a carico dello Stato, invece se ad essere obbligatorio è il green pass decidi tu se vaccinarti o meno e così lo Stato non si assume nessuna responsabilità».

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    In questo anno e mezzo di pandemia, sono stati molti i discorsi e le prese di posizione fortemente critiche messe in campo nei confronti di una gestione sanitaria inefficace, criminale, inadeguata e incompetente. Si è posta sotto accusa l’esplicita volontà di privilegiare il profitto a discapito della salute, delle restrizioni incuranti delle fragilità che avrebbero approfondito: quelle legate a difficoltà economiche, all’esigenza di una vita sociale, ai problemi che comporta un isolamento coatto.

    Ora c’è bisogno di aprire uno spazio reale un cui queste critiche lascino campo a proposte praticabili, di una messa in gioco di tutte le nostre competenze; affinché un modo diverso di autogestione e di vita diventi proposta plausibile per tutti e tutte coloro che rifiutano questa gestione delle esistenze. È difficile pensare di organizzare verso l’alto quei moti di rifiuto che sono frutto della volontà di difendere individualisticamente le proprie libertà di consumo e circolazione, ma non possiamo ignorare l’esistenza di sacche di autonomia capaci di leggere la realtà attraverso i meccanismi di dominio che la intercorrono, per rifiutarli. Così come non si può ignorare la quantità di persone ormai stanca di condurre un’esistenza completamente alienata, che ha la volontà di riprendersi la propria vita, le proprie possibilità e i propri mezzi. Vi sono delle alleanze possibili con chi è più specificamente detentore di competenze tecniche, mediche e scientifiche di cui occorre servirsi. Così, il week-end ad Alta Felicità ha potuto contare sulla partecipazione di mediche e medici volontari, disponibili a mettere a servizio di questa lotta le proprie competenze. A partire da questi tentativi, riteniamo che dotarsi di strumenti di accesso a dei saperi che spesso ignoriamo nella nostra quotidianità, nonché deleghiamo a chi ne fa una professione, sia oggi una priorità.

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  • Parte seconda
  •  

    La sensazione che si aveva nel girovagare tra le tende del campeggio, le bancarelle e gli stand era quella di essere partecipi in qualche modo di un abbraccio collettivo. Si aveva la sensazione di rincontrarsi dopo un lungo viaggio. La gente aveva voglia di parlare, discutere, condividere, di ragionare insieme e aggiornarsi sulle proprie condizioni di esistenza. Nessuna delle persone che abbiamo incontrato si è sottratta alla possibilità di una discussione e le interviste svolte spesso sono diventate biunivoche: intervistat* e intervistatori/trici perdevano il proprio ruolo, laddove la voglia di saperne di più sul movimento No Tav, sul Festival o anche solo di rigirare le domande sul proprio vissuto di pandemia all’interlocutore/trice abbattevano naturalmente quel muro che, anche in questi contesti, solitamente ha bisogno di più tempo, più fiducia e conoscenza per essere superato.

    Questa era il primo elemento che si coglieva: un generale bisogno di rapportarsi agli e alle altre, di condividere interessi, di conoscere. Una sorta di riscoperta collettiva della vita come cooperazione sociale, come legame comunitario in fondazione, allo stesso tempo condotta a partire da una fase di interruzione della “normalità” della quotidianità riorganizzata, da una parentesi di riflessione individuale.

    Il vissuto della pandemia è emerso nella sua ambivalenza: da un lato si è beneficiato di una sospensione dei tempi di produzione e di consumo, in cui molt* hanno riscoperto loro stessi, saperi, inclinazioni, riflessioni etc…, dall’altro, vi è stato il dolore generato dalla violenza di una radicale atomizzazione sociale, vi è stato il portato psico-fisico di ciò che per molt* è stato un periodo di solitudine estrema.

    Un ragazzo di Chieri ci ha raccontato di quello che per lui è stata la pandemia:

    «un momento bellissimo perché sono potuto stare per i cazzi miei, ho fatto tante esperienze, ho avuto tante opportunità lavorative, di studio, di conoscere altre persone proprio per via del Covid».

