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Note sulle elezioni

Pubblichiamo questo interessante contributo di Salvatore Cominu. Crediamo che il testo abbia il merito di evidenziare alcuni dei nodi più importanti sui quali concentrarsi, dal punto di vista dei movimenti. Ci limitiamo ad elencarne quattro: il voto come sostanziale plebiscito anti-austerity; il “parallelismo” fra tsunami tour e movimento delle acampadas; la composizione interna del movimento; il rapporto fra lotte e M5S. Nell’evitare critiche superficiali, velleitarie, e settarie, in questo brano viene posta la questione del potere sollevata dai grillini come perno attorno al quale vanno analizzati in maniera critica le insufficienze dei movimenti antagonisti e l’effetto “colma-vuoto” del 5 Stelle. Unico elemento critico che ci sentiamo di evidenziare è la valutazione sulla Lega Nord: riteniamo infatti che sia affrettato parlare di “disfatta” leghista. Come minimo questa valutazione andrebbe assunta con estrema cautela e problematizzata. Di fatto il partito leghista ha raggiunto l’obiettivo prefissosi nel pre-elezioni (la presidenza lombarda) e ha dimostrato una sorprendente capacità nel reinventarsi dopo gli scandali interni. Oltretutto va rilevato come sia l’unico soggetto partitico in grado di utilizzare un’immaginazione geografica e istituzionale entro i processi globali non ancorata all’idea vetusta del ritorno allo Stato-Nazione o degli Stati Uniti d’Europa.

Il dato più importante delle elezioni di domenica scorsa è ormai acquisito da molti editorialisti al servizio dei grandi gruppi editoriali; non è più in discussione il fatto che “il paese ha votato contro i tagli e i sacrifici”, “contro l’austerity”, contro “l’agenda Monti”. Questi analisti sono gli stessi che fino a ieri stigmatizzavano il “populismo” e la “demagogia” di quanti non ne potevano più. E che oggi si preparano a rieditare la retorica terroristica sul debito pubblico, sul responso dei mercati, sullo spread. Oggi sono disorientati, tentano di ammansire la bestia che li ha presi a calci nel di dietro, ma credo ci siano pochi dubbi su una prossima riedizione del “fate presto!” confindustriale che aprì la strada a Monti. La scena però è cambiata.

1. Nonostante l’imbarazzo nell’usare il medesimo stile dei tanti che “lo avevano previsto”, è giusto rimarcare che era facile preconizzare – numero più numero meno – questo scenario di ingovernabilità. Lo abbiamo fatto, non con il distacco di chi osserva i processi da fuori ma con la partigianeria di chi sta da una parte: la sconfitta del progetto Monti-Bersani è comunque una vittoria, senza se e senza ma. Era un progetto basato sulla continuità delle politiche di ristrutturazione autoritaria e neoliberale dei conti pubblici, con quanto ciò significa in termini di allocazione dei redditi, attacco alle condizioni di vita di poveri, operai, precari e (parte dei) ceti medi, tagli al welfare. Più continuista per l’uno, con correttivi sociali per l’altro, ma una quadratura del cerchio l’avrebbero trovata sul campo. Sono loro i veri sconfitti. Sono d’accordo poi con chi dice che è poco interessante analizzare le vicende di Sel e Rivoluzione Civile. Diciamo che un certo modo “nichilista” – nel senso di fautore del nulla – di concepire la politica è andato oltre il capolinea, direttamente allo sfasciacarrozze. Questa è l’altra buona notizia e sono convinto che se ne accorgeranno in tanti, anche tra i loro elettori. Nonostante cantino vittoria, PDL e Lega sono nel campo degli sconfitti. La Lega è diventato un partitino anche nelle sue roccaforti, Berlusconi ha confermato di essere forse l’unico politico di razza della Seconda Repubblica, ma ha perso metà degli elettori. E se ha limitato i danni, come è stato osservato, è perché ha intercettato anche lui un sentimento antiausterity, attaccando la Germania e spedendo migliaia di pensionati agli uffici postali a richiedere indietro l’Imu, con la sua lettera in mano.

