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Femminicidio: il corpo delle donne e l’emergenza sociale

Lo scorso 8 agosto il governo ha approvato un decreto legge piuttosto composito che tratta anchedi violenza sulle le donne. Il giorno seguente – 9 agosto 2013 – le prime pagine dei quotidiani nazionali annunciavano con entusiasmo l’approvazione di un provvedimento contro il “femminicidio”. Ad oltre un mese di distanza, lo scarto che intercorre tra la complessità e l’eterogeneità dei temi su cui si esprime la legge e la sua riduzione mediatica a un decreto compatto contro la violenza di genere merita di essere interrogato nuovamente (1). Nel frattempo, a partire dal 17 agosto 2013, il decreto è entrato effettivamente in vigore.
La prima ragione per cui approfondire la materia e la forma del decreto-legge 93 risiede nel fatto che in regime di governance biopolitica ogni attività di giuridificazione esplicitamente rivolta a soggettività specifiche e incarnate è, in realtà, portatrice di valenze più generali. In fase di crisi, inoltre, la ristrutturazione degli assemblaggi politico-istituzionali attraverso processi normativi parziali e segmentati tende ad assumere forme e modalità particolarmente accentuate. Questa assunzione primaria – che definisce anzitutto un metodo d’analisi – suggerisce una prima questione. Ovvero: qual’è il senso del decreto sul “femminicidio” nel contesto specifico in cui è stato emanato e con le caratteristiche proprie che lo caratterizzano? Il problema è complesso e non prevede una soluzione unica e definitiva. Tuttavia, la sua formulazione permette di confrontarsi criticamente con un regime discorsivo che, in ultima analisi, sembra impedire la messa a fuoco precisa del fenomeno della violenza di genere. Il discorso pubblico sulla violenza – al contempo istituzionale e mediatico, secondo una dinamica di performatività reciproca tra i livelli – si articola attraverso due strategie retoriche, solo apparentemente contraddittorie. Da un lato si registra la ricorrenza a una retorica emergenziale e, per altro verso, si può osservare il ricorso a una sorta di paradigma della “civilizzazione”.

Problemi a monte
La logica dell’emergenza – che il decreto 93 assume totalmente proponendo un insieme di «disposizioni urgenti»2 – si presenta come un prodotto discorsivo in cui agiscono diversi livelli (istituzionale, mediatico, quotidiano, …) e tende a innescare un circolo paradossale: mentre afferma la diffusione capillare della violenza di genere, infatti, ne rimuove il carattere sistemico, sociale e strutturale. Mentre riconosce una sorta di comunanza di famiglia tra un gruppo di fenomeni tale da poterne pensare un accumulo e procedere alla conta, si mostra incapace di impostare un ragionamento che trascenda l’isolamento di singoli fatti e casi. La morte violenta di centinaia di donne ogni anno per mano maschile, infatti, viene presentata come una sommatoria di casi isolati e irrelati, se non nell’immagine dell’accumulo. L’espressione emblematica e sintomatica di questa logica discorsiva è l’invenzione di un intero campo semantico popolato da espressioni diffuse quali: “delitto passionale”, “delitto d’amore”, “rapporto d’amore morboso” e così via. Di queste formule edulcorate e mistificatorie se ne potrebbe stilare un elenco tale da abbozzare una vera e propria fenomenologia della violenza che attraversa le relazioni e i processi di soggettivazione maschili e femminili. Per questo, affrontare la questione della violenza in modo collettivo e politico senza prima mettere sotto inchiesta, problematizzare e criticare le immagini e le parole con le quali la violenza stessa viene tematizzata e portata al discorso appare quantomeno inadeguato. Da questo punto di vista, un intervento importante andrebbe condotto a livello mediatico e comunicativo.