    Gli altri ragazzi e le altre ragazze del suo gruppo sono in parte d’accordo, ma qualcun* ammette:

    «averla sofferta un po’, non riuscivo a stare in mezzo alla gente all’inizio, c’è stato un periodo in cui non volevo uscire. Non riuscivo ad uscire di casa tipo, oppure se uscivo dovevo avere la mia auto personale e tornare al volo».

    L’esperienza di un ragazzo di Novara diventa pretesto per un commento sulla situazione generale:

    «A me è mancato tantissimo andare alle feste, a partire dai rave, fino alla partita, passando dai concerti o anche solo dal trovarsi al bar in 10 persone a fare una chiacchiera. Poi certo è passato, ma mi è pesato tantissimo. Per il resto non si stava a casa, fortunatamente sono in una zona che è vicina ad un bosco, quindi riuscivo a sgattaiolare e andavo a pescare, facevo le mie cose però a livello sociale è pesato tanto secondo me. […] Oltre ai lavoratori è stato colpito in particolare un settore secondo me durante la pandemia che è quello dei giovani».

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    Interessante è anche il punto di vista di una studentessa dell’Istituto d’Arte, che tematizza la questione del blocco, della sospensione della vita sociale, adottando un altro sguardo:

    «Io studio arte e tutta l’ispirazione la prendi dal resto della socialità, il parlare con le persone, il vedere le cose, l’uscire, anche lo stare da solo con te stesso non costretto nel tuo ambiente cioè, è quello che ti dà le idee. La creatività per creare qualcosa. Io ho fatto tutta l’università in casa e nessuno ha prodotto nulla di incredibile perché non hai modo di guardare l’esterno cioè di entrare in contatto con le idee di qualcun altro e prenderne spunto. C’è stato un blocco creativo. Non riuscivo a prendere ispirazione da niente non c’era niente che potevi guardare se non al il computer che comunque non è la stessa cosa. Non potevi parlare dal vivo con le persone. Era proprio un blocco creativo incredibile di tutti, cioè durante la pandemia sono stati fatti progetti solo sulla pandemia e basta. Attualmente la metà delle lauree che sto vedendo sono sul Covid. Il che è sintomatico».

    Ci sono poi le esperienze, apparentemente paradossali, di chi ha fatto la scelta di partire per l’estero quando la pandemia era agli inizi. Attraverso le parole di una ragazza:

    «Io sono scappata il giorno dopo Codogno perché pensavo che avrebbero bloccato e ho detto “col cavolo che mi faccio bloccare a Novara”. Quindi sono andata in Belgio e ho notato la completa differenza con qui sulla gestione della pandemia. In Belgio dicevano di stare all’aperto, camminare, di non fare assembramenti, ma neanche di chiudersi completamente in casa. Sì, erano chiusi ristoranti e bar, ma la socialità non era così reclusa, potevi incontrarti in casa con gli amici se non c’era tanta gente, era accettato che avessi un amico di letto. Qui il tema della sessualità, anche durante la pandemia è in pratica un argomento tabù. Poi quando sono rientrata invece ho sofferto tanto il secondo lockdown dove potevi solo lavorare e stare a casa».

    Viceversa un ragazzo valsusino, di Chiusa San Michele, ci ha spiegato che per lui la pandemia è stata un momento per fare delle scelte di vita differenti:

    «Quest’anno e mezzo mi ha fatto capire un po’ di cose, forse venivo da un’esperienza un po’… non voglio dire di fuga,  ma ero alla costante ricerca di un nuovo posto dove andare a fare delle cose, dei progetti etc… Quest’anno e mezzo mi ha un po’ aiutato a dire: cioè bello viaggiare, magari lo rifarò, ma mi ha fatto ri-apprezzare la valle, Torino etc… E quindi adesso sono un po’ più sedentario, magari sono invecchiato nel frattempo».

