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La contraddittoria ascesa cinese. Intervista ai compagni di chuangcn.org (seconda parte)

Eric Jenkins-Sahlin||||

Prima parte dell’intervista qui

5. “Incidenti di massa” ossia conflitti (scioperi, raduni) nel mondo del lavoro continuano senza sosta, soprattutto nelle megafabbriche che producono per l’export. Sebbene l’economia cinese si muova sempre di più su un percorso di transizione, essa continua a basarsi prevalentemente sulle industrie tradizionali, soprattutto nei settori dell’elettronica e dell’abbigliamento. Che tipo di avanzamenti hanno conseguito i prolungati conflitti degli ultimi anni in termini di diritti e salari? I cicli di lotta degli scorsi 20 anni, trainati soprattutto dai lavoratori migranti, sono stati in grado di imporre nuove rapporti tra capitale e lavoro? Quali sono le forme di organizzazione e soprattutto di autorganizzazione che sono emerse?

Per prima cosa, dobbiamo riconoscere che molti incidenti di massa non fanno parte del “mondo del lavoro” in alcun senso diretto. Differenti stime mostrano che forse decine di migliaia di “incidenti di massa” – scioperi, proteste, scontri con la polizia, blocchi ed altre forme di azione collettiva “indesiderabile” – avvengono ogni anno in Cina.

Le stime variano. Le più recenti statistiche del 2015 del progetto Wickedonna mostrano che circa il 35% sono stati classificati come comprensivi di “lavoratori”, circa il 25% sono centrati su compratori di casa scontenti che sono stati truffati in qualche modo dagli imprenditori edili, e circa il 10% sono abitanti delle zone rurali soggetti agli espropri del governo, ecc. Gruppi più piccoli ma significativi includono proteste ambientali, proteste contro la corruzione, ecc. Il sociologo Yu Jianrong ha anche notato che i “lavoratori” sono stati tra le più ampie categorie delle azioni di massa nell’anno 2015, assieme agli abitanti delle zone rurali ed ai proprietari di case. [5] I dati precedenti e più dettagliati di Yu sostenevano che i lavoratori rappresentassero circa 30000 incidenti di massa nel 2009, ad un tasso di 80 al giorno in tutta la Cina. Yu ed altri studiosi hanno consistentemente citato che le azioni dei lavoratori rappresentino circa un terzo di tutti gli incidenti di massa in Cina. [6]

E’ importante sapere che le azioni sul lavoro, e in particolare gli scioperi, non sono che una piccola parte di uno spettro molto più ampio di agitazioni, ciascuna in una propria relazione con il capitalismo. Ognuna va contestualizzata, e non dovremmo enfatizzare indebitamente i blocchi del lavoro nelle fabbriche, che rappresentano una parte ancora più piccola di tutte le azioni dei lavoratori in Cina. Le ultime statistiche del 2016 della mappa degli scioperi del China Labour Bulletin ad esempio mostrano che gli scioperi rappresentano solo il 15% di tutte le azioni dei lavoratori. La vasta maggioranza delle azioni sono proteste e manifestazioni, che ad esempio possono includere i lavoratori licenziati delle aziende di proprietà statale (state-owned enterprise – SOE) in marcia per le strade richiedendo un compenso, lavoratori delle costruzioni che minacciano di saltare da un edificio richiedendo il pagamento degli arretrati, o insegnanti congedati che tengono un sit-in presso un ufficio governativo richiedendo il diritto ad una pensione. Fuori dall’ambito degli incidenti di massa, ovviamente, di sicuro ci sono innumerevoli piccole interruzioni del lavoro che avvengono all’interno di fabbriche che non figurano in nessun registro statistico. Detto tutto, semplicemente insistiamo sul fatto che nessuno possa presupporre che un’azione di sciopero industriale, diciamo in una fabbrica dell’elettronica o del settore tessile, sia in qualche modo rappresentativa della maggior parte delle forme di resistenza in Cina. In realtà, questo tropo crolla persino dopo un breve esame dei dati empirici disponibili.

