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Non a tutti piace Expo

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Il primo maggio milanese ci consegna una giornata dalle molteplici sfaccettature. Il primo dato fondamentale da cogliere è che quelle decine di migliaia di persone scese in piazza rappresentano uno spettro della società non recuperabile oggi dalla rappresentanza politico-partitica.
Nell’insieme, queste presenze hanno saputo esprimere con forza il rifiuto di una città modellata intorno a Expo, ribaltando in maniera forte quella “valorizzazione del territorio” di cui si riempiono la bocca i padroni del cibo. Arrivando a incrinare quell’expoizzazione della città che pretendeva di delimitare lo spazio di agibilità politica di chi si oppone al modello di sviluppo incarnato nel mega-evento di cemento e lavoro gratuito.

C’era solo una risposta da dare alla sfacciataggine della questura che ha deciso a qualche giorno dalla contro-manifestazione di porre una zona rossa e vietare un percorso autorizzato da mesi. La città non è di Expo: dalle periferie al centro è stato importante provare a violare la zona rossa per significarlo. E’ stato un corteo composito, con pratiche eterogenee in cui tutte le realtà che hanno partecipato al percorso di opposizione al mega-evento hanno avuto spazio per esprimersi. Pratiche di conflitto radicali hanno coabitato con momenti di incontro tra giovani precari, occupanti di case di diverse città, sanzionamenti e musica si sono alternati tutelando le diverse sensibilità e componenti.

Un primo maggio importante nella misura in cui ha saputo porre con chiarezza un’incompatabilità tra il modello-Expo e la parte del paese che non accetta l’impoverimento generale come orizzonte inevitabile di una “ripresa” che è solo artificio retorico per forzarci a stringere ancora la cinghia. Lo scarto politico, per la composizione giovanile che ha animato, numerosissima, il corteo è stato nell’individuare Expo come punto di arrivo e di rilancio di quei meccanismi di precarietà che subiamo da decenni smontando la retorica di chi voleva camuffarlo da “nuovo inizio”. È uno scarto che ci parla di uno spazio di opposizione possibile e concreta al bulldozer renziano e al partito della nazione, di un’irriducibilità delle tensioni sociali che attraversano i territori. Il premier voleva una vetrina per mostrare il meglio dell’Italia. L’ha avuta in questo primo maggio di lotta: l’eccellenza italiana è riprendersi le strade, tutti insieme. Con tutti i suoi limiti il corteo di ieri è la prima grande e decisa protesta contro Renzi e il suo modello di sviluppo, e cosi verrà ricordata.

Ma è stata anche una giornata di protesta contro l’Europa della crisi, in continuità con quel 18M a Francoforte che ci aveva mostrato una ricomposizione possibile sul piano del conflitto fuori e contro la governance dell’unione. A Expo c’erano capi di stato da tutta Europa e da tutta Europa è giunta gente a contestarli. Sicuramente si tratta di una dinamica ancora balbuziente e le reciproche incomprensioni sono moltiplicate da culture politiche diverse e livelli di radicalità discordi tra i nostri territori. È un vero lavoro di traduzione, nel senso più ampio del termine, sul quale dobbiamo ancora lavorare molto. Ma è comunque una ricchezza vedere che quell’orizzonte minimo delle lotte che è l’Europa si concretizzi finalmente nella contaminazione del conflitto e non negli scambi tra ceto politico.
Queste le considerazioni positive che ci sentiamo di fare rispetto a questa giornata di lotta.
Permangono comunque molte criticità su cui dovremo lavorare insieme… tra chi ha voglia di mettersi sinceramente in gioco.

La questione, come al solito, non è nelle identità ma nel metodo. Ragionare su quali pratiche ci rendono più forti e evidenziano le linee di frattura sempre più larghe in una società caratterizzata da una rabbia latente quanto diffusa. Spaccare utilitarie o vetrine a caso è un gesto idiota che ha senso soltanto per chi assume come referente del suo agire “politico” il proprio micro-milieu ombelicale. Per quanto ci riguarda il nostro soggetto sociale di riferimento resta sempre quello degli impoveriti, dei senza casa, dei giovani, dei migranti e di tutta quell’eccedenza umana da cui dipende ogni orizzonte di cambiamento radicale dell’esistente.