Il discorso sulla violenza di genere – che negli ultimi mesi ha occupato uno spazio di rilievo nell’arena pubblica – si presenta in ampia misura come una narrazione tossica, un racconto che limita il confronto e l’avanzamento critico piuttosto che incoraggiarlo. L’insieme di formule a cui si è fatto riferimento poco sopra, infatti, costituisce una parte consistente del problema e non la descrizione (ancorché imperfetta) del problema. Ad esempio, il ricorso a resoconti spesso pruriginosi e voyeuristici delle violenze banalizza storie di vita e di sofferenza complesse oltre che apparire funzionale ad una gerarchizzazione insopportabile tra donne colpite dalla violenza in modo diverso e in posizioni differenti. Più in generale, l’insieme delle espressioni ricorsive che descrivono la violenza di genere in un contesto ampiamente mediatizzato concorre alla produzione di un immaginario relazionale, sentimentale e soggettivo opaco e vischioso. La favola del conflitto tra passione e ragione; l’immagine grottesca di un desiderio solipsistico o quella, speculare, di un desiderio complementare; l’equivoco tremendo per cui un rapporto nocivo possa essere un rapporto d’amore; la claustrofobia di relazioni assolute e assolutizzanti; la menzogna del/della partner come destino anziché come scelta e così via. Un vero e proprio archivio che performa spinte affettive e comportamenti sociali riproducendo dinamiche consustanziali alla violenza.

Particolarmente emblematica (per fare un esempio tra tanti possibili) la modalità con cui La Repubblica riportava in data 9 settembre due casi di violenza di genere: quello di una giovane avvocatessa italiana aggredita e ustionata quasi mortalmente con l’acido dall’ex fidanzato e quello di una prostituta diciottenne rumena uccisa e gettata in un campo da un cliente. Nel primo caso,Repubblica racconta la storia di una donna straordinaria che, passo dopo passo, riconquista la propria esistenza; nel secondo, invece, della donna non si riferisce nulla se non che era una puttana, morta in un giochetto erotico andato male. L’asimmetria con cui le due vicende vengono affrontate non è né casuale, ma costituisce un vero e proprio dispositivo di soggettivazione fatto agire all’interno del discorso sulla violenza di genere.

In questa prospettiva, appare indicativo anche il modo in cui – nei due casi citati – viene presentato l’aggressore, il cosiddetto “carnefice”. Nel primo, il profilo dell’ex fidanzato (italiano e avvocato) viene tratteggiato sobriamente e in contrapposizione a quello dell’ex compagna aggredita: mentre lei torna alla vita, lui è perduto. In questo modo, l’attribuzione della forza si capovolge producendo un’illusione di redenzione da finale fiabesco. Ma, se appare assolutamente necessario raccontare – addirittura celebrare – percorsi femminili di uscita dalla violenza e restituire anche pubblicamente alle donne l’immagine della loro forza, risulta altrettanto importante non fornire scappatoie psicologistiche o psicoanalitiche all’analisi della violenza di genere (in tal senso, oltre all’esempio tratto da Repubblica, è doveroso segnalare un articolo particolarmente problematico apparso su Il Manifesto il 4 settembre). A questa sorta di “strategia della profondità” che allude a stratificazioni psichiche progressive e quasi imperscrutabili – e che coincide, in ultima analisi, con una posizione metafisica – fa da contraltare una “tecnica dalla banalizzazione” altrettanto problematica. Nel caso a cui si sta facendo riferimento, ad esempio, il profilo dell’uomo che ha ammazzato la giovane prostituta viene tratteggiato seguendo un modulo narrativo quasi grottesco. Il soggetto violento assume, qui, i caratteri grossolani e caricaturali dell’impiegato di provincia che, maldestramente, uccide una donna nel tentativo di realizzare improbabili fantasie erotiche. Snobismo, machismo, voyerismo e puttanofobia lavorano all’interno di rappresentazioni simili, mobilitando un intero immaginario nazional-popolare intrinsecamente misogino.

Il decreto 93 resta impigliato nelle maglie di tante e tali carenze discorsive. Tanto la diagnosi quanto la soluzione proposta restano inscritte entro una logica emergenziale volta a chetare un clima di “allarme sociale” e a innescare “azioni straordinarie” di prevenzione e contrasto. Tutto il decreto si muove nello spazio dello scandalo e dell’eccezionalità muovendo, così, in direzione contraria rispetto al riconoscimento dell’ordinarietà della violenza di genere e alla necessità di normalizzare forme di educazione e socializzazione che la riconoscano e la contrastino. In questo modo si genera una sorta di effetto immateriale che sradica gli episodi di violenza dal contesto in cui si manifestano. Non è un caso, dunque, che la soluzione proposta dal decreto-legge si concentri pressoché unicamente sul rafforzamento di misure punitive individuali. Si colpisce la singolarità delle violenze, senza impostare un ragionamento politico e sociale più vasto ad ampio raggio d’intervento. Di fatto, la violenza di genere viene trattata come qualunque violenza criminale – in perfetta assonanza con lo stile cronachistico attraverso cui viene comunicata e mediatizzata. In tal senso, anche dal punto di vista dei casi singoli, la violenza è presentata nei termini dell’eccezionalità: la dinamica del raptus omicida si presenta come lo schema fisso di una rappresentazione fortemente problematica3.