E’ una questione di definizione di “industrie tradizionali”. Quelle minerarie, dell’acciaio ed altre industrie pesanti potrebbero essere meglio comprese come “tradizionali” nel contesto della Cina moderna. Certo, le industrie tessili ed elettroniche orientate all’export sono senza dubbio sono state cruciali negli ultimi 15-20 anni di crescita in particolare. Entrambi questi lavori nell’industria leggera e pesante definiscono ancora una porzione ampia, ma in declino, della popolazione lavorativa. Il settore dei servizi (per tagliare con l’accetta) sta crescendo rapidamente, ma molti di questi nuovi lavori sono poco retribuiti, con un alto turnover e poche speranze di stabilità o avanzamenti di carriera per i lavoratori.

Ci sono stati molti cambiamenti nei rapporti lavorativi nelle due passate decadi, ma dovremmo stare attenti a non attribuirli tutti alla mera resistenza dei lavoratori – come molti spesso, troppo sbrigativamente, fanno. Non possiamo dimenticare che lo stato ed i capitalisti lavorano continuamente alla regolazione dei rapporti capitalisti (riproducono la relazione salariale) per garantire “rapporti lavorativi armoniosi”. Gli aumenti del salario minimo, le revisioni al codice del lavoro e campagne statali per denunciare gli arretrati salariali, ad esempio, sono senza dubbio una parziale risposta ad un’agitazione intensa e di lungo periodo da parte dei lavoratori – ma non dovrebbero essere semplicemente considerate come “vittorie” o traguardi della militanza operaia; dovremmo anche riconoscere che politiche come l’aumento del salario minimo ed altri tentativi di formalizzare e stabilizzare le relazioni salariali in Cina rappresentano una buona fetta della priorità da parte dello stato di incrementare il consumo domestico e sviluppare il mercato interno cinese.

Riguardo alle lotte dei lavoratori migranti negli ultimi 20 anni, i rapporti lavorativi sono stati regolati sempre di più, con una maggiore erogazione di benefit sociali (sistema di assicurazione sociale), ed hanno sviluppato una più ampia burocrazia di organi statali afferenti al mondo del lavoro (corti di arbitrato, il sindacato di stato, per non parlare della polizia). Persino a giudicare da questi magri cambiamenti, le cose non sono migliorate così tanto. Mentre i rapporti lavorativi sono stati sempre maggiormente regolati, solo un terzo circa dei lavoratori migranti ha un contratto con il proprio datore di lavoro [7], nonostante anni di tentativi da parte dello stato di formalizzare le relazioni. I benefit dell’assicurazione sociale sono cronicamente sottopagati o non pagati affatto, ed i lavoratori hanno poco o niente per andare in pensione. Le burocrazie statali operano attraverso la propria logica delle quote e la propaganda, perciò le spinte alla promozione dello “stato di diritto” e “rapporti di lavoro armoniosi” non sono altro che una patina sulla superficie di un conflitto sociale montante in cui i percorsi legali dello stato sono di poca utilità per i lavoratori. Oggi il numero di vertenze registrate con lo stato sta superando persino quelle registrate all’alba della crisi finanziaria del 2008.

Tenendo conto di tutto ciò, i conflitti hanno “ottenuto” livelli di responso dalle burocrazie statali: aggiustamenti ai meccanismi di risoluzione delle vertenze, campagne di punizione dei datori di lavoro colpevoli di accumulare arretrati ed altri abusi, per non parlare dell’aumento dei budget di polizia, della sorveglianza e dei giri di vite sulle organizzazioni.

Ciò non vuol dire che i lavoratori non siano riusciti a conseguire qualcuno dei loro obiettivi immediati. In realtà, spesso i lavoratori riescono a riottenere la paga, la retribuzione loro dovuta o aumenti di stipendio attraverso l’azione collettiva, che induce lo stato e i datori di lavoro a rispondere. Come descritto nel nostro articolo “Nessuna strada in avanti, nessuna strada a ritroso,” [8] gli “incidenti di massa” in Cina hanno spesso raggiunto risultati in sordina, mentre scioperi generali nazionali e disordini in Europa possono essere ignorati o repressi. Citando il detto cinese, “un gran putiferio porta a grandi risultati, un piccolo putiferio porta a piccoli risultati e nessun putiferio a nessun risultato” (大闹大解决 小闹小解决 不闹不解决).

