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Rifugiati, migranti, occupanti: ma di cosa si parla quando si dice Lotta per la casa?

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Dopo lo sgombero dell’immobile di via Curtatone e la resistenza di piazza Indipendenza i giornali, alla vigilia della partecipatissima manifestazione di sabato pomeriggio a Roma – oltre diecimila persone in piazza contro il governo di polizia dei conflitti sul diritto all’abitare – titolavano “basta sgomberi”. Un bluff? Una parziale marcia indietro? Un diversivo?

Tutte queste cose assieme, probabilmente. Certamente una mossa politica per recuperare il possibile sviluppo ed estensione ad altre situazioni di “emergenza casa” dell’esempio della resistenza dei rifugiati di piazza Indipendenza. La capacità di mostrare una forza che si oppone agli sgomberi ha momentaneamente destabilizzato la strategia di “cleaning” voluta dal governo, portando alla ribalta un problema sociale dove le proporzioni di massa della condizione proletaria del non poter pagare individualmente affitti, mutui o canoni d’alloggio diventa opzione di lotta collettiva del non voler più pagare il costo della propria sopravvivenza alla rendita immobiliare speculativa.

Dopo il corteo di sabato dunque la prefettura romana ha preso tempo, pretendendo di rinviare a settembre la risoluzione dell’emergenza imposta con la lotta. Un tempo utile per passare dal “basta sgomberi” di sabato mattina alle nuove modalità di ingaggio del nuovo piano sgomberi: un censimento degli immobili da “liberare”, l’individuazione delle soluzioni alternative per gli occupanti alloggiati, la requisizione degli immobili confiscati alla mafia per destinarli all’emergenza casa – che rappresenta peraltro una storica rivendicazione dei movimenti per l’abitare – il coinvolgimento degli amministratori locali e lo scaricamento delle scelte sui sindaci nei piani di sgombero. Insomma, Minniti, con la riunione al Viminale di lunedì mattina, sembra passare dalla strategia hard di piazza Indipendenza a una strategia soft nella gestione dell’emergenza casa. L’eventualità del conflitto, la resistenza di piazza Indipendenza e di Cinecittà prima in questa calda estate romana, è una variabile da addomesticare perché non intacchi gli interessi della rendita e le politiche di decoro, sviluppo urbanistico e nuova accumulazione. Intanto da ieri a Madonna di Loreto è stato inaugurato un presidio di lotta.

Un tempo utile anche a ricodificare un discorso dominante contro i protagonisti delle lotte per restituirle al ruolo di vittime o di capri espiatori di contraddizioni che potenzialmente polarizzerebbero la società puntando in alto. Una riorganizzazione politica complessiva che, non potendo più rinviare il problema, non rimosso neanche dal Piano Casa, si assume l’onere dell’attacco, lo calibra, costruisce i soggetti deboli, li riporta a strategie di integrazione a politiche di riproduzione sistemica senza comunque rinunciare a imporre violenza e sofferenza, ma curandosi, magari, di farlo senza clamore, senza il rumore degli idranti. Il trend topic dell’estate, l’emergenza migranti con la criminalizzazione delle ONG, è scivolato sull’emerganza casa sovrapponendosi a questa, criminalizzando i movimenti e cancellando i soggetti in lotta, variabilmente rappresentati o come minaccia al principio della legalità, ovvero, nella percezione proletaria, come la minoranza privilegiata dei furbi che si organizza contro chi ancora paga e combatte per stare dentro il mercato. Così, dopo piazza Indipendenza, tutti gli occupanti sono diventati rifugiati da assistere, gli approfittatori pronti a ricevere altri pocket money, tutti i soggetti in lotta sul terreno dell’abitare sono diventati occupanti illegittimi, le ombre che si muovono nel torbido ambiente del racket delle occupazioni. Il tentativo è quello di ricondurre tutto al già noto che vorrebbe in Italia ci fosse un problema di profughi, non di casa. Ma di cosa parliamo quando diciamo lotta per la casa?

Chi in piazza Indipendenza si è opposto allo sgombero del palazzo di via Curtatone non è sbarcato ieri con i barconi. Sono uomini e donne che dal 2013 vivevano in quello stabile, vuoto da tempo. Sono rifugiati politici, capaci, collettivamente, di affrontare difficoltà di ordine economico e burocratico pur di cercare una vita migliore. Sanno cosa vogliono e dimostrano di essere disposti a lottare per averlo. Vogliono un risarcimento da questo sistema predatorio, un risarcimento per la rapina delle loro terre. Sono un esempio, e sono un esempio riproducibile, seducente per chi guarda, per chi ugualmente si è sentito privato di tutto, colonizzato dai governanti di turno in casa propria. Questo esempio andava occultato, trasfigurandolo nel calderone della semplificazione giornalistica. Sono quindi diventati soggetti deboli, soggetti destinatari di aiuto da parte di uno Stato che fa figli e figliastri, che toglie a chi merita per dare ai nuovi arrivati. Se gli ex occupanti del palazzo di via Curtatone hanno un qualche rapporto con questo mondo dell’accoglienza ai migranti ce l’hanno nell’averlo sabotato occupando uno stabile di Idea Fimit che investe nella costruzione di nuovi Sprar.

Veniamo dunque a un secondo aspetto: l’emergenza è sempre un business. Il sistema dell’accoglienza dei richiedenti asilo, come quello dell’accoglienza dei soggetti in emergenza abitativa riarticola un mercato, distribuisce risorse, mette a lavoro. Ma di fatto, la categoria da padroni coloniali di migrante richiedente asilo, come quella di soggetto in emergenza abitativa, interpreta le storie di ciascuno, le ambizioni, gli obiettivi solo come utenza di un sistema di assistenza. È questa la stessa ragione per cui il disprezzo e il risentimento razzista accomunano una trasversalità in questo paese. Da una parte c’è il decoroso rancore piccolo-borghese, dall’altra una componente proletaria che sa di essere in competizione per le poche risorse disponibili, sfrondate negli anni a colpi di spending review, che riflette un sentimento di invidia perché non riesce a percepirsi con possibilità proprie, come una forza in grado di imporre degli obbiettivi, di ribaltare le condizioni imposte. Eppure questo intreccio di condizioni, bisogni, aspettative è una polveriera, basta avere qualche dato tra le mani, come quello delle liste di attesa per le assegnazione di casa popolare: 10.500 persone solo nella città di Roma. Che si tratta di una polveriera sociale lo sanno bene dalle parti del Viminale, lo sa bene la Stampa che si affretta a rimasticare tutto: si può pure sacrificare dott. Jekyll l’accarezzatore scoprendolo il Mr. Hyde della Diaz, ma l’importante e che nel mezzo di queste contraddizioni, ci sia la debolezza di meschini approfittatori o di vittime da assistere e compiangere, non l’esempio di chi ha voglia di vendicarsi.

 

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