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Viva l’ingovernabilità: una nota leggera

Innanzitutto, quindi, vogliamo dare una tonalità emotiva ai risultati elettorali: evviva! Perché del resto dovremmo condividere un senso di sconfitta con chi è stato alternativamente un nostro avversario o un nostro nemico? Diciamolo in modo secco: da questo voto per loro devastante escono sconfitti l’agenda dell’austerity temporaneamente targata Monti e chi più si era presentato come il suo continuatore, il Partito Democratico e la sua appendicina di sinistra, Sel. Se poi guardiamo più da vicino le grottesche disfatte di Vendola e Ingroia (a proposito: dove sono finiti i fabbrichisti di Nichi e gli arancioni anti-corruzione e filo-costituzione?), dovremmo attenderci le dimissioni della magistratura e magari di una parte consistente del ceto politico di movimento. Aggiungiamo che, tra i molti sconfitti, vi è il sistema dei media, da Santoro al Partito di Repubblica. A quando una critica radicale di stampa e televisione agito autonomamente dai movimenti? Ecco un punto di programma per noi tutti.

Questo risultato di ingovernabilità è stato, in secondo luogo, determinato dall’astensionismo e soprattutto dal M5s. Ci piaccia o no, questo è un dato di fatto. E poi, perché viene condannato un uso giustamente pragmatico del voto da parte delle lotte (vedi il No Tav) o addirittura per nominare le ambivalenze del M5s sono necessarie mille precauzioni che eliminino il dubbio di un endorsement in suo favore, di fronte a chi per dieci anni ha tentato – peraltro in modo fallimentare – di allearsi con questa sinistra disgraziata e avversa ai movimenti? Oggi tutti costoro stanno piangendo sulla sconfitta, la cui colpa non è loro bensì dell’ostinazione dei movimenti a non farsi rappresentare e dei fanatici della rivolta (do you remember 15 ottobre?). Lasciamoli soli nel rancore della disperazione.

Spingiamoci oltre: perfino in una parte del voto a Berlusconi vi è probabilmente, in modo strambo e paradossale, un pezzo del rifiuto dell’agenda dell’austerity. Dobbiamo spendere pagine e pagine a spiegare che è malriposto, che è pura mistificazione, che è l’ennesimo imbroglio? Ve lo risparmiamo: dobbiamo farci i conti nella materialità delle dinamiche sociali, non sul piano della falsa coscienza.

Infine, non ci piace gongolarci nelle profezie, peraltro facili. Ci conforta invece avere individuato delle linee di tendenza che oggi si dispiegano: si veda l’ultimo editoriale, Dentro l’ingovernabilità, verso la rottura, e altri testi ancora prima (ad esempio Geopolitica delle lotte). Non ripetiamo dunque quanto già scritto, perché lo riteniamo ancora più vero oggi. In quel quarto degli elettori che hanno portato il M5s a essere il primo partito in Italia ci sono – in mezzo a tante altre cose – i voti contro il Tav e le basi militari americane, si parla anche di reddito o di beni comuni. Lo si fa in tutt’altro modo rispetto a noi: ma dobbiamo davvero ripeterlo ogni volta, oppure dobbiamo per una volta guardare al fatto che tutto ciò avviene su larga scala e, a partire da qui, posizionarci nel campo di battaglia che si apre? Domanda retorica, anche perché è solo qui che le ambiguità del grillismo possono essere forzate, rovesciate e giocate in avanti. Oppure ci si consegna alle dietrologie sui poteri forti e su Casaleggio, o alle litanie un po’ supponenti ed elitarie dell’anti-berlusconismo, secondo cui gli “italiani” sono per loro natura stupidi e asserviti. Elogio di una rivendicata passività e, spesso, di una superbia auto-giustificatrice di un ceto intellettuale che disprezza la stupidità plebea.

Chi diceva che il M5s avrebbe pescato a destra e in una composizione differente, ha preso una cantonata. Non perché non ci sia anche questo, ovviamente: lì dentro c’è davvero un po’ di tutto, ma perché è altra la composizione trainante. Si tratta, in una componente qualitativamente centrale, di quelli che abbiamo definito i precari di prima generazione, perlopiù figure altamente scolarizzate che non trovano una corrispondenza tra titolo di studio e posizione occupata nel mercato del lavoro, pezzi di proletariato e disoccupazione. Ora questa composizione si sta allungando, un ceto medio ormai compiutamente declassato si incrocia con chi tenta disperatamente di difendersi dai processi di proletarizzazione, e pure con un ceto medio ancora al riparo dalle forme più cruente della crisi. C’è poi, ripetiamo, dell’altro: ci sono imprenditori alla ricerca di riscossa e migliori condizioni per sfruttare i migranti, ci sono i delusi delle promesse della destra e gli orfani della Lega. Ma in buona parte questa composizione esprime separazione o protesta nei confronti della sinistra, contribuendo soddisfatta ad affondarla.

Le modalità di espressione di tale separazione e protesta sono ambigue, confuse e contraddittorie? Non vi è dubbio: conflitto e risentimento, irrappresentabilità e autoritarismo, rete e accentramento di potere, richiesta di reddito e istanze meritocratiche, rifiuto della guerra e retorica delle piccole patrie, beni comuni e Stato, internità ai movimenti e ombre razziste, e chi più ne ha più ne metta. Però la domanda che poniamo è: quando mai una composizione di classe non si esprime anche in forme ambigue, confuse e contraddittorie? L’operaio massa esprimeva talora il suo rifiuto delle forme tradizionali di rappresentanza sindacale votando per i sindacati gialli o non partecipando a scioperi che riteneva inutili, tra gli strali della sinistra e del partito. Da lì a qualche anno sappiamo come sarebbero andate le cose. Non stiamo azzardando nessun parallelismo storico, per carità, il punto che ci preme è un altro: a questo livello la questione interpella noi, a meno che non ci si voglia rinchiudere in un brechtiano invito a eleggere una composizione di classe a noi più gradita.

Questo peculiare processo destituente risolve i nostri tanti problemi? Assolutamente no, ma certo aiuta a porli su un piano corretto. Per noi la partita a questo punto si dà su almeno due assi fondamentali. Da un lato la capacità di situarci su un piano immediatamente europeo, perché è solo qui che la composizione di classe può sconfiggere il rinculo nazionalista e aprirsi a un processo costituente. Dall’altro, la scommessa va colta nella ricomposizione delle forme di espressione dei precari di prima e di seconda generazione, le cui istanze probabilmente non le troviamo molto nelle urne quanto soprattutto nell’astensione. Su questi due piani segnati dalle lotte le ambivalenze possono essere sciolte, la composizione farsi comune, e l’ingovernabilità divenire rottura.

Gigi Roggero per UniNomade

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