In termini di organizzazione, non c’è penuria di autorganizzazione, tra i lavoratori ed altre categorie come gli abitanti delle campagne o i proprietari di case urbani espropriati delle loro abitazioni. Specialmente in quest’epoca di dispositivi mobili e social media, tutti gli strati della società sono in grado di contattarsi reciprocamente ed agire collettivamente rispetto alle principali questioni delle loro vite. Nonostante l’intensa censura e monitoraggio dei social media, il numero e la scala delle azioni collettive e delle reti sociali inevitabilmente sopraffano la capacità dell’apparato statale di controllarle completamente. I lavoratori usano un’ampia gamma di spazi di autorganizzazione:

– cerchie sui social media

– reti amicali, familiari e laoxiang (persone della stessa zona)

– organizzazione sul posto di lavoro

– campagne legali e petizioni

piccole pubblicazioni di lavoratori, poesia, musica e spazi in cui i lavoratori possano discettare su vita, politica e azione

In generale, c’è la forte argomentazione che un “meccanismo inibitorio” abbia finora contenuto le lotte in Cina ben entro certi limiti, ma ciò fornisce ancora più ragioni per comprendere le dinamiche delle lotte contemporanee – nel loro senso più ampio, libere dai tropi del vecchio movimento operaio – e di come gli attuali meccanismi possano essere rotti.

6. La questione ambientale sembra essere una delle sfide più grandi all’orizzonte per la sostenibilità del modello economico cinese. Su questo tema sono emersi molti conflitti, sottolineando la contraddizione tra sviluppo e benessere, spingendo decine di migliaia di persone alla difesa dell’ambiente e della loro terra, con l’attacco in parallelo all’inquinamento ed alla devastazione ambientale ed al modello di sviluppo che li produce. A parte la questione del lavoro, può essere questo il tema tramite cui sia possibile misurare la tenuta del modello politico ed economico cinese?

L’ambiente è senza dubbio un luogo chiave dell’antagonismo nella Cina contemporanea, generando alcune delle proteste più grandi ed organizzate. Nel 2004 — in una delle proteste più estese dal 1989 — in decine di migliaia dilagarono nel sito di costruzione della ciclopica diga di Pubugou, rallentando il progetto e portando all’esecuzione di almeno uno dei manifestanti. Questi ultimi erano furiosi per la perdita di terra ed il ricollocamento forzato. Anche l’inquinamento effettivo e potenziale delle fabbriche chimiche portò ad enormi proteste. Anche un movimento di protesta contro la costruzione di una fabbrica di paraxylene (PX) a Xiamen, Fujian, radunò decine di migliaia di persone, portando allo spostamento della fabbrica. A Chengdu, Sichuan, le proteste contro lo smog sono iniziate dopo che delle persone misero maschere sulle statue nel Dicembre 2016. Furono duramente represse.

Il danno ambientale non è nuovo in Cina, ed il regime di sviluppo post-1949 ha visto la trasformazione della natura come centrale rispetto al suo progetto di industrializzazione e potere nazionale. Ci sono due percorsi chiave per comprendere il danno ambientale contemporaneo e le proteste che produce. Per prima cosa, il danno ambientale attacca la riproduzione sociale della popolazione, in particolare nella campagna. Dal 1949 il divario città-campagna è stata una struttura portante utilizzata per lo sviluppo economico della Cina, non solo in termini di estrazione del surplus rurale per il fine dell’industrializzazione. In aggiunta, la sfera rurale è stata usata come uno sfogo per i problemi urbani ed ambientali, e ciò continua oggi. L’ambiente rurale paga un alto prezzo per l’investimento – e per la crescita economica basata sull’export. Fino ad un quinto del territorio rurale cinese è inquinato, così come fino al 90% della sua acqua. È in gioco la stessa riproduzione della vita sociale rurale. I movimenti di protesta urbani, come le proteste contro l’impianto PX a Xiamen, sono state più efficaci di quelli rurali, mostrando il potere ineguale tra abitanti urbani e rurali, oltre alla maggior paura che le proteste urbane suscitano nel partito. La rapida urbanizzazione che ora sta conoscendo la Cina non mitigherà questo problema, dato che gli abitanti delle aree urbane utilizzano circa quattro volte l’energia di quelli che vivono in campagna. Inoltre, le città in espansione stanno rapidamente divorando il suolo coltivabile.

