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Il potere del più buono

Papa Francesco si è recato a Lampedusa per il suo primo viaggio apostolico dedicandolo alle migliaia di persone che hanno perso la vita nella traversata in mare del mediterraneo. Lo ha fatto tenendo messa in un paesaggio simbolico, il campo sportivo che è stato utilizzato nel 2011 per ammassarvi quanti dovevano essere utilizzati per creare un’emergenza ad hoc in occasione dei viaggi seguiti alle rivolte in Nord Africa e che si trova a due passi dalla spiaggia dove vengono ammassate le carcasse delle imbarcazioni utilizzate per raggiungere le coste di Lampedusa e della fortezza Europa.

Un’operazione che rafforza l’immagine di una chiesa caritatevole, misericordiosa e pietista e che prova intelligentemente a coprire uno degli spazi lasciati vuoti dalla politica delle istituzioni dello Stato italiano. Non deve essere infatti sfuggito alle gerarchie ecclesiali che negli anni la rivendicazione degli abitanti di Lampedusa si è attestata attorno all’impossibilità di trattare l’isola più a Sud d’Europa come porta del continente e, contemporaneamente, lager a tempo più o meno indeterminato per quanti vi sbarcano, lamentando, in primis, il trattamento riservato a migranti e lampedusani da parte delle politiche di controllo delle migrazioni.

Un’isola in cui i numeri degli sbarchi e dei migranti vengono ingigantiti o sottodimensionati ad opera d’arte a seconda della centralità che si vuole attribuire all’”emergenza” immigrati. Il tutto sulla pelle dei migranti, costretti a soggiornare forzatamente e in condizioni carcerarie su di un’isola considerata come “scalo tecnico” del loro difficilissimo viaggio, e su quella dei lampedusani che si ritrovano a fare i conti con l’immagine e la realtà di un piccolo territorio congestionato dall’ingombrante presenza del CDA e delle emergenze create dalle esigenze delle politiche securitarie e dello spettacolo massmediatico.

Su questo terreno Papa Francesco ha visto lo spazio per un intervento politico sempre più diretto, e ha scavalcato con un balzo il tentativo di rinverdimento a sinistra con le figure di Boldrini e Kyenge. Un tentativo, portato avanti dalla intelligencija di PD e Sel al limite della disperazione, per mantenere un contatto con discorsi quantomeno alternativi a quelli apertamente razzisti, proponendo figure di immediato impatto retorico. Un tentativo, però, ancora una volta non intenzionato, o forse non in grado, di leggere l’attualità delle rivendicazioni dei migranti. Nessuna parola è stata infatti spesa sulle lotte di questi mesi dei lavoratori della logistica, con una larghissima composizione migrante, o su quelle dei rifugiati senza casa che a Torino hanno occupato l’ex Moi. Quanto meno nessuna parola che possa essere posta al di fuori di quella visione tesa a inferiorizzare e a relegare in una condizione di subalternità gli immigrati in Italia.

Così le rivolte nelle carceri chiamate Centri D’Accoglienza, CARA e CIE sono puntualmente criminalizzate e represse, così come il protagonismo dei rifugiati in lotta per una casa o per condizioni di lavoro dignitose finisce ai margini dei problemi di ordine pubblico e trattato come tale con polizia, manganellate e repressione.

Dalla Boldrini sponsor dell’ONU e dei diritti umani si può sentire una condanna per sovraffollamento in un determinato Centro o al limite per la dubbia legalità di un Centro stesso ma, non appena la subalternità viene trasformata dai migranti in protagonismo politico determinato a rivendicare una vita degna, si eclissa in un silenzio assordante o nelle parole di una buona samaritana capace di indicare la retta via per ottenere i propri diritti: starsene buoni e zitti e sperare nella provvidenza delle istituzioni.

Ma purtroppo per la nuova e sempre indietro intelligencija, su questo campo c’è chi ha un’esperienza plurimillenaria, e con uno schiocco di dita è capace di mettersi in testa la corona del più buono e a ricollocare tutti quanti gli altri in riga e in coda, schiacciandoli sulle sue posizioni.

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