    La percezione di quanto succede non è solo ristretta alla propria esistenza individuale. In alcune discussioni si è intravista una riflessione di più ampio respiro:

    «Sai cosa sai cosa mi piace di sto covid? La cosa che mi piace è che ciò che ha dato a tutti un elemento in comune e questo secondo me mancava. Gli altri hanno avuto la guerra e noi niente, c’è qualcosa di generazionale. Ce l’abbiamo tutti in comune, ce l’abbiamo tutti questo e non ce l’avevamo prima perlomeno non così forte».

    E’ interessante notare l’intensità e la complessità dei sentimenti e delle riflessioni che la pandemia ha generato, soprattutto nei e nelle ragazze, i/le quali ci hanno fatto sorgere, attraverso le loro parole, almeno due impressioni. La prima ha a che fare con un senso di comunanza dato da questa esperienza, che si traduce in assonanze emotive, sintonia nelle aspettative, messa in discussione dei meccanismi che regolano la base delle nostre vite. La seconda riguarda una consapevolezza delle differenze che i luoghi di vita, le possibilità di spostamento, la garanzia di un reddito e l’accesso al sapere, determinano nel vissuto sociale della pandemia; mostrando fino a che punto le vite individuali manifestino limiti e opportunità strutturalmente determinate.

    Una tale rottura degli automatismi della propria esistenza sembra avere messo in discussione le certezze insite nella tradizionale narrazione rivolta ai e alle più giovani, come quelle riguardanti la realizzazione e valorizzazione della propria persona attraverso un percorso di formazione tradizionale, esperienze all’estero, partecipazione ad iniziative culturali e di auto-imprenditorializzazione.

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    I bisogni si materializzano dentro lo spazio del Festival nelle forme di una valorizzazione delle relazioni, dell’affettività, dello scambio di conoscenze. Tantissim* cercano di capire di più sul movimento No Tav, di comprendere meglio cosa stia succedendo in quella piccola valle alpina. Ben oltre il Festival e la musica, emerge la ricerca un punto di vista sul presente e sul futuro, che non sia già dato e assimilabile, quanto piuttosto frutto di un’intelligenza collettiva. Dei primi esperimenti si intravedono ad esempio nelle motivazioni che spingono due giovani valligiani in giro per il mondo a tornare, ponendo la propria esperienza in dialogo col movimento:

    «La pandemia l’ho vissuta Gerusalemme […]. Lì la vita mi piaceva, mi piaceva anche il lavoro però sentivo di non poter più crescere nel lavoro che stavo facendo e un po’ passando del tempo lontano dall’Italia alla fine ti accorgi che ci sono aspetti che ti possono mancare di questo paese all’estero. Soprattutto anche della valle, nel senso, anche conoscendo altri italiani all’estero, mi sono resa conto che veniamo da un posto in realtà molto attivo politicamente culturalmente che ha delle cose da offrire anche essendo una piccola piccola valle e il movimento No Tav è stato anche questo secondo me.  È stata la spinta che ci ha forse permesso di aver voglia di andare fuori, in realtà, cioè oltre gli orizzonti di questa valle piccola. Però allo stesso tempo ci fa invece anche venire voglia di tornare qui tutte le volte. C’è un forte senso di appartenenza. […] La presenza di un movimento come questo qua ci aiuta a sentirci più a casa perché è come se portasse un po’ un respiro di mondo in provincia. Una cosa che in altre province non c’è, quindi forse abbiamo capito col tempo quanto siamo stati fortunati a crescere qua. […] Veniamo da famiglie che ci hanno portato a Venaus quando facevamo le scuole medie e ci portavano ai cortei e ai presidi. Però non ci interrogavamo tanto su quanto stava accadendo. Ci portavano qui, ci divertivamo un sacco andavamo a giocare, c’era una dimensione ancora molto familiare ai tempi, cioè d’inverno andavamo per dire al presidio a fare palle di neve. Poi siamo cresciuti in quel clima lì e solo crescendo e poi confrontandosi col fuori ci siamo resi conto che abbiamo vissuto qualcosa di importante che ci siamo approcciati per la prima volta alla politica in un certo modo. Poi ho fatto tante altre cose, anche con delle scelte di vita o anche scelte politiche, cioè tutto il resto. Tutto è venuto dopo, sai magari l’attenzione ad altri aspetti, non so, ad esempio alle questioni di genere. Però penso che possiamo dirlo che tutto è partito dal movimento che è nato ovviamente come una roba settoriale però poi col tempo ha saputo abbracciare tante altre cause».