In secondo luogo, l’altra faccia di tutto ciò è il fatto che lo sviluppo economico sia finanziato non solo dalla manodopera a buon mercato, ma anche dalla natura a buon mercato – i costi ambientali dello sviluppo non vengono pagati da quanti traggono profitto da essi. Ciò ovviamente è vero per quanto riguarda il capitalismo in genere, ma nel periodo delle riforme in Cina è stato particolarmente prominente, poiché gli ufficiali statali del posto sono stati valutati quasi esclusivamente basandosi sulla crescita del PIL nella loro zona durante il loro mandato. Tale questione è degenerata a tal punto che il governo centrale ha cercato di revisionare il modo in cui esso valuti gli ufficiali, proponendo una misura di “PIL verde” nei primi anni 2000. La misura è stata cestinata dopo che ufficiali locali e rappresentanti degli interessi delle industrie si sono ribellati al piano, sebbene di recente si sia ripreso a parlare della proposta. Questo è un altro esempio del modo in cui la leadership centrale sia altamente imbrigliata. Ci sono modi in cui la controparte riesce a gestire i problemi e le proteste che provoca, come traslarli nella sfera rurale, come citato prima, ma tali strategie non riescono ad arrivare alla causa radice del problema: il capitalismo ed il suo sviluppo in Cin si basano solo sulla disponibilità di natura a buon mercato.

7. Lo sviluppo della logistica sembra una chiave fondamentale per comprendere le dinamiche che caratterizzano il capitalismo contemporaneo. In un testo recente, avete analizzato il modello di business di Amazon, e le tipologie di rapporti tra lavoro e capitale che questo modello crea. Guardando dall’altro verso, anche la dimensione geopolitica sembra vedere la logistica come una fonte primaria di ulteriori traiettorie di crescita economica con, ad esempio, progetti come la Nuova Via della Seta. E’ possibile dire che la globalizzazione guidata dalla Cina possa anche essere compresa in questo modo: come una rIstrutturazione della precedente fase americana, soprattutto in quest’area della logistica?

Chiarimento:

Possiamo considerare la Cina come il nuovo principale player mondiale che si stia avviando a “sostituire” gli USA? O abbiamo bisogno di usare diversi paradigmi interpretativi per afferrare ciò che stia succedendo? E come pensate che la globalizzazione a guida cinese abbia al proprio centro un uso politico della logistica (come la cosidetta “Nuova Via della Seta”)? In altre parole, possiamo considerare il tessuto logistico globale cinese come una sorta di soft power per conseguire una nuova egemonia globale?

No, la China non sembra capace di rimpiazzare gli USA come il nuovo principale player globale nelle prossime decadi, specialmente a causa delle ragioni militari delineate in precedenza. Perciò si, abbiamo bisogno di un paradigma diverso. In precedenza abbiamo proposto il Giappone intorno agli anni ‘80 come maggiormente utile per un raffronto ma, come anche notato in precedenza, la molto maggiore scala della popolazione cinese, della superficie, ecc. ed il ruolo molto più ampio dello sviluppo di infrastrutture internazionali nell’espansione cinese comporta che il suo impatto sul capitalismo globale differisca significativamente da quello del Giappone di alcune decadi fa.

Inoltre, questi progetti infrastrutturali – inclusi i principali aspetti della Belt and Road Initiative (B&R) — comprendono un elemento di espansione militare. Sebbene ancora irrisorio in confronto alla presenza militare internazionale di USA, Russia e pochi altri paesi, questa espansione militare (combinata con l’integrazione economica regionale, le manovre diplomatiche, ecc.) potrebbe, entro un paio di decenni, aiutare la Cina ad iniziare ad assumere un ruolo equiparabile a quello di un egemone regionale, portando ad un mondo multipolare.
Perlomeno questo è un obiettivo esplicito di elementi relativamente nazionalisti entro la classe dirigente cinese, secondo dichiarazioni che appaiono di volta in volta nelle pubblicazioni come The Global Times. Ma una tale strategia presume che le economie globale e regionale possano continuare a crescere abbastanza in fretta e per abbastanza tempo da prevenire che il disordine sociale destabilizzi questo percorso di riallineamento geopolitico. Un possibile risultato dell’approfondirsi del rallentamento economico ed un picco di disordini diffusi (oltre alla rivoluzione globale in cui tutti speriamo ma che sembra altamente improbabile nel prossimo futuro) potrebbe essere il tentativo prematuro di sfidare militarmente gli USA ed i loro alleati. Ciò sarebbe disastroso per lo stato cinese, per non parlare delle persone che vivono nella regione. Ma se l’economia riesce a mantenere una crescita sufficiente ed i dirigenti cinesi a mantenere il sangue freddo, sembra più probabile che continuino solo gradualmente ad intraprendere piccoli passi verso una sfida al potere USA nella regione – come hanno iniziato a fare nel Mar Cinese Meridionale.

