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Da Torino alla Val Susa, finalmente un po’ di lotta di classe

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Torino è una città particolare del contesto italiano, è uno tra quei luoghi che anticipano i cicli storici, ne sanciscono la chiusura, ne rappresentano radicalizzate le cesure. Anche in questo suo canto del cigno, in realtà iniziato poco meno di 40 anni fa, indica precocemente delle tendenze che si aprono. Perché se c’è un fatto vero è che, in effetti, l’elezione a sindaca di Chiara Appendino ha tracciato la fine, nella continuità, della parabola di deindustrializzazione della città dell’automobile. Si dice che Torino sta morendo, ma fuori dalla zona del centro, fuori dai quartieri bene, è morta da molto tempo. Il conseguente rinculo però è arrivato infine a bussare là dove dormivano tra cuscini pieni dei soldi delle grandi opere e dei grandi eventi sonni tranquilli i veri padroni della città. Dicevamo poco meno di 40 anni fa, perché questo è il tempo che è passato dal 14 ottobre 1980, il giorno della cosiddetta “marcia dei quarantamila”. In quella occasione qualche migliaio, a differenza di quanto riferito dalle cronache, di padroni, colletti bianchi e borghesia cittadina scesero in piazza in opposizione alla dura fase di conflittualità operaia che ancora viveva dentro le fabbriche torinesi. Quella marcia sancì simbolicamente la fine del movimento operaio e aprì l’epoca della contrattazione sindacale, dei licenziamenti di massa, della delocalizzazione, del ritiro del welfare dalle periferie, della precarietà, della lunga marcia verso il declino. I padroni allora festeggiavano la vittoria, ma la storia, si sa, presto o tardi presenta il conto e le contraddizioni riemergono in forma diversa e inaspettata. Ora come allora le facce della reazione sono le stesse: le elites cittadine che, spaventate che i loro affari non procedano come al solito, lanciano strali sabaudi e arroganti contro il popolino a loro parere ignorante che ha votato i Cinque Stelle nella speranza di poter respirare un po’. Speranza vana? Può darsi, ma che boccata d’aria è stata vedere le facce smunte dei Fassino, degli Esposito fare bagagli da quelle aule che ritenevano di loro proprietà? E dunque sulle gazzette ufficiali si celebrano le madamin, che dall’alto del loro stile, della loro compostezza danno dell’ignorante a destra e a manca a chiunque non sia d’accordo con loro. Ma ad incolonnarsi dietro sono tutti i soliti arraffoni, gli azzeccagarbugli, i parassiti che hanno spolpato Torino e che ora vogliono che si vada avanti, per finire il lavoro.

Gli è andata bene, d’altronde era nell’aria e soprattutto sui giornali. Per chi ha vissuto a Torino queste ultime settimane sono state un martellamento incessante con un articolo ogni tre o quattro ore, agiografie degli organizzatori, truismi sull’andare avanti (come se qualcuno volesse andare indietro), paginone di pubblicità graziosamente offerto rispettivamente su La Repubblica e su La Stampa alla vigilia della manifestazione, addirittura un efficace servizio meteo che annunciava giubilante “nessuno pioggia domani per la manifestazione sitav”. E poi email e ingiunzioni a partecipare da parte degli ordini professionali, delle associazioni di categoria, di alcuni sindacati confederali (CISL e UIL), della Confcommercio, dell’Ascom, della Confartigianto, dell’Anci, della Confape, dell’Amma e di ogni corpo intermedio della città di Torino. Certo una piazza piena di capelli bianchi e funzionari (gli organizzatori hanno provato a raddrizzare il tiro sul finale con una raccolta firme in un paio di licei lanciata dai figli di un dirigente della Comau e di un deputato PD) ma sarebbe sbagliato vedere nella giornata torinese una semplice bolla mediatica.

Rabbia borghese

Leggendo i quotidiani prima e passeggiando per piazza castello poi, ciò che risaltava subito agli occhi era l’afflato identitario che ha caratterizzato la mobilitazione. La condiscendenza compiaciuta verso le madamin dell’alta borghesia torinese alla base dell’iniziativa (una è la presidente del rotary club di Crocetta…), il metterci la faccia da parte di manager, dirigenti bancari e di tutta l’aristocrazia cittadina, soprattutto il disgusto profondo per i brutti, sporchi e cattivi saliti dalle fogne del web e arrivati fino al governo del paese. Quelli che non sanno usare le H, gli idioti che non capiscono il Progresso e lo Sviluppo, i montanari che insistono contro le Grandi Opere Per Rilanciare il Paese. La TAV era quasi assente, e i partecipanti poco o nulla sapevano della Torino-Lione per loro stessa ammissione. C’era voglia innanzitutto di ri-cementare un’identità soggettiva dopo un decennio di erosione di egemonia della forma impresa come garante della miglior organizzazione sociale, della crescita dell’economia come misura del benessere e del mercato come orizzonte invalicabile della politica. C’era il piacere complice del riconoscersi, dopo tanti mesi di disorientamento, negli editoriali delle principali firme dei quotidiani torinesi. Ceto medio progressista e borghesia cittadina finalmente, di nuovo, insieme.