Ai commentatori indignati che oggi spopolano sui social e più in generale in rete vorremmo però sottoporre alcune piccole osservazioni:

1) quello spezzone di corteo che oggi viene sintetizzato e banalizzato nella formula del “blocco nero” – e che raccoglieva invece composizioni politiche e sociali anche molto differenti e stratificate -, piaccia o meno, era il più numeroso dell’intero corteo. A chi oggi pretenderebbe di negare questa evidenza, chiediamo di tornare con lo sguardo all’imbocco di via De Amicis dove si poteva osservare l’ingrossarsi delle file e lo sciamare di moltissimi giovani da altri punti del corteo in quello spezzone lì.

2) si trovavano lì riunite soggettività collettive e individuali che intendevano praticare una qualche forma di conflitto: esercizio della forza, pratica dell’obiettivo, rottura della compatibilità di sfilate sempre uguali a sé stesse e totalmente ininfluenti.  

3) il resto del corteo non è stato intaccato o messo a rischio fisico dagli scontri e dalle azioni che vi si sono prodotte. Si dirà che questo è stato merito della oculata gestione delle forze dell’ordine che hanno lasciato sfogare quella piazza evitando un allargamento dei disordini e la loro ingestibilità. Vero, ma la verità sta nella relazione tra quello che la questura ha optato di fronte a una presenza massiccia e di difficile gestione. Una forza effettiva era in campo e poco disponibile a forme di dialogo.

In un articolo, peraltro orrendo, Luca Fazio coglie almeno un dato politico: con quel modo di stare in piazza bisogna fare i conti e nessuna struttura organizzata, in queste occasioni, è in grado di esercitare una forza di controllo e direzione compiuta. E’ un bel nodo da sciogliere e su cui lavorare. A partire da una premessa: quella rabbia, quella composizione, quei soggetti sono affare nostro e vogliamo averci a che fare, con tutte le difficoltà del caso. Chi se ne tira fuori – per calcolo, paura o presunta superiorità politico-morale – sta tracciando un solco tra gli alfabetizzati della politica e gli impoveriti ed arrabiati che in alcune occasioni si presentano sulla scena. Istituisce una gerarchia di apartheid politico tra rappresentabili e non. E’ un gioco a cui non ci prestiamo. Preoccuparsi del solco che si rischia di scavare tra militanti e resto della popolazione è cosa lodevole e necessaria (nodo del consenso). Non porsi il problema di come inglobare e dare senso a una rabbia latente e neccessaria (nodo del conflitto) è una scelta ponzio-pilatesca e dallo sguardo corto, tanto più per chi si rappresenta come opzione conflittuale e antagonistica mentre nei fatti pensa ogni volta solo ed esclusivamente a portare a casa la pelle e garantirsi la riproduzione del proprio picccolo aggregato, tenendosi aperti canali di mediazione e dialogo che non portano piu da nessuna parte.

C’è tanto da dire, ragionare e commentare sui fatti di ieri. C’è però innanzi tutto da prendere una posizione chiara sul dove e con chi stare. Sul fatto che è mille volte preferibile trovarsi il giorno dopo a fare i conti con conseguenze ed esiti imprevisti piuttosto che darsi le pacche sulle spalle tra le infinite gradazioni di un ceto politico costantemente impaurito dall’emergere di una qualunque forma di eccedenza non prevista. Atene, Baltimora, Istanbul sono dietro l’angolo. Prendiamone atto e attrezziamoci di conseguenza. C’è invece chi ancora pensa di trovarsi nella stagione dei social forum o peggio, nei trenta gloriosi. Non è (più) così.

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