2. Veniamo a ciò che ci interessa più da vicino. Non credo che sia il caso di precisare ogni due minuti che non siamo grillini o ribadire ad ogni scritto le contraddizioni del M5S. Per questo basta leggere l’ultimo editoriale sul sito. Il successo elettorale del M5S è cresciuto nel corso dello tsunami tour, che ha progressivamente assunto la forma di una mobilitazione che, per grado di partecipazione e coinvolgimento, è la cosa più simile alle acampadas – senza le acampadas – avvenuta in Italia. Grillo, come il Chaplin di Tempi Moderni, ha raccolto da terra una bandiera abbandonata e si è trovato alla testa di una mobilitazione di cui è più ripetitore o amplificatore che demiurgo. Questo non significa sottovalutare la progressiva strutturazione organizzativa – che deve molto alle logiche partecipative e orizzontali e insieme centralistiche proprie della rete, ma anche dell’impresa postfordista – né gli elementi di proposta presenti negli slogan e nel programma del M5S. Ci andrei cauto prima di affermare che i contenuti del loro discorso sono irrilevanti. In merito a questo, è da osservare che a qualificare le loro proposte, delle quali alcune non così diverse dal programma di Rivoluzione Civile e finanche di Sel, è stata la credibilità – derivante dalla radicale diversità percepita rispetto al ceto politico. Per fare cose nuove, questo avranno pensato in molti, servono persone nuove e meno intrallazzate. Que se vayan todos non è valido solo quando sia declinato in spagnolo. Per dirla altrimenti, dentro questo voto si pone, magari in modo confuso, anche il problema del potere, come alcuni compagni (cito espressamente Raf) hanno sottolineato.

3. Mi sembra importante sottolineare la molteplicità di queste piazze. La spiegazione del grillismo solo in termini di rancore del ceto medio è insoddisfacente, se non entriamo dentro la composizione “politica” di questo ceto medio; il M5S ha infatti raccolto il consenso di diverse e storicamente divise (per interessi materiali e cultura) classi medie, ma anche quello (direi non ricercato) di ampi settori operai, se guardiamo al voto di alcuni grandi comuni periurbani industriali e ad alcuni luoghi emblematici (Taranto, Sulcis, ecc.). In questo voto c’è di tutto ma nei suoi show Grillo ha parlato soprattutto a due diverse e riconoscibili composizioni sociali: i ceti medi piccolo imprenditoriali già base sociale della Lega (ma non solo), e i ceti medi urbani tradizionalmente “progressisti”, descrivibili come ceti impiegatizi, ma anche knowledge workers precari e sottoccupati, ecc. Le piazze esprimevano questa duplicità. Mi riferisco a quella che ho visto (Torino). La base più attivista e partecipante (e più vicina, tagliando con l’accetta, al cognitariato), un boato ad ogni passaggio del comizio-show (a partire da quelli sul reddito di cittadinanza), il resto una composizione meno “politica”, che esplode letteralmente quando Grillo a) attacca i partiti b) attacca i sindacati c) attacca Equitalia e la burocrazia pubblica d) attacca le banche, mentre resta tiepida sui passaggi “più di sinistra” (reddito, rifiuto della guerra, ecc.).

4. Preso atto di questa molteplicità, lo zoccolo duro grillino, quello degli eletti e degli attivisti, è molto prossimo a quello che abbiamo chiamato precariato di “prima generazione”, o se vogliamo andare più indietro, cognitariato, di cui abbiamo già squadernato ripetutamente ambivalenze e lati “oscuri” (giustizialismo, meritocrazia, ecc.), senza dimenticarci per questo di quelli più “luminosi”. Sul piano dei flussi elettorali, il M5S ha preso voti a tutti, ma il pieno lo ha fatto soprattutto tra chi non ne può più di questa sinistra. Anche una ricerca diffusa ieri del Censis diceva, più o meno, le stesse cose.  Per non dire della frettolosa rincorsa dei giornalisti a sciorinare i curriculum dei “debuttanti-precari” (Corriere della Sera) al Parlamento. Chiudendo provvisoriamente il cerchio e ragionando di grana grossa: al crepuscolo della prima Repubblica ad alzarsi in volo era la Lega Nord, come espressione del mondo produttivo medio-padano, piccoli imprenditori e operai divisi dal ruolo ma uniti da valori, passioni, culture. Al crepuscolo della seconda Repubblica, il lavoro cognitivo nelle sue molteplici espressioni, variamente coalizzato con altri gruppi sociali, concentrato nelle fasce dei 30-40enni – generazione politica fino a ieri invisibile. L’analogia si ferma però qui. Mentre i ceti piccolo imprenditoriali avevano la loro bandiera in un gretto localismo e nell’egoismo sociale fondato sulla piccola proprietà (reale o presa a debito), qui siamo di fronte ad ambivalenze proficue (e diverso inoltre è il contesto). E’ inutile ribadire il concetto; la composizione di classe non è (quasi) mai uguale a come la disegniamo o immaginiamo … è sempre spuria, assoggettabile. Però è quella che esiste e che va abitata, oltre che inchiestata. Quando mai non è stato così?