La logica emergenziale, tuttavia, interseca una seconda linea discorsiva – una sorta di paradigma di civilizzazione gendering – da cui trae profondità ed effettività retorica. Nessuno, infatti, sarebbe così ingenuo da assumere una prospettiva emergenziale pura, secca e trasparente facilmente esposta a obiezioni e critiche. L’emergenza quindi assume un carattere relativo rispetto a un percorso di modernizzazione politica che si vuole lineare e progressivo: arrivati a questo punto non è più possibile non riconoscere la gravità del fenomeno. La politica e la società sono mature per affrontare la “questione di genere”. Questo genere di schematismo argomentativo è un vizio antico che si fonda su una sorta di finzione organicistica secondo cui – a un certo punto e in modo compatto – la società tutta insieme dovrebbe compiere dei processi di maturazione. Da questo punto di vista, la legge sul femminicidio andrebbe accolta in modo aprioristico come una conquista sociale tout court. Tuttavia, la soluzione del problema della violenza di genere difficilmente può conseguire da una sorta sintesi sociale generica e complessiva. Al contrario, sarebbe forse più opportuno segmentare la questione, riconoscere le sue numerose declinazioni all’interno di relazioni concrete e situate, a geometrie e geografie variabili. Quando si dice che il personale è politico, s’intende anche questo: il politico non è un piano sintetico unitario e omogeneo, ma, piuttosto, l’assemblaggio di relazioni incarnate. La violenza, dunque, andrebbe forse riconosciuta e contrastata negli ingranaggi di ogni assemblaggio. L’organizzazione del lavoro, delle relazioni affettive, dei flussi migratori, dell’informazione e della formazione sono alcuni dei piani su cui varrebbe la pena ragionare dismettendo – ancora una volta – la coazione a pensare le relazioni sociali in termini unitari e progressivi.

La legge e le donne
Il decreto-legge 93 sta dentro uno spazio di riflessione e intervento così gravemente opacizzato e non sembra alludere in alcun modo all’apertura di alternative critiche: molto banalmente affila qualche strumento repressivo confidando sull’effetto deterrente della promessa di una pena e, al contempo, tende a oliare dispositivi di gerarchizzazione sociale che operano su livelli più generali. Da questo punto di vista, sono significativi gli articoli del decreto all’interno del quale il significante più generico della “vittima” viene specificato ulteriormente. L’articolo 4, ad esempio, è dedicato alle “donne straniere” vittime di violenza domestica e introduce la concessione di un permesso di soggiorno temporaneo da revocarsi qualora «vengano meno le condizioni che ne hanno giustificato il rilascio». In questo articolo, la problematica della violenza di genere risulta funzionale all’articolazione “genderizzata” di un dispositivo più ampio di controllo dei flussi migratori. La stabilizzazione temporanea, infatti, altro non è che una regolazione ritmata degli accessi al mercato del lavoro globale su scale geografiche differenti. Tant’è che, se il focus materiale dell’articolo di decreto fosse la violenza, apparirebbe del tutto evidente che tra la lo status di “illegalità” e la vulnerabilità delle donne migranti non esiste un nesso occasionale: togliere il permesso di soggiorno quando le condizioni della violenza vengono meno è un atto performativo che reimmette il soggetto in un contesto visceralmente e potenzialmente violento come, ad esempio, il mercato informale del lavoro o la persecuzione poliziesca che, naturalmente, è uno dei principali vettori di violenza contro le soggettività migranti.