    Un movimento che si fa ricchezza, possibilità di vita altra, sguardo diverso sul mondo, e che si mette virtualmente in dialettica con la pandemia e la più generale crisi ambientale che stiamo vivendo, esprimendo un’alternativa concreta che diventa forza attrattiva. Così lo definisce un ragazzo:

    «[…] un’idea che comunque aggrega le persone a questo punto, cioè una giornata del genere, minchia, e soprattutto.. è una figata lo stare insieme comune. Per me parlo per me io non sono di questa terra, quindi che ci sia la Tav non ci sia la Tav frega un po’ cazzi, però è da apprezzare tantissimo che ci siano delle persone così tanto legate al loro territorio che ci credono così tanto».

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    Nei dialoghi avuti con i/le partecipanti al Festival, è emerso spesso il tema della lotta come possibilità di valorizzazione delle capacità individuali e collettive all’interno di una cooperazione differente da quella capitalistica che ha come unico scopo il profitto. Anche rispetto ai limiti in cui la proposta di lotta può incorrere sono emerse diverse considerazioni:

    «[…] noi di sinistra tendiamo a volte essere troppo aulici e questo allontana. Non è che il montanaro è ignorante, ma ha altri tipi di sapere, magari è ignorante su un tema come io ignoro la meccanica del pascolo. Ci sono dei saperi che magari  prima era normale  che tu avevi e oggi non è detto che sia così. Se vuoi proporre modelli diversi, i saperi concreti li devi recuperare».

    La rottura delle certezze che appartenevano alla “normalità” delle nostre precedenti vite lascia spazio ad una ricerca di collocazione, saperi, possibilità, relazioni, identità. Quali vie sono adatte alla conquista di una nuova vicinanza, una prossimità, un’unità in questo mondo iper-frammentato? Anche a partire dal micro, si intravede la visione di una socialità rinnovata, in continua, sfidante, tensione tra la ripresa sfrenata del consumo e la volontà di stare insieme.

    Il Weekend del Festival di quest’anno si è configurato come un campo di possibilità da cui partire per esplorare per provare a collettivizzare l’esperienza pandemica, ma è anche un ambito di indagine e di azione «comodo», nel quale è facile incontrare persone che condividono completamente o parzialmente il nostro punto di vista, con le quali abbiamo già diverse cose e esperienze in comune. Pertanto abbiamo bisogno di riproporre queste domande in quei luoghi del sociale dove la pandemia ha lasciato ferite senza risposte.

    Ciononostante, da questo piccolo angolo prospettico ad Alta Felicità abbiamo raccolto una grande quantità di questioni e assistito ad una voglia di confronto e conoscenza, a cui, ad oggi, il sistema di sviluppo in cui viviamo non sa e non vuole dare risposta.

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  • Parte terza
  •  

    Probabilmente quasi nessuno, prima di questa esperienza pandemica, ha considerato il valore del potersi dare un abbraccio ascoltando un concerto; eppure l’emozione di rivivere un esperienza così banale è emersa in tante delle interviste fatte durante il week end ad Alta Felicità. Potremmo leggere questa tensione come un rimettere al centro il tema di che cosa sono realmente i bisogni naturali.

    È stato, ed è tuttora evidente, che ciò che l’apparato istituzionale considera «il necessario» manifesta un’incongruenza tra le priorità tra chi si pone come obiettivo il profitto e chi aspira ad una vita che non si riduca alla sopravvivenza. 