5. Questo significa forse salire sul carro dei vincitori? Anche qui, mi sembra inutile ribadire ciò che è scontato. Il nostro problema non è svelare l’inconsistenza di Beppe Grillo. Il M5S ha creato, su basi d’argilla come tutte le basi non sedimentate da cooperazione, lotta, esperienza, materialità, una qualche “ricomposizione” (uso il termine in senso denotativo) tra “indebitati”, “mediatizzati”, “securizzati” e … “rappresentati”. Li ha ricomposti mantenendoli tali: la loro mobilitazione, nel porre in termini netti la crisi della rappresentanza – e forse la non desiderabilità della rappresentanza – all’estremo dell’ingovernabilità rimane imprigionata entro questi confini (per chiarezza, ciò non significa che Grillo abbia “sviato” lo sviluppo delle lotte, anzi vi sono movimenti che pragmaticamente hanno usato e usano gli spazi aperti dal M5S proprio per estendere e rendere più forti le lotte). Su quel terreno però la rottura è sempre recuperabile. Continuo a pensare che non dovremmo guardare tanto a cosa fanno Grillo e Casaleggio; mi chiedo piuttosto cosa la mobilitazione dei grillini sedimenti, in termini di pratiche sul territorio, di domanda politica, di soggettività. Per ora sono stati i vettori dell’instabilità, e ci va bene così.

6. Il rischio è che le frazioni di lavoro cognitivo “precarizzato” al centro del fenomeno M5S siano fatalmente attratte, nel campo della rappresentanza, da due alleanze sociali. La prima è quella in nuce, con la declinante – ma dotata di basi sociali più solide – composizione piccolo imprenditoriale padana; il rischio qui è di una subalternità all’incattivito localismo antieuropeista e reazionario di parte di questi ceti – senza per questo demonizzare l’intero campo del lavoro autonomo, anzi. Il secondo è un recupero nel campo mainstream, ossia una progressiva cooptazione subalterna nelle presunte istanze modernizzatrici dell’”economia sociale di mercato”, regolata dal merito e dalla libera iniziativa imprenditoriale. Si guardi alla traiettoria di Irene Tinagli, dai creativi e Richard Florida all’austerity e Mario Monti, per esemplificare questo itinerario. La vera ricomposizione sociale (intesa stavolta in senso forte) da costruire è con le altre frazioni di classe, i nuovi e vecchi operai nel ciclo della manifattura, nel terziario non knowledge, nella logistica; con gli esclusi e i non garantiti, con i “precari di nuova generazione” che non rimpiangono le opportunità perse perché mai ne hanno avute e a vent’anni hanno respirato solo crisi. E valorizzare gli aspetti di rottura presenti nel percorso del M5S, dal reddito di cittadinanza (non mi dilungo, anche su questo punto, su affinità e divergenze con il “compagno” Grillo, le diamo per scontate) al rifiuto del saccheggio dei territori, delle spese militari e della guerra. Dove i grillini hanno incontrato veri movimenti e vere lotte (della Val Susa si è detto, ma forse – dico forse perché poco informato – occorre guardare anche a Taranto, alla Sicilia, al Sulcis, ecc.), ne sono divenuti vassalli, altro che catturatori. Però il problema, qui, è solo nostro.

di Salvatore Cominu per UniNomade

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