Il secondo passaggio in cui il decreto tende a particolareggiare il significante generico della “donna vittima di violenza” è la modifica dell’articolo 609ter relativo alle circostanze aggravanti per gli atti di violenza sessuale. Con l’aggiunta di due comma, il decreto 93 stabilisce l’inasprimento della pena nei casi in cui la donna stuprata sia incinta o nel caso in cui l’aggressore «sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza». Se, da un lato, l’introduzione dei due comma potrebbe generare l’illusione di una presa d’atto del fatto che molto spesso le violenze di genere sono violenze domestiche, d’altro canto, però, viene ribadita l’ambiguità strutturale del rapporto tra la tradizione giuridica e le forme di soggettivazione femminile per cui l’inclusione si dà e si è sempre data in forma differenziale e differenziante. Di fatto, la legge produce e consolida l’idea che la violenza sia più o meno grave quando a subirla siano certe donne piuttosto che altre. La figura femminile di cui lo Stato si fa tutore resta, in ultima analisi, quella della moglie/madre che storicamente segna il divenire cittadina della donna.

In questo quadro la terza premessa esplicita del provvedimento 93 assume una valenza politica importante. Nel decreto, infatti, viene esplicitamente manifestato l’intento di «alimentare il circuito virtuoso tra sicurezza, legalità e sviluppo del tessuto economico-produttivo, nonché di sostenere adeguati livelli di efficienza del comparto sicurezza e difesa». Questo passaggio chiarisce il quadro complessivo entro cui la questione della violenza di genere viene posta: se si presta attenzione alla costruzione stessa del provvedimento, infatti, non è difficile riconoscere la sua funzione mediana rispetto a due parti fortemente eterogenee. La prima parte del decreto tratta della violenza di genere (capo I), mentre la seconda – più ampia – è dedicata sostanzialmente al controllo e al governo del territorio (capo II-IV). A partire dal secondo capo, infatti, il decreto introduce provvedimenti ad hoc il cui senso politico è quello di ribadire e rafforzare la funzione politica dello Stato nazionale in un quadro di ridefinizione complessiva degli assemblaggi politico-istituzionali a livelli scalari complessi e molteplici. Si menziona, ad esempio, il rafforzamento delle misure repressive nel controllo di siti e attività a interesse strategico ed economico con un riferimento – tento implicito quanto ovvio – ai cantieri dell’Alta Velocità e che, tuttavia, assume una valenza più generale a testimonianza del progressivo dotarsi dello Stato di strumenti di repressione volti a garantire gli interessi e la circolazione di capitali globali. Da questo punto di vista, i cantieri fasulli e completamente militarizzati in Val di Susa costituiscono un vero e proprio laboratorio politico che anticipa, con buona probabilità, la gestione futura della conflittualità sociale legata alle forme di valorizzazione capitalistica dei territori urbani e non urbani. Di questi giorni – ad esempio – la notizia dell’intenzione di una candidatura italiana per i Giochi Olimpici.

L’opportunità di leggere il decreto 93 in un contesto di riassetto territoriale e istituzionale interno alle forme di riorganizzazione neoliberale tout court è suggerita anche dall’articolo 6 che prevede un incremento dei poteri della Protezione Civile in vista dello «stato di emergenza umanitaria verificatosi nel territorio nazionale in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del nord d’Africa». Si ribadisce e si rafforza la gestione mista assistenziale-carceraria dei flussi migratori verso l’Europa, al fine di segmentare in modo programmatico la forza lavoro migrante. Ad uno ad uno, gli articoli del decreto mostrano una validità politica ampia a riprova della strategia costantemente adattiva delle forme istituzionali tradizionali.

Quale il senso situato e specifico della «lotta senza quartiere al femminicidio» (secondo la dichiarazione di Enrico Letta riportata da Repubblica il 9 settembre 2013) – ci si chiedeva in apertura. Ebbene, nella misura in cui il contrasto della violenza di genere si presenta come il movente principale per affermare un’assiomatica securitaria, “le donne” vengono simbolicamente mobilitate (a destra come a sinistra) per la ridefinizione dello spazio d’azione delle forme tradizionali di sovranità statuale. Il decreto 93 appare, così, come un’operazione di pinkwashingin cui la “emergenza femminicidio” fornisce una base simbolica e materiale all’affermazione di una cultura securitaria e repressiva. L’operazione non è né inedita né originale, al contrario costituisce una modulazione specifica della strumentalizzazione delle donne nel discorso pubblico e politico: una sorta di presa in ostaggio simbolico del soggetto femminile che viene presentato come il principale alleato dello Stato, dell’uomo bianco, del padrone, etc… Il patto che innesca un “circuito virtuoso” tra sicurezza, legalità e tenuta del tessuto economico-produttivo a cui il decreto 93 fa riferimento come scenario di normalizzazione dell’emergenza sociale, infatti, viene sancito sul corpo delle donne. In questa logica, della violenza di genere ci si occupa poco.