In rapporto a ciò, è di aiuto un report recente su Pri.org:

Che la Cina apra la sua prima base [navale d’oltremare] nella remota Gibuti è dovuto al totale accerchiamento della sua costiera pacifica da enormi basi americane. La sua missione corrente di costruire piccoli avamposti nel Mar Cinese Meridionale – che il Presidente USA Donald Trump erronamente chiama una “gigantesca fortezza” — è stata ripetutamente minacciata dalla US Navy.[…] L’esercito statunitense divora la bellezza di 622 miliardi di dollari l’anno – più di quattro volte il budget militare cinese. […D’altro canto] la marina cinese è quella che cresce più rapidamente nel mondo e, entro qualche decade, dovrebbe mostrarsi altamente in grado di respingere le minacce americane nelle sue acque di prossimità. Nei mari più lontani, si aspetterà sempre più che gli USA si ritirino rispettando il suo diritto di difendere le arterie oceaniche che pompano vita economica nel paese.

Dunque se riformuliamo la vostra domanda in termini di egemonia regionale, anziché globale, potremmo dire si: il tessuto logistico internazionale (ad ora lontano dal “mondiale”) cinese potrebbe essere considerato una forma di potere – non solo soft power ma anche, in una misura molto minore ma in crescita, hard power—verso lo scopo finale di conseguire l’egemonia regionale e muovere verso un mondo multipolare.

Tuttavia, una tale affermazione oscura comunque alcuni punti importanti. In primo luogo, i programmi internazionali cinesi come la B&R interessano molto più che la logistica. E’ corretto sottolineare che la logistica sia centrale per tali programmi e per l’espansione internazionale cinese in generale, e mentre ciò non è di certo un unicum della Cina contemporanea (ovviamente le spedizioni e la costruzione di ferrovie, ad esempio, erano centrali per il colonialismo europeo), sembra esserci qualcosa di speciale rispetto all’uso peculiare della logistica in proposito. Forse si tratta che tali programmi evidenzino ufficialmente la costruzione di infrastrutture – specialmente quelle di trasporto – come una sorta di proposta di vendita agli altri stati ed investitori privati per convincerli ad accedere a nuovi e rischiosi rapporti economici e politici. E’ possibile che ciò sia collegato ai cambiamenti nel modo in cui oggi funzioni la logistica, in associazione alla “rivoluzione logistica” dagli anni ‘80. In realtà, la “logistica” per come la conosciamo oggi non esisteva nemmeno prima degli anni ‘80, tranne che nella più datata accezione militare. [9] C’erano piuttosto solo settori di trasporto, magazzini e commercio separati, senza nulla di simile all’integrazione computerizzata di questi in un sistema unico organizzato attorno ai bisogni delle aziende transnazionali della distribuzione.

Proprio per questa ragione, tuttavia, il termine “logistica” potrebbe non essere il più utile per comprendere i programmi cinesi come la B&R. Se osservate tali programmi più da vicino, noterete che la maggior parte dei loro progetti infrastrutturali riguardano il trasporto e l’energia, ma non necessariamente la logistica in quanto tale. Ovviamente, tale infrastruttura è necessaria per la logistica, ma lo è anche per scopi militari e di altro tipo, e non è un’esclusiva dell’attuale epoca o della strategia di espansione cinese. Forse una differenza più importante tra quest’aspetto dell’espansione cinese e quelle del colonialismo europeo o del neocolonialismo americano è il dire semplicemente che stiamo vivendo in un’epoca post-coloniale dove quasi 200 stati hanno almeno fornito l’apparenza di negoziare accordi a vicenda come entità sovrane, dunque un dato stato non può semplicemente andare a costruire una ferrovia sul territorio di un altro stato (almeno non senza la scusa accettata dalla “comunità internazionale”).