Il termine che più ricorreva nel gruppo Facebook “Si Torino va avanti”, motore della manifestazione lanciato dalla responsabile comunicazione di intesa San Paolo, era “non sono sceso mai in piazza in vita mia, ma lo farà per la prima volta domani”. Il che dice molto, forse tutto. Lasciando da parte la pochezza umana di chi non ha mosso un dito davanti alla devastazione politica, economica, etica e ambientale che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni ma sente di doverci mettere la faccia per un treno merci, c’è soprattutto una classe che sente per la prima volta che i propri interessi non sono garantiti. E che deve mettersi in moto. È la fine del sogno delle élite come sfera separata dal sociale, della maggioranza silenziosa che può farsi gli affari suoi, è il ritorno di un inedito attivismo borghese che abbiamo visto soltanto quando i più basilari assetti di potere vengono rimessi in questione.

Alla ricerca della Grande Restaurazione Democratica

Spaesamento e paura sono i sentimenti che hanno caratterizzato gli ultimi mesi una grande parte della classe dirigente del nostro paese. Dopo la sorpresa del 4 marzo, quando è diventato evidente che tutto era cambiato e che era impossibile il ricompattarsi un blocco borghese dietro una grande coalizione tra PD e Forza Italia, la rachitica opposizione al governo ha cercato con fatica il suo vocabolario e il suo orizzonte di azione. Non è un caso che, dopo mesi passati ad urlare al montare del fascismo incarnato dal governo pentaleghista, il primo grande momento di “lotta al populismo” che ha trovato l’approvazione entusiasta dei giornali e dei partiti politici dell’opposizione tutta, non sia stato quello per combattere l’attacco ai diritti delle donne rappresentato dal DDL Pillon o le leggi razziste del decreto Salvini, completamente ignorate dai media, ma si sia coagulato in un’opposizione esplicita al movimento sociale e ambientale più forte e radicato degli ultimi 20 anni: il movimento notav.

Ma perché la prima vera opposizione al governo del cambiamento si dà sul tav? Semplicemente perché la questione delle grandi opere è l’unico vero cambiamento possibile del “governo del cambiamento”. Non è una nuova forma di industrializzazione e valorizzazione attraverso il mercato della formazione e il lavoro di consumo come il reddito di cittadinanza. Non è, soprattutto, un nuovo patto sociale tra capitale e lavoro. Fermare le grandi opere significa non distribuire più le carte di un gioco truccato. Di nuovo, non è un caso che la leva per la reazione delle classi dominanti sia stata la mera ipotesi di fermare la Torino-Lione. Ciò che abbiamo cercato di spiegare negli ultimi venti anni è la radicalità di questo movimento partito dalla Val di Susa per irradiarsi poi in tutta la penisola. Perché il movimento notav è ciò che, a nostro avviso, è ciò che è andato più a fondo su cosa è il capitalismo e cosa è la democrazia ponendo domande all’altezza della crisi sistemica in cui siamo immersi. Cosa significa sviluppo? Chi decide sui territori? Come si usano le risorse comuni? C’è un’altra comunità possibile che non passi dalla mediazione dell’opinione ma dall’attivazione politica? È questa la forza maieutica, ancor prima che politica, del conflitto sociale. Quando c’è ed è forte, apre l’orizzonte dei possibile, chiarisce i fronti e il campo della contesa. Obbliga il nemico ad uscire allo scoperto senza potersi trincerare dietro il presunto interesse generale. Lo obbliga a farsi esplicitamene classe-parte.

Sono gli stessi manifestanti si tav torinesi che accusavano lo stop all’opera di essere portatore di “decrescita e immobilismo”. Non è una questione di costi e di benefici, dicono, accusandoci di non voler soltanto fermare un treno ma di voler far entrare nell’orizzonte del possibile un altro modello di sviluppo. È proprio così. C’è una forza che abbiamo costruito in vent’anni di legami e di lotta. E c’è un spazio di politicità latente ma dalle potenzialità ricchissime che si apre davanti a noi nei prossimi mesi. Si comincia l’8 dicembre prossimo, a Torino. A sara düra, ma questo lo sapevamo già!

 

 

 

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