    Assumersi come istanza anche quella del diritto alla socialità e all’affettività diviene quanto mai necessario nel momento in cui queste diventano bisogni tangibili e urgenti. Il week-end ad Alta Felicità è stata per molti e molte giovani una boccata d’aria. In diverse interviste è emerso con forza il discorso sulla tutela della salute e della tranquillità di vivere un momento come quello del Festival in modo sicuro per chiunque; potendosi godere una parentesi di leggerezza senza il carico di responsabilità di divenire un pericolo per la collettività. Potremmo leggere questi contributi da più prospettive: tutte andrebbero a distruggere il retorico e sterile dibattito creatosi sul modo di affrontare la pandemia da parte dei giovani.

    Il fatto di assumere i tamponi o i vaccini come strumenti di autotutela, a portata di tutt*, e non come imposizione, cambia il livello di responsabilità di cui ci si sente investiti. È il primo passo per sentirsi parte integrante di un processo di cura e tutela dal basso che parte dalla responsabilità individuale, per arrivare alla creazione di un discorso più generale, sul significato che hanno, per noi che condividiamo uno spazio situato, la salute e la cura.

    E’ stato suggestivo vedere come i/le giovani intervistat* fossero piacevolmente stupiti della campagna d’informazione NoTav, delle norme sanitarie e del senso che si stava scegliendo di dare a quel momento. C’è stato chi – riferendosi al materiale informativo che spiegava le misure precauzionali prese per il Festival e il contesto in cui si sarebbe svolto – ha commentato:

    «Poi io ho letto solo alla navetta ci hanno dato questo foglietto dove spiegavano un po’ il tutto e, non so, mi ha messo molto molta leggerezza questa cosa».

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    Poche parole che ci restituiscono la misura dell’invisibilizzazione e del silenziamento perpetrato nei confronti dei e delle giovani nel corso di questi due anni di pandemia, i/le quali sono stat* disabituat* a qualsiasi tipo di coinvolgimento alla vita comunitaria, ma pesantemente colpevolizzati ovunque ve ne fosse il pretesto.

    Attraversare un’esperienza come quella del Festival, dopo questi due anni, è stato vedere tradotto nella pratica ciò che il movimento NoTav afferma da trent’anni: che un’alternativa a questo sistema marcio c’è e possiamo raggiungerla e consolidarla solamente attraverso la lotta. Il week-end ad Alta Felicità ha visto giorni molto intensi, che ciascuno avrà vissuto nei modi più disparati: chi attendendo con frenesia l’arrivo di tale artista o chi fremendo per partire nella marcia contro lo sterile fortino protetto – manco troppo bene – da diecimila agenti. Le migliori aspettative si realizzano in primis aprendo spazi di attraversabilità per chiunque voglia sentirsi parte di questa Valle, per chiunque ricerchi un’alternativa vivente e conflittuale al ricatto della sopravvivenza che si consuma ogni giorno nelle nostre società. 

    La costruzione di questa alternativa non può che basarsi sulle soggettività che attraversano la lotta e a partire dalla costruzione collettiva di contro-saperi:

    «[…] se vuoi proporre modelli diversi cioè i saperi concreti, li devi recuperare […] oggi la sinistra, parlo di quella istituzionale, è una contraddizione perchè non mette in discussione il capitalismo, ci si muove dentro e questo secondo me crea una contraddizione alla base, per cui c’è gente che invece è di movimento, quindi che non è istituzionale, e che non ci si ritrova» (estratto di intervista a una ragazza di Novara).

    La strada è sicuramente ancora assai lunga, ma l’unica possibilità che abbiamo è quella di fare dei tentativi che si pongano come obiettivo una riappropriazione, e il Weekend ad Alta Felicità in qualche modo ha rappresentato anche questo.

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    [1] https://www.infoaut.org/approfondimenti/di-emergenze-e-nuove-possibilita-da-esplorare

     

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