Un secondo punto oscurato da questa enfasi sulla logistica come mezzo per costruire egemonia è che la spinta più immediata per questi progetti di espansione è il bisogno di trovare uno sfogo per il surplus di capitale cinese ora che l’investimento domestico sta sia diventando meno profittevole che incontrando limiti materiali epitomizzati dalle famose “città fantasma” cinesi. Che cos’altro potrebbe fare la Cina con i suoi milioni di tonnellate extra di acciaio, ad esempio? Insieme a ciò vi è il bisogno di ridurre i costi (inclusi i costi di trasporto, oltre ai costi diplomatici) di acquistare materiali grezzi e di vendere i prodotti cinesi sui mercati d’oltremare – altre modalità di controbilanciare temporaneamente la caduta del saggio di profitto. Certo, perlomeno alcuni dirigenti cinesi sperano di conseguire in ultima istanza l’egemonia regionale e considerano la B&R come un modo di muoversi in quella direzione, ma anche quell’aspirazione politica dovrebbe essere considerata come interrelata al bisogno economico più immediato di affrontare le crisi di sovraccapacità e sovra-accumulazione della Cina.

Infine, un’altra importante funzione dell’espansione internazionale cinese è l’esternalizzazione dei costi sociali ed ambientali dello sviluppo capitalista. In precedenza abbiamo notato come la stessa campagna cinese abbia funzionato sia da sfogo per i problemi ambientali e come un luogo in cui parte del lavoro di riproduzione sociale fosse esternalizzato. Ma in misura sempre maggiore, man mano che la Cina rurale perde la capacità di svolgere efficacemente questi ruoli (a causa della distruzione ambientale di molte zone, della recinzione dei residui appezzamenti fertili per un uso più diretto da parte delle aziende capitaliste e del più intensivo ridislocamento delle famiglie contadine nelle zone urbane), sia il capitale cinese che quello transnazionale devono rivolgersi altrove in cerca di luoghi in cui esternalizzare questi costi. Le aziende cinesi sono ora in competizione con quelle di posti come la Corea per ottenere terra sia nei paesi vicini, come il Myanmar ed il Laos, ed alcuni lontani come il Brasile, non solo per sviluppare infrastruttura di trasporto e progetti energetici, ma anche di implementare progetti agrari su larga scala. Oltre a fornire uno sfogo per il surplus di capitale ed abbattere i costi delle materie prime, una tale espansione ha anche iniziato ad esternalizzare i costi ambientali della produzione, come visto nella distruzione della foresta amazzonica, ad esempio – in cui gli investitori cinesi fanno comunella con quelli di altri paesi (e con lo stato brasiliano, ovviamente). Tali costi ambientali sono anche legati con quello che Jörg Nowak ha chiamato “l’esportazione del conflitto sociale” dato che l’inevitabile resistenza a tale distruzione ed espropriazione si dà in terra straniera, quindi abbattendo l’impatto sulla stabilità sociale e politica della Cina. [10]

— Redazione di Chuang, Giugno 2017

 

[5]  http://cul.qq.com/a/20160223/023980.htm

[6]  I dettagli di questa tesi si trovano nella nota 3 di questo articolo:

http://www.gongchao.org/2016/06/01/interview-struggles-organizing-repression/#sdfootnote3sym

[7]  http://www.sixthtone.com/news/1000141/fewer-of-chinas-migrant-workers-have-labor-contracts

[8]  http://chuangcn.org/journal/one/no-way-forward-no-way-back/

[9] Sull’adozione commerciale del termine “logistica” ed alcune tecniche ad esso associate in ambito militare, consultare The Deadly Life of Logistics di Deborah Cowen (University of Minnesota Press, 2014).

[10] Comunicazione personale basata sul’attuale percorso di ricerca di Nowak sull’investimento estero (che include ma non si limita al caso cinese) e la resistenza locale all’esproprio, allo sfruttamento ed alla distruzione ambientale. Casi paragonabili sono stati documentati in altri paesi come il Myanmar (riguardo al quale consultare “The interplay of activists and dam developers: the case of Myanmar’s mega-dams” di J. Kirchherr, et al., International Journal of Water Resources Development, 2016).

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