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Identità rottamate

Le dimissioni di Cuperlo dalla presidenza del PD chiudono un’epoca, o quantomeno registrano un punto di svolta nella guerra spietata e decennale tra le opposte forme di governance compromissoria e decisionista in Italia. La prima come carattere di un’identità italiana fondata su numerosissime fratture storiche ed intrecci di interessi (istituzionali ed informali) locali, regionali, nazionali e sovranazionali; e la seconda richiesta in un sistema europeo e globale dove il rumore di fondo, la moltiplicazione e specializzazione dei saperi, l’incertezza sistemica e la feroce competitività liberista obbligano la politica al minimo comun denominatore della delega in bianco agli istinti emozionali e appiattiti del leaderismo, della personalizzazione e dell’ostilità verso l’astrazione ed il dibattito.

Compromesso è anche ammissione di piccoli attori alla grande abbuffata parlamentare, tolleranza o strumentalizzazione del loro relativo potere di veto, diritto di tribuna in cambio della pace sociale. Ma ai prodromi della crisi, con l’esplodere della globalizzazione (e più modestamente in Italia, con la stagione dei sindaci sceriffo) la riduzione dei margini di contrattazione e compromesso sociale è andata di pari passo con la riduzione della complessità della politica rappresentativa. Conseguita quest’ultima con l’arma spettacolare degli scandali e delle inchieste ai danni delle (impresentabili) formazioni che hanno maggiormente difeso e si sono fatte vanto della propria identità e quindi della propria integrità politica: Lega, IDV, SEL.

Nel frattempo l’empatia del catastrofico Monti non ha retto al gessato indossato nel salotto di casa; ed ora (dopo i casi Unipol e Monte dei Paschi, gli affari illeciti delle cooperative “rosse” e le malversazioni finanziarie degli amministratori locali) è il turno dell’integrità etica e legalitaria dell’elettorato PD di essere rottamata (assieme ai dirigenti di quel partito da essa legittimati) dal nuovo leader, nel suo confronto con il rais decaduto di Arcore.

Può sopravvivere oltre questa opinione pubblica antiberlusconiana, stecchita sull’attenti in attesa di una catartica resa dei conti con il suo avversario come ne “Il deserto dei tartari”? Forse non più a lungo delle velleitarie esperienze territoriali della sinistra radicale che, dal via libera di rifondazione e verdi alla TAV all’epopea dei sindaci arancioni, si sono rivelate incapaci non solo di riportare vittorie nella difesa dei territori e dei celebrati “beni comuni” ma nemmeno di avere opposto resistenza attiva (come fatto persino dalle loro controparti greche) al saccheggio del patto di stabilità e delle altre declinazioni locali dell’austerity.

Non è solamente morta nel giro di una stretta di mano tra Renzi e Landini o Marchionne (che a loro volta aspirano ad analoghi ordini di rottamazione delle relazioni del mondo del lavoro); ma anche davanti ad ogni lampante (e mistificatorio, rovistando nella sua storia politica e personale) tentativo renziano di proiettarsi idealmente oltre la stagione compromissoria dei governi tecnici e delle larghe intese, forte di un’investitura trasversale, dell’appeal mediatico e delle accattivanti riforme a costo zero. Con la legittimazione plebiscitaria di chi, dopo Veltroni, Vendola, Grillo, ecc., può bearsi di essere l'”uomo del momento”, nel tempo della politica spuria: in cui saltano le categorie politologiche ed ogni partito di “notabili” può essere allo stesso tempo un partito “pigliatutti” – tra presidente tuttofare berlusconiano, ecumenismo grillino e massa informe delle primarie renziane.

C’è tuttavia un ma: la rete ed i media non possono ovviare all’assenza di quelle forme organizzative che tramite la militanza, la struttura e la visione programmatica consolidano blocchi elettorali e ne plasmano il consenso. E quest’ultimo può venire meno tanto rapidamente quanto è stata impetuosa la sua formazione: sarebbe interessante, in merito, verificare la tenuta di un PD renziano posto sotto il giogo dei vincoli economici europei davanti al fronte maggioritario astensionista, grillino e berlusconiano oppostosi nelle scorse elezioni a tali imposizioni.

Ad oggi c’è chi su forum e bacheche ha ancora la pancia abbastanza piena da discettare di sbarramenti elettorali e premi di governabilità, insomma della vecchia politica della quantità, della rappresentanza e delle clientele. Così è bene che l’occhio antagonista – così come quello di ogni persona dotata di un minimo di buon senso – ricada sulla politica della qualità di una vita degna: che ad ora solo i comportamenti conflittuali del contropotere anticapitalista possono introdurre. E sulle conseguenze impreviste ed i terreni inesplorati e vivi che la duplice scomposizione delle storiche basi elettorali e sociali di riferimento dei partiti e dell’organizzazione del vecchio apparato del PD possono aprire.

Perché quando le controparti si compattano sono più facili da colpire; e qui sta l’opportunità per la proposta del movimento antagonista e la necessità di agire con tempismo. Soprattutto quando nei tempi dilatati a cui deve sottostare il rinnovamento della politica partitica può accadere di tutto…

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