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Vittime in coworking

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Ogni vittima è travolta dal destino. Ma è il suo destino. Quell’appartenenza che inchioda alla costellazioni di eventi, ruoli e concause che lo scrivono il destino. Sente il boato sordo della tragedia che la travolgerà, la vittima. La valanga della storia. Moro sapeva di esserle esposto e con lui ogni protagonista della vicenda di via Fani e dello scontro politico e sociale che fece franare questo paese quarant’anni fa.

Vittime e carnefici. È con questa semplificazione che lo Stato celebra il quarantennale del rapimento Moro. Il baccanale del rapimento Moro. Non è solo un’assonanza comoda. La repubblica rigenera i propri fondamenti ormai solo in questi riti radicati nella guerra civile vinta militarmente contro il terrorismo. Solo i vincitori parlano perché la ferita deve restare aperta, perché la verità è che non c’è altra ragion sufficiente per giustificare l’unità di questo paese entro il corpo legittimo dello Stato e delle sue istituzioni.

Gabrielli, il capo della polizia, ama le catastrofi. “Genova fu una catastrofe”, disse quest’estate nel tentativo di chiudere un’altra storia, un’altra ferita. Come vincitore, s’intende. Quando l’epica della sua frequenza viene disturbata dal rumore di fondo del resto della storia, quella degli altri che l’hanno fatta, i vinti o i carnefici, a seconda dei punti di vista, Gabrielli schizza. “È inaccettabile riabilitare i brigatisti negli studi tv”, ha detto a muso duro contro i giornalisti di La7 rei di aver fatto parlare un altro pezzo di quella storia diventata celebrazione. Certo da un superpoliziotto non si può pretendere comprensione dei fenomeni, quella spetta agli storici e forse – addirittura?! – ai giornalisti. Al poliziotto spetta inchiodare i fatti ai crimini, va bene, ma qui abbiamo caso di un uomo di legge più devoto alla commozione per i fatti della storia che al principio di impersonalità del diritto. Per difendere la forza di questo diritto nel presente, forse?

Ma l’interferenza continua: “C’è questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola”. Sono le parole di Barbara Balzerani, comunque una protagonista dei fatti oggetto dei riti celebrativi di questo quarantennale uggioso. Dice una verità. Non “la quinta essenza della verità rivelata”, come vorrebbe Gabrielli, ma una verità di buon senso: “non è che la storia la puoi fare solo te”. L’ex brigatista aggiunge che “questa figura, la vittima, è diventato un mestiere”. Scatta l’indignazione e un portentoso meccanismo di difesa a protezione di questo rito singolare della memoria di via Fani imbastito per tenere assieme tutto: storia e potere trionfante. Non importa se le due strade non si sono mai incontrate. È un cinismo insopportabile, dicono i più. Eppure l’immagine scelta sfiora e restituisce bene l’ingranaggio approntato. In fondo questa schiera di poliziotti a guardia della memoria non fa che produrre continuamente vittime per riconfermare i vincitori. Questo quarantennale è uno spazio in coworking gestito dai poliziotti della storia. Descrivono un firmamento inesistente, fatto di miti e disinteressato a quella costellazioni di eventi, ruoli e concause che descrissero quel destino. I poliziotti non conoscono le stelle, separano i fatti dalla storia per inchiodarli alla legge. Solo gli astrologi, e neanche i vinti, tengono assieme il corso delle stelle e quello della vita.

 

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