Provare a cambiare il paradigma. Uno spunto d’analisi
In materia di violenza, le donne sono trattate unicamente come l’oggetto e non come il soggetto della questione. La violenza, infatti, viene considerata come un problema di sicurezza e non di privazione della libertà; le donne trattate al pari di un oggetto conteso tra il “carnefice” e lo Stato, i quali si fronteggiano – in ultima istanza – in una prova di forza. Di fronte alla violenza lo Stato mostra i muscoli, ribadisce il proprio monopolio tant’è che in nessun modo viene tematizzata la violenza contro le donne di cui egli stesso è capace – spesso e volentieri. La lotta alla violenza contro le donne (fisica, psicologica, sessuale, simbolica, materiale, etc.), se inscritta entro la logica securitaria, non appare tanto come contrasto alla violenza in quanto tale, ma piuttosto come una contesa sulla titolarità della violenza stessa. Per questo non desta scandalo (anche se certamente tanta rabbia) la violenza che si consuma nelle caserme, nei cie, nelle aule di tribunale, dentro le istituzioni, nel linguaggio, nei media, etc…

Forse, sarebbe necessario mutare il paradigma: affrontare la questione della violenza di genere in posizione soggettiva/soggettivata (uscire, dunque, dallo schema in cui le donne compaiono in qualità di oggetto di una contesa maschile e, in ultima analisi, machista). In quest’ottica, un buon alleato delle donne contro la violenza non è colui che le protegge, ma colui che gioisce della loro libertà e che, con loro, condivide tutti i mezzi e gli strumenti per l’esercizio concreto e materiale della libertà. La protezione, infatti, confina pericolosamente con la reclusione e l’isolamento; mentre la socializzazione si accompagna sempre a un potenziamento soggettivo, l’unico in grado di redimere davvero sofferenze e umiliazioni. Le misure repressive non sono in grado di tracciare una linea politica, non consentono di impostare un discorso collettivo produttivo e in grado di innescare mutamenti sociali collettivi. La repressione è sempre e solo tautologica e generalmente inefficace. Nessuno nega l’utilità di strutture di emergenza per le donne colpite da violenza, ma questo genere di misure – per altro di stampo assistenziale e non repressivo, e che competono ai centri antiviolenza e non alle galere ed ai tribunali – non dettano una linea politica. Quest’ultima d’altronde non può essere prodotta dall’alto, ma, nelle migliori delle ipotesi viene recepita dalle istituzioni a partire dal basso. Anche se siamo lontani e lontane da qualsiasi svolta copernicana nell’universo relazionale, ciò non implica che si sia disposti/e ad accettare la regola di codici e visioni del mondo incapaci di affrontare produttivamente i problemi che si presentano nelle nostre vite.

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1. Per un primo abbozzo di riflessione si veda:http://www.sguardisuigeneris.blogspot.it/2013/08/note-sui-provvedimenti-contro.html
2. L’approccio emergenziale viene assunto in modo programmatico nel paragrafo che esplicita le ragioni politiche del provvedimento si afferma che dato «il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato rendono necessari interventi urgenti» con finalità dissuasive oltre che «misure di carattere preventivo da realizzare mediante la predisposizione di un piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere». Per questi e per tutti i riferimenti diretti che seguono nel testo, si veda il testo integrale del decreto-legge, pubblicato in gazzetta il 14 agosto 2013:http://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2013-08-16&atto.codiceRedazionale=13G00141&elenco30giorni=true
3. Lo schema narrativo muta in parte quando la figura del “carnefice” viene connotata non attraverso il ricorso a un fascio di stati psicologici, ma al “colore” – alla “razza”.

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